Per questo Natale avevo fatto dei grandi progetti: continuare ad aggiornare il blog anche nel periodo natalizio. Ovviamente ho miseramente fallito, e non sono neppure riuscito a fare gli auguri di Natale in tempo. Rimedio con questa veduta bolzanina: la facciata di una banca trasformata in originale calendario dell’Avvento. Spero che abbiate passato un buon Natale, io sì.
Mese: Dicembre 2007
Quiz amministrativo
In questi giorni ho dovuto fare richiesta del permesso di parcheggiare la mia auto nelle zone riservate ai residenti. Il problema è che il veicolo non è solo mio, ma risulta appartenente anche a mia madre e mia sorella (lo so, pessima scelta, ma ormai le cose stanno così, fare il passaggio di proprietà costerebbe altri soldi). Bisogna sapere che mia madre vive a Bolzano, e mia sorella a Bologna, quindi non sono facilmente reperibili per firmare documenti.
Sono andato all’anagrafe per chiedere cosa devo fare per ottenere il permesso, visto che l’auto la uso io. Indovinate cosa mi hanno risposto, scegliendo tra queste due possibilità:
- Visto che sia mia madre, sia mia sorella non sono residenti, è sufficiente richiedere il permesso per me: visto che gli archivi dell’anagrafe sono computerizzati, è semplice e facile verificare che gli altri proprietari dell’auto non hanno diritto al permesso e, quindi, non c’è pericolo di duplicazione.
- Per ottenere il permesso è necessario che ciascuno degli altri proprietari del veicolo firmi un documento in cui rinuncia alla possibilità di ottenere un permesso di sosta residenti, anche se non è affao residente e, anzi, in questo momento risiede a Melbourne.
Se avete indovinato la risposta esatta, non vincete niente. Se proprio ci tenete posso darvi un po’ della mia incazzatura. Se non avete indovinato, contattatemi: ho delle quote immobiliari del Colosseo da vendervi…
Ancora sulla questione Luttazzi…
Voglio linkare (via Ubimario) lo splendido post di Leonardo sull’argomento. Sacrosante parole.
Libro: La croce Honninfjord
Bjorn è l’archivista che si occupa di gestire un’antichissima raccolta di spartiti musicali che ha sede in una cittadina norvegese. Quando riceve la visita di Marie, una ragazza francese convinta di essere la figlia del musicista Honninfjord-Dervinski, Bjorn se ne innamora. Per conquistarla, si dedica interamente ad aiutarla nella sua ricerca di uno spartito che dovrebbe contenere la prova della sua discendenza dal compositore, morto in circostanze misteriose durante la Seconda Guerra Mondiale. Si troverà così invischiato in una trama che ha le sue origini ai tempi della resistenza norvegese contro i nazisti, o forse addirittura nell’Alto Medioevo agli albori della musica polifonica.
La croce Honninfjord è un romanzo decisamente complesso, che intreccia una trama ambientata nell’800 d. C:, una nel 1944 e una terza nel dopoguerra, ulteriormente spezzettata in vari linee temporali alternate. Tanto di cappello al giovanissimo autore esordiente Giovanni Montanaro per essere riuscito a gestire una materia così intricata mantenendola sotto controllo.
Al di là di questo, però, non lo considero un romanzo riuscito. Innanzitutto, una delle idee che stanno alla base del libro, quella per cui la polifonia sarebbe espressione di pluralismo e tolleranza, mentre invece la monodia corrisponderebbe a pensiero unico e dittatura, mi pare forzata. O meglio, può anche andare bene per la parte ambientata nel Medioevo, ma dubito che i nazisti, che avevano adottato un compositore moderno e dissonante come Wagner, potessero disprezzare la polifonia per motivi ideologici.
A parte questa critica di fondo, il problema principale del romanzo è che mette di gran lunga troppa carne al fuoco, risultando così difficile da digerire. Le rivelazioni si susseguono ininterrottamente, e all’ennesima scoperta per cui X è il padre di Y o l’assassino di Z il lettore cessa di stupirsi per eccesso di colpi di scena. Inoltre i toni della narrazione sono troppo variabili: a pagine molto drammatiche e a serissime dissertazioni musicali se ne alternano altre d avventura di serie B, in cui spostando una torcia in una grotta si può aprire un passaggio segreto come in Frankenstein Junior. Una maggiore semplicità e chiarezza di intenti avrebbero giovato.
In definitiva, La croce Honninfjord svela un nuovo autore con indubbie potenzialità, ma questo primo tentativo è acerbo. Lo aspettiamo al prossimo.
Film: La Bussola d'Oro
Lyra è una dodicenne che vive in un mondo diverso dal nostro, anche se simile, in cui ogni essere umano è accompagnato da uno spirito dall’aspetto di un animale, il daimon, dal quale non si separa mai dalla culla alla tomba. La ragazzina è sotto la protezione dell’università di Oxford, in quanto i suoi genitori, di nobile origine, sono scomparsi. Quando un’ambigua signora obbliga il rettore a darle in consegna la bambina, questi le consegna di nascosto uno strumento simile a una bussola che, se correttamente interrogato, è in grado di rispondere a qualsiasi domanda. Quando Lyra scopre che la donna è in combutta con coloro che, per scopi misteriosi, rapiscono bambini, fugge. Di lì a poco si ritroverà, insieme a una strega, a un’aeronauta e a un orso guerriero parlante, alla guida di una spedizione nell’estremo Nord volta a liberare i bambini scomparsi. Tratto dal romanzo di Philip Pulman.
Il film arriva in Italia dopo un flop negli Stati Uniti e con un aureola di recensioni negative. Sarà merito delle mie aspettative conseguentemente basse, ma in realtà il film mi è parso molto migliore del previsto. Direi che sostanzialmente il film presenta gli stessi pregi e difetti della serie di film tratta dai romanzi di Harry Potter. I pregi: una ricostruzione fedele, credibile e dettagliatissima dei luoghi e delle atmosfere del romanzo, e un casting molto azzeccato, con attori di nome anche per ruoli molto piccoli. Tutti gli interpreti dei ruoli secondari mi sono sembrati molto in parte, e anche l’esordiente protagonista Dakota Blue Richards, pur non essendo stupefacente, mi è comunque sembrata convincente (molto più di alcuni dei melensi ragazzini di Le Cronache di Narnia).
Il difetto principale del film è insito nella natura stessa dell’operazione, e cioè far rientrare in un film di meno di due ore una storia molto lunga e complicata rimanendovi fedeli. Bisogna dire che il regista e sceneggiatore Chris Weitz ha fatto uno sforzo encomiabile, simile a quello fatto da Peter Jackson per Il Signore degli Anelli, rimaneggiando la cronologia del romanzo, comprimendo pi scene insieme, ma rispettando sostanzialmente la natura del mondo e della storia originali. Devo dire che in alcuni punti Weitz ha persino migliorato la storia: enfatizzando il personaggio di Lee Scoresby, che nel romanzo è più defilato, e soprattutto rimandando la rivelazione dell’identità dei genitori di Lyra, che viene svelata non day gyziani ma da Marisa Coulter, con un’efficacia drammatica a mio avviso maggiore. Questo però non evita che il film appaia spesso in affanno nel tentativo di concentrare in pochi secondi scene che avrebbero bisogno di tempi lunghi per risultare efficaci. La sottigliezza delle relazioni tra i personaggi va perduta, e anche il realismo ne soffre, dato che Lyra sembra spesso intuire come per magia cose richiederebbero invece lunghe ricerche o spiegazioni.
Va notato che il film evita di mostrare i due eventi più drammatici del libro, cioè le morti di due bambini. E soprattutto che finisce un po’ prima del romanzo, creando così la parvenza di un finale ma lasciando Lyra in viaggio per raggiungere il padre insieme ai suoi compagni di viaggio.
In conclusione, chi ha letto e apprezzato il libro può senz’altro gradire il film, che non tradisce l’originale ed è realizzato con cura. Chi invece non lo conosce potrebbe rimanere spiazzato da un’opera che descrive molte cose troppo frettolosamente e si conclude lasciando molte questioni in sospeso.
Sarà interessante vedere se saranno realizzati i seguiti, il cui contenuto, tra l’altro, è per molte ragioni molto più scabroso da rappresentare. Certo, il film non merita i giudizi negativi con cui è stato accolto, e penso che sarebbe veramente preoccupante se l’insuccesso americano fosse dovuto a motivi religiosi.
Considerazioni sparse intorno al caso Luttazzi
- Una necessaria premessa: io considero Luttazzi un genio. A mio avviso, non esiste nessun altro che abbia portato nella satira italiana tanta innovazione, che si sia sobbarcato tanti rischi, e nemmeno che sia riuscito a essere nemmeno lontanamente divertente quanto lui quando centra il bersaglio. Coloro che lo criticano perché parla di cacca e pipì dimostrano di non avere neppure provato a capirlo. E chi lo accusa di aver copiato dagli americani crede di criticarlo e invece gli fa un complimento, perché lui è l’unico ad essere riuscito a trapiantare con successo nel nostro Paese un certo tipo di comicità. Poi, certo, non sempre è divertente, a volte è incomprensibile o inutilmente sforzato. Ma questo è inevitabile quando si fa comicità non banale. Per dire, anche Cochi e Renato ai loro tempi a volte potevano risultare impenetrabili. E’ il prezzo che si paga frequentando strade poco battute.
- E aggiungo: tanto la sua satira è tesa a superare ogni limite, quanto le posizioni politiche che assume sono intelligenti ed equilibrate (si veda quando si è espresso sul caso Grillo).
- Detto questo, devo dire che la prima puntata di Decameron, l’unica che per ora ho visto, non mi ha entusiasmato. In primo luogo, il tono era troppo incazzato. Ora, Luttazzi ha tutte le ragioni del mondo per essere incazzato con un mucchio di gente. Ma questo non toglie che un eccesso di rabbia nuoccia alla satira. Le persone incazzate che battono sullo stesso tasto diventano noiose anche quando hanno ragione. Poi ho trovato inefficaci, noiosi e retorici i siparietti con gli antichi greci che discutono. E infine, ho avuto la sensazione che, per evitare la possibile accusa di essersi ammorbidito per rientrare in televisione, cercasse senza costrutto un modo per apparire più scandaloso di quanto ci si potesse aspettare (ed è difficile, trattandosi di lui). Per esempio, le scenette col cadavere del padre non mi sono parse divertenti e nemmeno scandalose, solo noiose.Sento dire che il programma è migliorato gradatamente, e penso che guarderò qualche altra puntata per verificare.
- La battuta su Giuliano Ferrara, presa nel suo contesto, aveva perfettamente senso. Non era certamente una delle battute migliori di Luttazzi, ma non si può dire che fosse gratuita. Lo ha ammesso perfino Ferrara.
- La sospensione del programma da arte di LA7 è totalmente pretestuosa. La battuta sarà stata forte, ma non è nulla più di quanto Luttazzi abbia detto e fatto mille volte nei suoi spettacoli. È ridicolo pensare che non si aspettassero battute del genere quando gli hanno affidato uno spazio. L’unica è pensare che il programma abbia dato fastidio a qualcuno. Ed è probabile che questo qualcuno sia il Vaticano, o perlomeno la squadra di atei devoti che del Vaticano fa gli interessi.
- Giuliano Ferrara è una delle persone che disistimo di più in assoluto. E insieme a lui il suo giornaletto finanziato con soldi pubblici grazie a un trucco palese, e scritto da gente per cui intelligenza significa assumere la posizione più stronza possibile nascondendosi dietro trucchi retorici per farla franca (qui un esempio tra tanti). Credo che il fatto che Ferrara sia tutt’oggi uno dei più influenti giornalisti italiani possa e debba fare scandalo, ed è proprio qui che andava a parare la battuta di Luttazzi.
- Dei tre epurati dopo l’editto bulgaro, Luttazzi ha subito un esilio molto più lungo, non è mai rientrato in RAI, e ora non riesce a rimanere nemmeno a La7. Il perché è evidente. Enzo Biagi era un giornalista sicuramente rispettabile, ma che aveva fatto il suo tempo già da decenni. Santoro era ed è un giornalista-politico, che può fare dentro e fuori dal Parlamento e dalla redazione come meglio crede. Le posizioni di ambedue erano prevedibili come il sorgere del sole. Luttazzi invece era l’unico cane sciolto, l’unico che desse fastidio anche a sinistra, l’unico che non fosse chiaramente ascrivibile in uno schieramento politico, pur avendo opinioni politiche nettissime. E infatti quasi nessuno, tra politici e giornalisti, si è speso perché potesse tornare in televisione.
- In conclusione, trovo questa seconda epurazione di Luttazzi un fatto tristissimo. E ancora più triste il fatto che tra tanti commentatori, anche di sinistra, da Vittorio Zucconi ad Aldo Grasso a Michele Serra a Luca Sofri, nessuno abbia trovato delle ragioni per difenderlo. È qualcosa che rimpiangeremo.
Il massacro del Commodore 64
A chi si intende un po’ di informatica consiglio la lettura dell’articolo sul venticinquennale del Commodore 64 pubblicato oggi da Repubblica, in quanto sembra una specie di esercizio su quanti errori si possono inserire in un singolo pezzo.
Le parti "migliori":
- La sua potenza si limitava a 64 chilobytes. Si confonde la potenza di un computer con la capienza della RAM, ogni commento è superfluo…
- La fortuna del C64 è da imputare alla semplicità di utilizzo che era molto superiore ai due concorrenti che ebbero ben poca fortuna, il PET e il VIC-20. I due "concorrenti" di cui si parla erano in realtà macchine antecedenti prodotte dalla stessa Commodore. Tra l’altro il PET era un personal computer da ufficio, mentre il Vic 20 era concettualmente identico al C64, solo con un hardware meno potente. Difficile dire, soprattutto nel secondo caso, che il C64 ebbe la meglio a causa della maggiore semplicità d’uso.
- La vera chiave di volta fu però il Commodore 128, che ebbe anch’esso un notevole successo per un insieme di caratteristiche che venivano richiesti ai nuovi computer. A parte l’assoluta vacuità dell’espressione "insieme di caratteristiche" (quali?!), l’affermazione è semplicemente non vera: il Commodore 128 fu una macchina di transizione che rimase sul mercato per un tempo brevissimo e non ebbe alcun successo. Il vero successore del C64 fu invece il Commodore Amiga.
UPDATE:
Ho girato le rimostranze di cui sopra alla redazione di Repubblica. Con mia sorpresa, sono stato contattato dall’autore del pezzo, abbiamo discusso un po’, e devo dire che mi ha dato ragione su quasi tutto (anche se mi ha fatto notare che negli USA il Commodore 128 un certo successo lo ebbe). Mi ha fatto comunque piacere scoprire che dietro l’articolo c’era una persona disposta ad ammettere uno sbaglio e a mettersi in discussione)
Nel parlare con l’autore, mi ha impressionato comunque scoprire che in redazione vige l’obbligo di parlare di computer come se il lettore non ne avesse mai sentito parlare. PEr me questo è un colossale segno di arretratezza da parte del giornalismo italiano. In Italia ci avviciniamo probabilmente ad avere 20 milioni di computer in funzione, un numero paragonabile a quello delle automobili circolanti. Eppure i quotidiani quando parlano di automobili si lanciano nei più sperticati tecnicismi, ma quando parlano di computer si esprimono come se parlassero di cose misteriose che spaventano la gente. Eppure io conosco molte più persone che non usano l’automobile rispetto a quelle che non usano il computer…
Film: Il caso Thomas Crawford
Per uccidere la moglie che lo tradisce, un ingegnere col pallino della precisione crea un piano diabolico che gli consente di farla franca pur essendo manifestamente colpevole. Questo manda in crisi il giovane avvocato chiamato a rappresentare la pubblica accusa, che non si rassegna all’impotenza.
Il Caso Thomas Crawford (pessimo titolo italiano che sembra fare il verso, non si sa perché, a Il Caso Thomas Crown; molto meglio l’originale Fracture) aspira a imitare i classici gialli alla Hitchcock, quelli in cui si rimane fino all’ultimo col fiato sospeso per scoprire il dettaglio rivelatore che svela l’operato dell’assassino. E ci riesce anche abbastanza bene, per giunta con un bel capovolgimento: qui l’importante non è scoprire come ha fatto l’assassino a commettere il delitto (lo sappiamo benissimo: lo vediamo all’inizio del film), bensì come ha fatto a manipolare le prove in modo da rendere legalmente impossibile incriminarlo. Ed è piuttosto ben costruita anche la figura del protagonista, un giovane avvocato "vincente" le cui certezze e la cui carriera vanno in frantumi scontrandosi contro il gelido cinismo del colpevole.
Quello che manca al film è un antagonista del tutto convincente. Anthony Hopkins interpreta l’assassino come l’ennesima variante di Hannibal Lecter: intelligentissimo, spietato, cinico, al punto da risultare disumano e meccanico come i congegni che costruisce per diletto. Non riusciamo a capire chi sia, perché sia diventato così. Perciò la tensione regge fin quasi alla fine ma, quando l’arcano viene svelato, il personaggio si sgonfia e il finale risulta meno incisivo di quanto dovrebbe.
Operazione dunque non perfettamente riuscita, ma resta comunque un thriller giudiziario piuttosto godibile e originale, il che di questi tempi non è poco.
Libri: trilogia "Queste Oscure Materie" ("La Bussola d'Oro", "La Lama Sottile", "Il Canocchiale d'Ambra")
La Bussola d’Oro è ambientato in un mondo diverso dal nostro, anche se simile, in cui ogni essere umano è accompagnato da uno spirito dall’aspetto di un animale, il daimon, dal quale non si separa mai dalla culla alla tomba. Lyra è una ragazzina dodicenne che vive sotto la protezione dell’università di Oxford, in quanto i suoi genitori, di nobile origine, sono scomparsi. Quando un’ambigua signora obbliga il rettore a darle in consegna la bambina, questi le consegna di nascosto uno strumento simile a una bussola che, se correttamente interrogato, è in grado di rispondere a qualsiasi domanda. Quando Lyra scopre che la donna è in combutta con coloro che, per scopi misteriosi, rapiscono bambini, fugge. Di lì a poco si ritroverà, insieme a una strega, a un’aeronauta e a un orso guerriero parlante, alla guida di una spedizione nell’estremo Nord volta a liberare i bambini scomparsi.
In La Lama Sottile Lyra, che al termine del romanzo precedente ha lasciato il proprio mondo, si ritrova in un luogo desolato e popolato solo da bambini. Qui fa conoscenza con Will, un ragazzo proveniente dal nostro mondo, e perciò privo di daimon. I due hanno varie avventure che li portano a impossessarsi di una lama in grado di aprire finestre tra un mondo e l’altro.
Infine, in Il Canocchiale d’Ambra si scatena la guerra che si era preparata nei romanzi precedenti, una rivolta degli uomini liberi e degli angeli ribelli contro ogni chiesa e contro Dio, durante la quale Lyra e Will scopriranno il significato degli eventi cui hanno preso parte. Con le loro azioni, inclusa una dolorosa visita nell’Aldilà, determineranno l’esito finale.
Una volta tanto le polemiche dei cattolici contro un romanzo per ragazzi non sono del tutto infondate. Se era davvero ridicolo che qualcuno se la prendesse con Harry Potter per un suo supposto spirito anticristiano, qui il suddetto spirito c’è sul serio. L’autore non si limita a proporre avventure fantastiche trascurando la religione tradizionale, ma propone una vera e propria trilogia alternativa, in cui il Paradiso è un’impostura, e Dio una creatura mortale, bugiarda e fallibile. I religiosi sono tutti personaggi negativi, capaci di torturare e uccidere bambini per raggiungere i loro scopi, mentre uno dei personaggi più positivi è una suora che ha felicemente abbandonato la religione. Insomma, in questo caso la Chiesa fa bene a sentirsi minacciata dai libri (e dai film che se ne stanno traendo). Io, dal canto mio, sono dell’avviso che dovrebbero esserci molti più libri che parlano male della religione, ma diamo a Cesare quel che è di Cesare.
A causa del contenuto anticristiano, l’opera, è stata spesso definiita "l’anti-Narnia", nonostante l’autore abbia sempre respinto i paragoni con C. S. Lewis. A mio avviso, però, l’accostamento con Lewis è abbastanza pertinente, anche se io paragonerei "Queste Oscure Materie", più che a Narnia, alla trilogia del Pianeta Silenzioso. Infatti anche qui abbiamo un primo romanzo che definisce un universo fantastico fresco e avvincente, seguito però da due seguiti in cui il contenuto ideologico-religioso si fa predominante, schiacciando la vicenda e rendendola indigesta.
La Bussola d’Oro è in effetti uno di quei libri che, una volta iniziati, ti afferrano e non ti mollano più. L’universo creato da Pullman non assomiglia a nessun altro, e mescola con sapienza ambientazioni familiari con altre assolutamente bizzarre. Il tutto seguendo una trama non scontata e ricchissima di colpi di scena. Al contronto, La Lama Sottile è a un livello parecchio inferiore: è un libro di transizione (molto più breve degli altri due) che serve a preparare il successivo, non offre alcuna delle meraviglie del precedente, e oltretutto si conclude in medias res. Con Il Canocchiale d’Ambra la vicenda si risolleva e si incontrano nuovi interessanti personaggi e nuovi colpi di scena. C’è anche una parte ambientata in un ulteriore mondo parallelo abitato da esseri dotati di ruote, che appartiene più alla fantascienza che alla fantasy e che ho trovato particolarmente riuscita. Tuttavia il finale è goffo, farraginoso e insoddisfacente e mi ha lasciato parecchio deluso.
Il problema è che, col procedere dei romanzi, si intravede sempre più fortemente la mano dell’autore che, avendo in mente un preciso schema simbolico, forza la mano alle vicende e ai personaggi per farceli rientrare, danneggiando la verosimiglianza della storia e risultando spesso verboso e didascalico. Ne soffrono in particolare i due principali personaggi "adulti", Lord Asriel e Marisa Coulter, i cui obiettivi cambiano in maniera radicale senza che la cosa sia stata adeguatamente motivata di fronte al lettore. Anche il lato "militare" del romanzo ne risente, con personaggi che dovrebbero essere degli autentici titani che si rivelano incongruamente stupidi e incapaci.
Tuttavia, anche non volendo considerare questi difetti, resta un problema strutturale ancora maggiore, e cioè che è proprio la costruzione ideologico-religiosa di Pullman a essere poco convincente. L’autore si oppone alla religiosità organizzata propugnando la libertà di pensiero. Per farlo però costruisce un mondo che si basa profondamente su concetti che sono tipici del pensiero religioso cui vorrebbe opporsi: dualismo mente/corpo e spirito/materia, finalismo, destino e via discorrendo. Il risultato è che la trilogia, invece che raggiungere il suo scopo, lascia il suo lettore con decine di dubbi insoluti. Per esempio: se Dio non si cura di premiare i suoi fedeli, a che scopo esiste l’Aldilà? Se tutti gli esseri senzienti hanno un’anima e un daimon, perché gli orsi, che manifestamente sono senzienti, fanno eccezione? E così via.
Non vorrei che il mio giudizio suonasse troppo negativo. In definitiva, mi sono divertito a leggere la trilogia, che ha dei momenti indimenticabili e alcuni personaggi che lasciano il segno. Tuttavia è indiscutibile che dà il suo meglio all’inizio per poi declinare. A voi decidere se il piacere della partenza valga l’inevitabile delusione finale.