Comincio con un avvertenza: sto per recensire il libro di un amico. Io non sono particolarmente indulgente verso i libri degli amici. Semmai, tendo ad amplificare i miei sentimenti: se non mi piacciono, mi dà ancora più fastidio; se i piacciono, mi piacciono forse un po’ più del dovuto. Questo è un libro che mi è piaciuto. Mi sono fatto un esame di coscienza e ha continuato a piacermi. Quindi potete prendere per buono quanto vi sta per scrivere il vostro fallibile recensore, perlomeno quanto tutto il resto che scrive.
Detto questo, Perduto per sempre è il secondo romanzo di Roberto Moroni, meglio noto ai blogger come The Petunias. A differenza del primo, che avevo letto in bozze e al quale avevo in minima parte collaborato, questo è uscito senza che ne sapessi nulla, e ho cominciato a leggerlo senza nessun tipo di aspettativa. Mi ci sono trovato dentro, e in pochi minuti mi ha preso completamente. Sarà forse perché il primo capitolo ha un protagonista che è bambino nei primi anni Settanta, come lo sono stato io. E ho riconosciuto all’istante come vera non solo l’ambientazione, con tutti i suoi oggetti che una volta mi erano familiari e che oggi avevo dimenticato o quasi (i gettoni telefonici! il Ping-o-Tronic!). Ma anche lo sguardo, quello di un decenne che comincia a sperimentare sulla propria pelle il mondo reale senza schermo. Ho riconosciuto me stesso e sono rimasto avvinto dalla narrazione. Da qui in poi ho girato le pagine con l’atteggiamento non del critico, ma del lettore accanito.
Di che parla Perduto per sempre? Parla di un ragazzo che diventa adulto. Che ha un padre ingombrante, per usare un eufemismo. Anzi, per dirla tutta, un padre proprio stronzo. E che mette in atto un complicato piano. Per difendersi, per vendicarsi, per evitare di diventare la copia malriuscita di suo padre. Detto così sembra poca cosa. Quello che non vi posso raccontare, ma che dovrete leggere, sono i personaggi, così ben costruiti che li si ama o (soprattutto) li si odia come persone vere, anche quelli minori. E una trama che, pur senza meccanismi complicati e rivolgimenti, tiene in sospeso fino all’ultima pagina.
Viene spontaneo il paragone con lo strombazzatissimo Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno. Ambedue i libri, infatti, parlano di un giovane di famiglia ricca che cresce schiacciato dal peso di avi troppo ingombranti. E tuttavia, là dove Piperno si sforza difare il Philip Roth italiano, i suoi personaggi mi rimangono estranei come figurine, divertenti ma non veri. Mentre i personaggi di Roberto a me sembra di conoscerli, e la società in cui vivono mi sembra la mia. Soprattutto, mi hanno dato emozioni molto più forti, e i buoni libri sono fatti di emozioni.
Questo è quanto. Gli acquisti di Natale sono già in corso, se non sapete cosa regalare date una spintarella a questo libro, che lo merita.
Questa recensione appare anche su Il Leggio.