1953. Nena è una giovane pugliese che riceve il primo incarico come maestra in uno sperduto paesino del Salento. È perciò costretta a lasciare la madre e il fidanzato per recarsi in un luogo che sembra rimasto al medioevo…
Devo ammetterlo: vedo film italiani piuttosto raramente. Un po’ me ne dispiace, perché mi piacerebbe tenermi più aggiornato su quello che si produce nel mio Paese. Tuttavia è innegabile che, se mi chiedessero di citare titoli di film italiani di questo millennio che mi siano piaciuti molto, me ne verrebbero in mente due o tre al massimo. Ed è normale che, a forza di noia e delusioni, si smetta anche di voler provare.
Perciò, quando degli amici mi hanno proposto di andare a vedere Il primo incarico dell’esordiente Giorgia Cecere, una parte di me ha sussurrato: “Te ne pentirai”. Però alla fine ha vinto l’altra metà, quella che ha ribattuto: “Ma no, diamo fiducia a un’esordiente, magari è bello, in fondo è in cartellone da più di un mese, non può essere così male”. Secondo voi chi aveva ragione?
Il film gioca tutte le sue carte migliori all’inizio. In effetti bisogna dire che la ricostruzione d’epoca e la fotografia del paesaggio del Salento sono di prim’ordine. Soprattutto, la scena della cena a casa dei contadini, che fanno alla maestra domande ingenue e imbarazzanti, è molto efficace, e rende tangibile la distanza immane che separa la ragazza di città che ha studiato e vuol essere “moderna” e la rigidità del mondo di campagna.
Certo, si tratta sempre del solito ritratto del nostro Sud arcaico e immutabile che abbiamo già visto mille volte (non manca nemmeno la scena col capannello di uomini che si volta a guardare la ragazza che passa), però almeno il compitino è bene impostato. Se la regista ci avesse mostrato come la maestrina riesce gradatamente a conquistare questa realtà ostile, a integrarsi nel paesino e a sviluppare un rapporto con i suoi abitanti, il film sarebbe stato banalotto ma guardabile.
Peccato però che la regista questo non ce lo mostri affatto. Il tema del rapporto con gli scolari e con il resto del paese viene semplicemente lasciato cadere. Fino a un certo punto gli scolari sono degli asini e non imparano niente, da un certo momento in poi sono tutti bravissimi. Come Nena ci sia riuscita non è dato sapere, perché la Cecere si concentra invece su una storia d’amore totalmente priva di senso, non solo anacronistica ma profondamente illogica.
Alcuni esempi. Nena, lasciata dal fidanzato, per reazione va a trombare con un aitante muratore del paese. Solo che i due vengono visti. Lo zio del giovane va a trovare Nena e le dice: “Vi hanno visti, è uno scandalo, parlano di farti lasciare la scuola, ti conviene risolvere il problema sposando mio nipote”. E lei, dopo qualche resistenza pro forma, lo sposa. E qui, secondo me, la credibilità della trama va sotto le scarpe. In un paesino degli anni ’50 una maestra che avesse avuto una condotta non irreprensibile sarebbe stata scacciata a furor di popolo, non le avrebbero chiesto un assurdo matrimonio riparatore. Ma ancora più assurdo è che lei accetti di sposare un muratore ignorante solo per paura di perdere il posto, quando avrebbe potuto semplicemente darsi malata e lasciare il paese. Lui poi le spiega di averla sposata solo perché degli zingari lo avevano minacciato di accoltellarlo se non avesse sposato una trapezista che aveva disonorato (e anche qui la logica fa difetto: perché gli zingari dovrebbero smettere di volerti accoltellare solo perché hai sposato un’altra?). E così via, una forzatura dopo l’altra.
All’illogicità della trama fa da specchio una regia del tutto insufficiente ogni volta che ci sarebbe da mostrare un pochino di pathos. Per esempio, la scena del tentato suicidio è ridicola: sembra di vedere un tuffo in piscina (per non parlare del fatto che una persona che si butta in un pozzo rischia perlomeno delle fratture e l’ipotermia, ed è piuttosto complicato salvarla; ma questo è un classico del cattivo cinema italiano: se la sceneggiatura prevede qualcosa di poco credibile, si fa un bella ellissi per farlo succedere fuori scena, e il problema è risolto). E le scene di sesso sono di una tristezza infinita. Non dico che ci sarebbe voluto un remake di Nove settimane e mezzo, ma se mi mostri una ragazza che per disperazione va a letto con uno che conosce appena, e me la fai sembrare una scena tra due coniugi annoiati, qualcosa non va.
Credo poi che Il primo incarico meriterebbe due Oscar. Uno per il peggior uso delle musiche (ogni volta che c’è un climax emotivo, la regista fa partire un giro di chitarra che smorza la tensione invece di aumentarla), e uno per la scena più ridicola mai vista. Sì, perché la scena in cui lei reincontra il fidanzato, e per l’emozione lui comincia a sanguinare dal naso (non sto scherzando), peraltro senza macchiare con una sola goccia l’immacolata camicia, rappresenta un picco ineguagliato dell’assurdo e del risibile .
Nel mezzo di questo disastro c’è, dalla prima all’ultima scena, Elisabetta Ragonese. Che secondo me è anche una brava attrice: in Tutta la vita davanti mi era piaciuta. Però anche il più bravo degli attori avrebbe difficoltà a rendere credibile una trama così. La povera Elisabetta qui spesso adotta una recitazione esangue e monotona, come se non avesse la minima idea di cosa possa provare il suo personaggio di fronte a tali assurdità. Come biasimarla?
Non mi dilungo oltre: Il primo incarico è un film scritto male e girato peggio, per giunta con un finale che fa incazzare ulteriormente (la giovane maestrina che avrebbe la possibilità di fuggire con il suo amato, ma invece sceglie di ritornare al paesello dove ha trovato… cosa? Meglio non cercare di rispondere). La cosa che mi rattrista di più è che il pubblico, invece che dare fuoco al cinema al secondo giorno di proiezione, continua ad andarlo a vedere! Al Mexico la sala era mezza piena, e un cartello all’ingresso diceva: “Secondo mese!”.
Mi spiace se me la sto prendendo tanto con un film che forse non è più brutto di tanti altri film italiani che escono nelle sale e che io, semplicemente, ho scelto di non vedere. Però credo che, finché si continueranno a finanziare film inani come questo, e finché il pubblico andrà a vederli senza ribellarsi perché è convinto che se un film è “artistico” allora annoiarsi a morte è normale, il cinema italiano continuerà a restare cadavere.
Ottimo e abbondante. Ma non c’era un sinonimo per “inani” :-)))
Eh no, almeno sul mio blog uso tutte le parole che voglio! Anzi, nel prossimo post devo cercare di inserire “soprammercato”, “surrettizio” e, soprattutto, “spiralato”. 😀
Ti sembra poco credibile il sangue dal naso?!? Suvvia tutti gli adolescenti giapp. ah, non siamo in Giappone… ah non è neppure adolescente… ahhhh!