In una delle tante citazioni che gli vengono attribuite, il celebre scrittore di fantascienza e divulgatore scientifico Isaac Asimov ammonisce contro l’idea sbagliata che democrazia significhi che la nostra ignoranza valga quanto l’altrui conoscenza. È un avvertimento che oggi suona particolarmente valido. Purtroppo, sempre più spesso quando si parla di un argomento scientifico o tecnico in grado di generare controversie nell’opinione pubblica, i giornalisti scelgono l’atteggiamento “salomonico” di presentare due opinioni opposte con identico risalto e senza commentare. In questo modo ottengono l’apparenza dell’assoluta imparzialità: sono state presentate tutte le tesi e non si è preso le parti di nessuna. Tuttavia solo di apparenza si tratta. Se una delle due tesi è largamente maggioritaria nella comunità scientifica e l’altra è sostenuta solo da poche persone isolate; oppure se una è sostenuta da prove scientifiche e l’altra solo da speculazioni prive di sostanza, mettendole sullo stesso piano non si fa informazione imparziale, bensì si distorce la realtà.
Un esempio lampante ci arriva in questi giorni dalla pubblicazione delle conclusioni di un corposo studio di meta-analisi sulla medicina omeopatica, condotto dal NHMRC, un’importante istituzione statale australiana di ricerca medica. Lo studio conclude che l’omeopatia non è più efficace di un placebo nella cura di qualunque forma di malattia, e pertanto non dovrebbe essere prescritta dai medici.
Non si tratta certamente di un risultato sorprendente, essendo arcinote le ragioni per cui l’omeopatia ha lo stesso valore scientifico della stregoneria (eviterò quindi di ripeterle). Tuttavia lo studio ha una discreta importanza, in quanto per l’ennesima volta smentisce la pretesa secondo cui ricerche recenti dimostrerebbero l’efficacia dei metodi omeopatici. Analizzando con criteri adeguati i dati disponibili, le prove svaniscono.
Ebbene, come ha dato questa notizia la stampa italiana? Alcuni dei più importanti quotidiani che ne hanno parlato hanno dato uno spazio pari se non maggiore alle tesi della dottoressa Simonetta Bernardini, responsabile dell’ospedale di Pitigliano (se non sapete dov’è Pitigliano, sappiate che è un comune di meno di 4.000 abitanti in provincia di Grosseto, che ospita un ospedale che applica la “medicina integrata”, cioè mescola la medicina scientifica con l’omeopatia e altre pratiche “alternative”).
La dottoressa sostiene in primo luogo che “questo rapporto australiano di cui si sta tanto parlando non è in nessun modo uno studio scientifico: la scientificità di una ricerca si misura in prima battuta dal fatto che viene pubblicata su riviste scientifiche indicizzate peer-reviewed. Su quale rivista sarebbe stato pubblicato? Nessuna”. Si tratta di una sciocchezza. La scientificità dell’istituzione che ha prodotto il rapporto è fuori discussione, e i criteri di ricerca applicati sono stati sottoposti ad analisi da parte di un’azienda indipendente che ne ha certificato l’imparzialità. Non è la pubblicazione su rivista a dare la patente di scientificità a uno studio, ma il metodo del peer-reviewing, che è stato correttamente applicato.
La dottoressa prosegue dicendo che “è incredibile che siano stati presi, non so con quale criterio, 225 studi su migliaia di lavori scientifici che documentano quanto siano efficaci i medicinali omeopatici per diverse patologie. Certo che se si scelgono accuratamente i lavori di ricerca che non documentano l’efficacia dell’omeopatia, questa risulterà per forza di cose inefficace”. Qui Bernardini mostra di non capire quale sia il senso di una metaanalisi comparativa come questa. Non si tratta semplicemente di fare una media di tutti i risultati ottenuti in tutte le ricerche del mondo: così facendo, se avessimo 10 studi fatti male che dicono una cosa e uno studio fatto bene che ne dice un’altra, quelli fatti male stravincerebbero. L’essenza dei lavori di questo tipo sta proprio nello stabilire dei criteri univoci per “pesare” i risultati, eliminando del tutto quelli che non danno sufficienti garanzie, e dando un peso maggiore a quelli più affidabili. Per esempio, il rapporto australiano ha escluso del tutto i lavori basati su meno di 150 pazienti, ritenendo che fossero troppo suscettibili di fluttuazioni statistiche capaci di falsare il risultato. Di conseguenza, è del tutto sensato che le ricerche prese in considerazione siano “solo” 225 (che in realtà è un numero molto grande).
Chi volesse discutere il rapporto australiano, perciò, non dovrebbe farlo perché determinate ricerche non sono state prese in considerazione, ma dovrebbe semmai criticare i criteri adottati per la selezione. Invece la dottoressa Bernardini, come abbiamo visto, dice di non sapere di quali criteri si tratta. In pratica ammette di non avere neppure letto il rapporto!
Riassumendo: su alcuni dei maggiori quotidiani italiani un rapporto scientifico regolare e prodotto da un ente autorevole è stato messo sullo stesso piano di una persona che lo accusa neppure tanto velatamente di essere una frode, nonostante sia evidente che costei non ne conosce neppure il contenuto, e non è in grado di criticarlo nel merito. È buona informazione scientifica questa? Inutile che ve lo dica: no.
Purtroppo tocca anche a me spesso constatare episodi di cattivo giornalismo quali quelli che tu riporti, ove il giornalista avrebbe anche potuto riportare un intervento “di parte”, ma magari prendersi la briga di evidenziare la differenza tra un dato di fatto e un parere, non mi sembra una “pugnalata alle spalle” di chi ha rilasciato la dichiarazione e questo modo di fare lo trovo molte volte sui giornali americani, Che ne pensi tu?
Ciao
Carlo
Pienamente d’accordo. E aggiungo: i “pareri” di persone che sembrano non conoscere o volutamente ignorare i dati reali non bisognerebbe proprio riportarli,se non c’è un obbligo istituzionale.