Film: La passione

NOTA: La rifondazione del blog sta ovviamente impiegando più tempo del previsto. intanto riprendo a scrivere qui, così mi tengo in allenamento.

La passioneGianni Dubois è un regista in disarmo, che non fa più film da cinque anni e temporeggia con produttori e attori attendendo un’idea che non arriva mai. A causa di un incidente condominiale è costretto a recarsi di corsa nel paesino toscano dove ha la seconda casa, e dove la sindaca gli pone un ultimatum: dovrà pagare un monte di danni e affrontare uno scandalo, se non accetterà di dirigere la sacra rappresentazione della Passione del Venerdì Santo. Gianni è costretto ad accettare l’incarico, che presto va a rotoli di pari passo con le sue prospettive di lavoro…
La passione è un film che si lascia vedere volentieri e strappa anche qualche risata. Merito di una coppia di attori tra i più bravi e simpatici del nostro cinema, Silvio Orlando e Giuseppe Battiston, ai quali aggiungo volentieri Corrado Guzzanti (che al cinema è sempre troppo sopra le righe, ma qui, visto che interpreta un attore pessimo e istrionico, ci sta benissimo). E anche di un soggetto abbastanza originale, che rappresenta l’Italia e il mondo del cinema con caustica ironia: in certi momenti sembra quasi di vedere una puntata di Boris. Purtroppo però il film non decolla mai veramente. Colpa di una sceneggiatura troppo disinvolta nel far succedere cose senza spiegazioni (difetto di tantissimi film italiani, e di quelli di Mazzacurati in particolare), e che moltiplica le macchiette (spesso neppure divertenti, come la padrona di casa infoiata) senza sviluppare davvero i personaggi che contano. Ma soprattutto è il finale che delude: blando, incerto e poco convincente proprio come i soggetti creati dal protagonista, invece di dare un senso al film glielo toglie. Peccato, perché le buone intenzioni c’erano. Ma, come troppo spesso avviene nel cinema italiano, sono rimaste tali.

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Film anteprima: Il Mondo dei Replicanti




In un futuro non troppo lontano, il mondo è stato rivoluzionato dall’introduzione dei “surrogati”, robot umanoidi che possono essere controllati a distanza da un essere umano comodamente seduto in una poltrona in casa propria. Usare un surrogato significa esplorare il mondo con una versione più forte e più bella di se stessi, e in più poterlo fare senza correre alcun rischio, dato che la cosa più grave che può accadere è la distruzione del surrogato. La cosa è così attraente che ormai le strade sono popolate solo di surrogati, mentre gli esseri umani stanno rintanati in casa a vivere le loro vite per procura.  Soltanto un ristretto numero di dissidenti vive in riserve dove l’uso dei surrogati è vietato. Ma questo stato di cose rischia di precipitare rapidamente quando qualcuno comincia a usare una pistola che non solo uccide i surrogati, ma contemporaneamente anche le persone a loro collegate…

È evidente che nel girare questo film ispirato a un graphic novel, il regista Jonathan Mostow (già autore del dimenticabile Terminator 3) aveva intenzione di ispirarsi a modelli elevati, come il celeberrimo Blade Runner, esplicitamente citato in alcune scene (e anche nel titolo italiano, mentre quello originale è Surrogates). E in effetti questo non è il “solito” film fracassone pieno solo di sparatorie ed effetti speciali (che pure non mancano), ma riesce a costruire immagini di un mondo che risulta credibile pur essendo totalmente straniante. Un mondo in cui tutte le persone sembrano stelle del cinema (ma hanno a casa un alter ego trasandato e invecchiato), in cui le “persone” assistono con curiosità alle sparatorie, non temendo di essere uccise, o in cui lo stesso corpo meccanico può essere usato in sequenza da più persone diverse. Tuttavia gran parte dello sforzo registico viene vanificato da una sceneggiatura semplicistica, in cui la tecnologia viene descritta in modo inverosimile (un hacker operando da un singolo computer in una qualsiasi stazione di polizia può infettare tutti i surrogati del mondo contemporaneamente…), e usata per veicolare una morale trita (la tecnologia porta le persona a straniarsi e ignorare i propri veri sentimenti) che, nell’era di Internet e di Facebook, suona davvero improponibile. Peccato, perché alcuni spunti del film avrebbero meritato uno sviluppo migliore. Bruce Willis, pur penalizzato dal trucco da bambolotto del suo alter ego meccanico, regge comunque bene il ruolo di protagonista.

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Film: Moon

MoonUna base spaziale sul lato nascosto della Luna, dove si estrae dalle rocce lunari l’elio-3 necessario agli impianti a fusione terrestri, è abitata da un uomo solo, Sam, in attesa che il suo contratto triennale scada e gli consenta di fare ritorno sulla Terra. Un giorno Sam ha un incidente che gli fa perdere conoscenza. Quando rinviene, non ricorda bene cosa gli è successo, e comincia a notare delle incongruenze. Ben presto si accorgerà che la sua situazione è completamente diversa da quella che immaginava…
Moon era un film estremamente atteso. Non solo perché si tratta del debutto alla regia di Duncan Jones, noto per essere il figlio di David Bowie. Ma soprattutto perché è quello che gli appassionati attendevano con sempre maggiore impazienza: un film di fantascienza una volta tanto basato su una sceneggiatura autenticamente fantascientifica nelle situazioni e nei personaggi, e non su un pretesto per sfoderare effetti speciali e battaglie. Dopo averlo visto, posso dire che l’attesa era giustificata solo in parte. In effetti, Moon è davvero un film di fantascienza vecchio stile. Guardandolo è difficile non pensare a 2001: Odissea nello Spazio, Dark Star, 2002 la Seconda Odissea, Atmosfera Zero, Spazio: 1999 e non so più quanti altri film e telefilm di fantascienza del passato. Con questo non intendo dire che si tratti di un film nostalgico o citazionista, ma semplicemente che prende a modello un certo cinema in cui a essere protagonista non era l’azione vertiginosa, ma lo sottile angoscia di trovarsi nell’ambiente ostile e alieno dello spazio. Da questo punto di vista Moon riesce benissimo nell’intento, e chi, come me, aveva nostalgia di questo tipo di cinema non può che rallegrarsene.
Al di là di questo, però, Moon è un film riuscito solo a metà. La prima parte funziona benissimo, e costruisce abilmente la suspence utilzzando elementi classici in maniera originale e inconsueta. Quando però il mistero viene svelato, il film si affloscia un po’. Se da un lato vengono coraggiosamente evitate le soluzioni più ovvie, dall’altro però il potenziale drammatico di molte situazioni viene sfruttato solo in parte, e talvolta svilito da scappatoie che appaiono un po’ troppo facili. Anche il finale appare un po’ troppo semplicistico e positivo rispetto alla materia trattata.
In ogni caso guardare Moon mi ha fatto molto piacere e mi ha riportato a un tipo di cinema che credevo ormai scomparso. Un appassionato di fantascienza semplicemente non può perderselo (tenendo conto che anche a Milano per vederlo bisogna andare in un cinemino d’essai, immagino altrove le difficoltà!).

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Film: Baarìa

Ba'ariaIspirato alla vera storia del padre del regista, Ba’aria (dialettale per Bagheria) racconta la storia di Peppino che, nato in un umilissima famiglia siciliana, riuscirà a trovare l’amore, a costruirsi una famiglia e arriverà a candidarsi al Parlamento con il Partito Comunista, alternando trionfi ad amarezze e delusioni.
Spiace parlar male di un film come Baarìa, perché la sua qualità produttiva è talmente elevata che non sembra neppure un film italiano. La qualità della ricostruzione storica della Sicilia è semplicemente eccelsa, e gli attori vanno tutti da bravo a bravissimo anche nelle più piccole parti (beh, va bene, la Bellucci si limita a farsivedere seminuda e avvinghiata a un muratore; ma che pretendiamo di meglio? )..
Al di là di questo, però, si stenta a trovare un senso al film. Tornatore procede affastellando episodi su episodi, spesso azzeccando gag divertenti che alleggeriscono la lunghissima durata del film (quasi tre ore), ma che spesso ricadono nell’oleografico, nel macchiettistico o nel semplicistico, e ai quali manca comunque uuna direzione generale che porti il film da qualche parte. Accompagnato da una colonna sonora incessante e roboante di Morricone, Ba’aria spesso perde completamente il senso della misura, con insistite autocitazioni e pesanti metafore e simbologie che nulla aggiungono all’insieme. Peccato.

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Film: Crossing Over

Crossing overUn poliziotto che dà la caccia agli immigrati si impietosisce di fronte alle suppliche di un’operaia clandestina messicana, e si interessa della sorte del suo figlioletto perduto. Una modella australiana rischia di essere espulsa dagli USA per un disguido, e viene ricattata da un losco funzionario. Una quindicenne bengalese, per avere espresso un’opinione politica, viene arrestata e minacciata. Il figlio di un immigrato coreano subisce il fascino delle bande di gangster. Un musicista inglese deve fingere interesse per la religione ebraica per poter continuare a lavorare negli USA…
Queste e altre storie si intrecciano nel film di Wayne Kramer Crossing Over, il cui modello ispiratore è, in tutta evidenza, Crash di Paul Haggis, con cui ha inc omune ambientazione (Los Angeles), tema (i conflitti razziali) e struttura a storie intrecciate. Rispetto all’originale, Crossing Over risulta notevolmente inferiore a livello di sceneggiatura. Se in Crash le storie si intrecciavano veramente in modo imprevedibile influenzandosi a vicenda, qui i legami tra i vari fili narrativi appaiono piuttosto pretestuosi. Inoltre alcune storie appaiono meno significative rispetto ad altre, e sarebbe stato preferibile fossero in numero inferiore, ma più approfondite a livello psicologico (come accadeva in un altro bel film sull’immigrazione, L’Ospite Inatteso di Thomas McCarthy). In ogni caso, il film non è privo di momenti alti, forse anche perché il regista, immigrato egli stesso negli USA dal Sudafrica, riesce a trasmettere parte della sua esperienza personale. Gli interpreti famosi, a partire da un cupo e malinconico Harrison Ford, fanno il loro dovere, pur in modo non memorabile. Ma sono alcuni degli attori più sconosciuti a emozionare di più.

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Film: Star Trek


Una colossale astronave romulana, uscita dal nulla, attacca una nave terrestre distruggendola, per poi scomparire. Venticinque anni dopo la nave riappare attaccando il pianeta Vulcano. Ad affrontarla arriva l’Enterprise, con a bordo anche uno scapestrato cadetto, James Kirk, figlio del comandante della nave distrutta…
Fino a poco tempo fa, pareva certo che di Star Trek non si sarebbe più sentito parlare. Dopo quarantacinque anni, cinque serie televisive e dieci film, di qualità declinante fino all’imbarazzo, si poteva tranquillamente pensare il potenziale dell’universo trekkie fosse definitivamente esaurito. Invece J. J. Abrams (la mente dietro alla serie televisiva Lost, se qualcuno non lo conoscesse) ha compiuto un piccolo miracolo, grazie a un’idea forse persino scontata, ma riuscitissima: un paradosso temporale. Nel corso del film veniamo infatti a scoprire che, a causa di un viaggio nel tempo, la storia è stata cambiata. Possiamo quindi goderci il meglio di entrambi i mondi: da un lato i personaggi sono gli stessi che amiamo da oltre quarant’anni, con i loro tic, i loro modi di dire e di fare, e anche numerosi elementi della loro storia. Dall’altro però le loro vite sono state differenti da quelle che conosciamo, e quindi possono essere diversi quel tanto che basta da poterli aggiornare senza ledere la continuità storica e logica della serie. Così vediamo i membri dell’equipaggio dell’Enterprise amare e fare sesso, in modi che prima avevamo potuto solo intuire. Vediamo i loro caratteri estremizzati, e li vediamo immersi in un atmosfera fa film d’azione del XXI secolo che con il vecchio Star Trek ha poco a che vedere. Il risultato è essenzialmente un film divertente, che manda in brodo di giuggiole il trekkie veterano che ritrova i suoi beniamini aggiornati al Duemila, ma che risulta digeribile anche a chi della saga conosce ben poco. Il che non signficica che il film sia privo di difetti. In particolare il cattivo di turno è del tutto monodimensionale, e le sue semplicistiche motivazioni mal si accordano con le sue azioni arzigogolate e sproporzionate. Ma, in fin dei conti, anche molti episodi passati della saga avevano difetti del genere, e non ci avevano impedito di goderceli. Rispetto al film d’azione medio, questo Star Trek risulta molto curato, con un buon equilibrio tra scene d’azione e cura dei personaggi, e soprattutto con alcuni tocchi umoristici che gli impediscono di risultare troppo pesante. Giudizio positivo, quindi, e speriamo che negli inevitabili seguiti la qualità venga mantenuta. Certo, se poi ogni tanto uscisse un film di fantascienza veramente innovativo, invece che basato su una serie del secolo scorso…

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FIlm: Come Dio comanda

Dal romanzo di Niccolò Ammaniti. Rino Zena è un operaio disoccupato, seguace di una mistica nazista e violenta, ma a modo suo integerrimo, che si prende cura, oltre che del proprio figlio tredicenne Cristiano, anche di un povero ritardato, soprannominato Quattro Formaggi. Rino vive nel terrore che gli assistenti sociali gli possano portare via Cristiano. Durante una notte di tempesta, una serie di eventi drammatici cambierà la vita dei tre personaggi…
Gabriele Salvatores aveva già trasportato sullos chermo con successo un altro romanzo di Ammaniti, Io non ho paura. Ma lì l’impresa era facile, dato che il libro era breve e seguiva un’unica vicenda, e sembrava fatto apposta per finire sullo schermo. Un libro come Come Dio comanda, lungo intricato e pieno di deviazioni, presenta ben altre difficoltà. Era inevitabile "asciugare" la storia eliminando dei personaggi, e probabilmente Salvatores ha fatto l’unica scelta possibile eliminando dalla trama Danilo e tutta la storia della rapina che lui e Rino nel romanzo tentano disastrosamente di organizzare. E tuttavia non si può fare a meno di notare che, riducendo in questo modo la storia, buona parte del contenuto del libro va perduta. Il ritratto spietato del Nordest in cui sono solo i soldi che contano viene affidato solo alla discutibile retorica nazista di Rino. E anche il tema principale evocato dal titolo, che è quiello per cui tutti i personaggi chiamano continuamente in causa un Dio sfuggente (ma reso presente dalla colossale tempesta), risulta parecchio indebolito. Alla fine tutto il romanzo risulta ridotto a un rapporto tormentato ma solido tra padre e figlio. E ci si chiede: possibile che il cinema italiano debba ridurre qualunque tema a una questione di rapporti familiari?
Per il resto, che Salvatores sia un regista tecnicamente dotato non èin discussione, e infatti il film ha un ottimo casting, delle location perfette, sonoro e fotografia di qualità (splendide le scene notturne sotto la pioggia), suspence da vendere. Un buon prodotto, insomma, cui manca però la scintilla che ne farebbe veramente un film d’autore.

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Film: "Pranzo di Ferragosto"

Gianni, che vive insieme all’anziana madre e non riesce a sbarcare il lunario, si trova costretto ad accettare la proposta dell’amministratore del condominio, che gli coprirà parte delle spese se ospiterà la propria madre per Ferragosto. Ma al momento cruciale l’uomo gli affida non una sola vecchietta, ma due. E anche il medico di fiducia, che lo cura gratis, in cambio gli chiede di ospitarne una quarta…
Pranzo di Ferragosto è il film di cui tutti in questo momento parlano bene. Devo dire però che, anche se il film si lascia vedere con piacere, arrivato ai titoli di coda mi sono trovato a chiedermi il perché di tutto questo entusiasmo. È vero che Gianni Di Gregorio, regista e protagonista, è bravo e simpatico. È vero che le quattro vecchiette, non professioniste, se la cavano meglio di attrici navigate. È vero che il film emana quasi sempre una sensazione di assoluto realismo, come se le scene fossero state improvvisate sul momento (e probabilmente è proprio così, come dimostrano spesso anche le inquadrature disordinate el a fotografia sgranata). Ed è vero che il ritratto della vecchiaia che emerge dalle immagini è veritiero e incisivo senza mai scadere nel patetico o nella macchietta. E però, a mio avviso, questi dovrebbero essere solo gli ottimi elementi di partenza di un film, che poi li dovrebbe utilizzare per farci qualcosa. Invece, dopo appena un’ora e un quarto, una volta che tutte e vecchiette ci sono diventate familiari, il film finisce (con un finale che alcuni definiscono spiazzante, ma che a me è parso abbastanza prevedibile) e scorrono i titoli di coda. Non so, a me pare un po’ poco. Anche nei più strampalati e improvviati film di Jim Jarmusch non ci si limitava a presentare i personaggi e a farli interagire, ma c’era anche qualche spunto di sceneggiatura. Qui invece ci si accontenta di un risultato che carino è carino, figuriamoci, e lo è anche in un senso diverso e migliore del classico film italiano "carino". Però da quello che viene spacciato per film-rivelazione mi aspettavo di più.

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Film: Kung-Fu Panda

Il maestro di una scuola di Kung-Fu deve scegliere quale degli allievi è destinato a diventare il guerriero-drago, e a ricevere la pergamena che gli consentirà di assumere un enorme potere guerresco. Ma, inopinatamente, i segni del destino indicano Po, un panda grasso e inetto che sembra del tutto inadatto a diventare un temibile guerriero. La situazione si complica quando un feroce ex-allievo della scuola fugge di prigione e si prepara a compiere la sua vendetta sugli abitanti del villaggio…
Non sono mai stato un grande appassionato delle animazioni Dreamworks, sempre più occupate ad ammiccare al mondo adulto e contemporaneo che a raccontare una bella storia (persino l’osannata serie di Shrek si macchia, a mio avviso, di questo peccato). Ma, finalmente, ecco l’eccezione: Kung-Fu Panda è un cartone animato godibilissimo che, proprio perché non si fa carico di ambizioni eccessive, coglie perfettamente nel segno. La storia, semplice, lineare e risaputa, potrebbe essere quella di un qualsiasi film di arti marziali di Hong Kong. Gli autori si sono limitati a lavorare sulla caratterizzazione dei personaggi, e hanno fatto un lavoro splendido. Gli si potrebbe rimproverare che soltanto Po e il suo maestro Shifu sono personaggi davvero sviluppati, ma questo è uno dei pregi del film: l’avere evitato complicazioni eccessive. La trama scorre piacevolmente alternando momenti drammatici e comici, e si ride per le situazioni più che per le singole gag. La regia parodizza argutamente gli eccessi della filmografia di Hong Kong, inclusi rallentatori e fermi immagine, ma senza appesantire con troppe citazioni. Persino la morale "Zen" della faccenda viene illustrata in modo poetico e senza eccessi di retorica (un plus assoluto del film: la totale assenza di numeri cantati!). Insomma un gioiellino da vedere senz’altro, per tutte le età.

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Film: E venne il giorno

E venne il giornoA New York, centinaia di abitanti vengono improvvisamente colti da una mania suicida che li spinge a uccidersi con il primo metodo a portata di mano. Inizialmente si sospetta un atto terroristico ma, quando l’epidemia si diffonde in tutto il nord-est degli Stati Uniti, le spiegazioni ufficiali non reggono più. Un professore di scienze, accompagnato dalla moglie, con cui è in crisi, e dalla figlia di un amico rimasto disperso nella confusione, tenta di fuggire prima di cadere vittima dell’epidemia.
Sono andato a vedere questo film aspettandomi molto poco, grazie alla pacata stroncatura di Ohdaesu. Sarà forse per questo motivo, ma dopo la visione posso dire che E venne il giorno, che non è piaciuto quasi a nessuno, a me non ha fatto schifo.
Avrò forse una particolare sensibilità sull’argomento, ma a me l’autolesionismo fa orrore, e vedere delle persone intente ad autodistruggersi in modo efficiente e brutale sicuramente mi turba. E credo che sia indubbiamente un grosso merito di M. Night Shyamalan l’essere riuscito a destare orrore con elementi semplicissimi, come la camminata all’indietro che prelude all’insorgere della sindrome suicida, o come la scena degli operai che si lanciano dalle impalcature (un richiamo diretto all 11 settembre). Insomma, l’idea che sta alla base del film è semplice e geniale e, se il regista l’avesse accompagnata con uno svolgimento altrettanto solido, avrebbe prodotto un capolavoro.
Qui vengono le dolenti note. Perché Shyamalan, pur avendo avuto il buon gusto di non tirarla troppo in lungo (il film dura un’ora e mezzo), mette a dura prova la pazienza dello spettatore, con delle cose che non si capisce se siano vezzi autoriali malintesi o errori che nemmeno un regista alle prime armi commetterebbe. Cominciamo col dire che la scelta degli attori protagonisti, Mark Wahlberg (che ha me non ha mai detto nulla) e Zooey Deschanel (che in questo film ha perennemente l’aspetto di una lepre di fronte ai fari di un’auto) non è quella che si dice esaltante. Aggiungiamo che i due devono mettere in scena uno dei clichè più triti della storia del cinema, quello della coppia-in-crisi-che ritrova-l’armonia-di-fronte-alle avversità. Concludiamo dicendo che i dialoghi spesso sono totalmente insensati, al punto da rasentare il teatro dell’assurdo, e capirete perché questo film sembra avere decisamente qualcosa che non va. L’impressione finale è che Shyamalan volesse dire qualcosa di preciso, ma questo qualcosa risulta incomprensibile, e ne emerge solo un generico millenarismo antiscientifico e misticheggiante. Alcune scene (un esempio tra tutte: il suicidio della ragazza cui si assiste via telefono cellulare) sono letteralmente buttate via, risultano così finte e poco realistiche da non causare alcuna emozione nello spettatore, se non un senso di straniamento.
Eppure non posso nascondervi che E venne il giorno è riuscito a emozionarmi comunque. Io dico spesso che è meglio assistere a un fallimento interessante che a un successo scontato. A me fa piacere che esista un regista come Shyamalan che gira un horror in cui a fare spavento è il modo di camminare delle persone invece che un effetto speciale in computer graphics. E per questo sono disposto a perdonargli molto, anche se alcune cose di questo film sono davvero imperdonabili.

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