Non capita tutti i giorni di poter presenziare alla prima mondiale di qualcosa. Perciò, avutane l’occasione, anche se opera e musical non sono proprio il mio genere, sono andato a vedere Il principe della gioventù, opera-musical di Riz Ortolani. Ero molto ben disposto, anche perché Ortolani è autore di colonne sonore di sceneggiati RAI che hanno segnato la mia infanzia, come per esempio Ritratto di Donna Velata. Tuttavia vi anticipo subito che le mie aspettative sono andate totalmente deluse.
Il tema ispiratore dello spettacolo è la Congiura dei Pazzi. Si tratta di un episodio storico talmente carico di eventi drammatici e di situazioni romanzesche che sembra proprio ideale per tirarne fuori un gran bel melodramma. Purtroppo il libretto (scritto dallo stesso Ortolani insieme a Ugo Chiti) si occupa di tutt’altro. Alle motivazioni politiche della congiura, infatti, sono dedicate giusto un paio di scene, che servono essenzialmente a mettere in chiaro che i Medici sono i Buoni, saggi e preoccupati del bene della città, mentre i Pazzi sono i Cattivi, rosi dall’invidia e dediti solo al proprio interesse. Praticamente tutto il resto dell’opera, ahimè, è dedicato all’amore segreto tra Giuliano de’Medici e Fioretta. E fosse almeno una storia d’amore interessante! Ma no, i più vieti stereotipi, e testi che fanno sembrare sofisticata persino una canzone dei Ricchi e Poveri ("Adesso tu , soltanto tu, puoi farmi volare, attraversare il mare. Come mai ora hai cambiato la mia vita? Amore grande, amore forte, immenso, assurdo amore. Questo siamo noi. Io e te. Come mai hai scelto me?")! Quando poi si esce dalla storia d’amore, il tutto ha pochissima coesione, e i vari episodi sembrano buttati lì a caso senza creare tensione o fare progredire una trama. Gli unici movimenti un po’ vivaci sono quelli in cui Franceschino de’Pazzi proclama il suo odio per i Medici: qui sì si percepisce un po’ di pathos (e, guarda caso, sono i momenti migliori anche musicalmente). Però non basta a salvare dalla noia.
Con un libretto così privo di contenuti, è difficile giudicare le musiche. Si rticonosce la grande professionalità di Ortolani ma, a parte il summenzionato tema di Franceschino, gli altri temi non colpiscono particolarmente, anche perché arrangiati in modo privo di rischi. (Non giova il fatto che gli strumenti siano registrati, e non suonati dal vivo). Scenografie e costumi sono gradevoli e funzionali, ma anch’essi non particolarmente originali. La regia, poi, appare statica, e le rare scene d’azione mi sono sembrate confusionarie e poco efficaci.
Insomma, mi aspettavo uno spettacolo grandioso, ma in realtà Il principe della gioventù è soprattutto un contenitore per canzoni romantiche che, a parte le bellissime voci degli interpreti, sfigurerebbero anche a Sanremo. Ciò che mi intristisce di più è che, a leggere le recensioni osannanti apaprse in giro, questo sarebbe uno spettacolo ricchissimo di contenuti. Forse oggigiorno basta chiamare due personaggi Pico della Mirandola e Luigi Pulci per poter dire di aver evocato in scena il Rinascimento italiano, anche se i due si limitano a pronunciare qualche battuta insulsa. A mio avviso, però, questa è un’occasione perduta.
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FIlm: Come Dio comanda
Dal romanzo di Niccolò Ammaniti. Rino Zena è un operaio disoccupato, seguace di una mistica nazista e violenta, ma a modo suo integerrimo, che si prende cura, oltre che del proprio figlio tredicenne Cristiano, anche di un povero ritardato, soprannominato Quattro Formaggi. Rino vive nel terrore che gli assistenti sociali gli possano portare via Cristiano. Durante una notte di tempesta, una serie di eventi drammatici cambierà la vita dei tre personaggi…
Gabriele Salvatores aveva già trasportato sullos chermo con successo un altro romanzo di Ammaniti, Io non ho paura. Ma lì l’impresa era facile, dato che il libro era breve e seguiva un’unica vicenda, e sembrava fatto apposta per finire sullo schermo. Un libro come Come Dio comanda, lungo intricato e pieno di deviazioni, presenta ben altre difficoltà. Era inevitabile "asciugare" la storia eliminando dei personaggi, e probabilmente Salvatores ha fatto l’unica scelta possibile eliminando dalla trama Danilo e tutta la storia della rapina che lui e Rino nel romanzo tentano disastrosamente di organizzare. E tuttavia non si può fare a meno di notare che, riducendo in questo modo la storia, buona parte del contenuto del libro va perduta. Il ritratto spietato del Nordest in cui sono solo i soldi che contano viene affidato solo alla discutibile retorica nazista di Rino. E anche il tema principale evocato dal titolo, che è quiello per cui tutti i personaggi chiamano continuamente in causa un Dio sfuggente (ma reso presente dalla colossale tempesta), risulta parecchio indebolito. Alla fine tutto il romanzo risulta ridotto a un rapporto tormentato ma solido tra padre e figlio. E ci si chiede: possibile che il cinema italiano debba ridurre qualunque tema a una questione di rapporti familiari?
Per il resto, che Salvatores sia un regista tecnicamente dotato non èin discussione, e infatti il film ha un ottimo casting, delle location perfette, sonoro e fotografia di qualità (splendide le scene notturne sotto la pioggia), suspence da vendere. Un buon prodotto, insomma, cui manca però la scintilla che ne farebbe veramente un film d’autore.
Libro: Guida Galattica dei Gourmet
Questa, più che una recensione, è una segnalazione: non sarebbe infatti corretto recensire un libro di cui sono tra gli autori. In effetti un mio raccontio, Missione diplomatica, appare tra le sue pagine.
L’occasione per l’uscita dell’antologia è stato il decennalle di Memorie di un cuoco d’astronave di Massimo Mongai. Ricordo che all’epoca il libro non mi entusiasmò: mi parve sì, divertente, simpatico, piacevole, ma anche di un umorismo un po’ troppo semplice, scontato, per meritare il premio Urania. Col senno di poi, però, devo correggere il mio giudizio, perché Mongai è indubbiamente riuscito a creare un personaggio in grado di rimanere nella testa della gente, una specie di archetipo come il capitano Kirk, in grado di veicolare i contenuti più vari. E in effetti la cosa più divertente di questa raccolta di racconti è vedere come il personaggio del cuoco spaziale Rudy Turturro sia stato preso in mano da ben 19 autori rimanendo sempre essenzialmente se stesso, nonostante la grande varietà di stili e di situazioni.
Forse il mio giudizio è distorto dal fatot di essere stato tra i prescelti, ma devo lodare l’opera dei curatori, che sono riusciti a mettere insieme un gran numero di racconti, alcuni buoni (il mio preferito è quello di Francesco Grasso) altri un po’ meno, ma senza i terribili sbalzi di qualità che si trovano spesso in opere di questo genere.
Il libro sembra distribuito molto bene (perlomeno, a Mlano si trova ovunque), se qualcuno dovesse acquistarlo e leggere il mio racconto mi faccia sapere il suo giudizio.
Libro: Ultima Corsa
In fuga dopo la rapina andata male alla fine del libro precedente, Parker viene salvato per il rotto della cuffia da Tom, un uomo che si offre di ospitarlo per nasconderlo alla polizia. Ma questo aiuto non è altruistico: Tom vuole aiuto per rapinare i datori di lavoro che lo hanno licenziato, un colpo che pianifica da anni senza avere il coraggio di metterlo in pratica. Nel frattempo, lo sceriffo del paese chiede aiuto a tutti i cittadini per stanare i rapinatori fuggitivi… e Parker si ritrova a far parte di una squadra alla ricerca di sé stesso!
Non conoscevo Parker prima di incontrare questo libro. Ho così scoperto che si tratta di un personaggio apparso per la prima volta nel 1962, e che questo è il ventiquattresimo libro in cui appare (e negli USA ne è già uscito un altro!). L’autore non è che uno pseudonimo di Donald E. Westlake, uno dei maggiori scrittori noir viventi.
Devo dire di essere rimasto affascinato. Si tratta di romanzi di pura azione, in cui la tensione non cala mai. Non c’è alcuna visione moralistica: al contrario, il personaggio di Parker è affascinante proprio perché totalmente amorale, un criminale professionista assolutamente gelido, che riesce sempre a cavarsela proprio perché non si lascia mai fuorviare dalle emozioni. Sono libri di puro intrattenimento, eppure questo romanzo riesce a essere davvero sottile. Il confronto tra un criminale fatto e finito come Parker e i cittadini di un paesotto dimenticato nel profondo degli USA, che dovrebbero essere gli “onesti” ma in realtà reagiscono alla presenza di Parker scatenando i loro peggiori istinti, è condotto in modo davvero magistrale, ed è molto più rivelatore di tanti altri romanzi con maggiori pretese, L’unico calo di tensione l’ho notato nel finale, quando c’è l’obbligatorio showdown che deve consentire a Parker di cavarsela per poter essere protagonista del romanzo successivo.
Il libro l’ho letto in originale, per un motivo ben preciso: l’ho tradotto io, insieme a mia moglie. Maggiori notizie qui.
Film: "Pranzo di Ferragosto"
Gianni, che vive insieme all’anziana madre e non riesce a sbarcare il lunario, si trova costretto ad accettare la proposta dell’amministratore del condominio, che gli coprirà parte delle spese se ospiterà la propria madre per Ferragosto. Ma al momento cruciale l’uomo gli affida non una sola vecchietta, ma due. E anche il medico di fiducia, che lo cura gratis, in cambio gli chiede di ospitarne una quarta…
Pranzo di Ferragosto è il film di cui tutti in questo momento parlano bene. Devo dire però che, anche se il film si lascia vedere con piacere, arrivato ai titoli di coda mi sono trovato a chiedermi il perché di tutto questo entusiasmo. È vero che Gianni Di Gregorio, regista e protagonista, è bravo e simpatico. È vero che le quattro vecchiette, non professioniste, se la cavano meglio di attrici navigate. È vero che il film emana quasi sempre una sensazione di assoluto realismo, come se le scene fossero state improvvisate sul momento (e probabilmente è proprio così, come dimostrano spesso anche le inquadrature disordinate el a fotografia sgranata). Ed è vero che il ritratto della vecchiaia che emerge dalle immagini è veritiero e incisivo senza mai scadere nel patetico o nella macchietta. E però, a mio avviso, questi dovrebbero essere solo gli ottimi elementi di partenza di un film, che poi li dovrebbe utilizzare per farci qualcosa. Invece, dopo appena un’ora e un quarto, una volta che tutte e vecchiette ci sono diventate familiari, il film finisce (con un finale che alcuni definiscono spiazzante, ma che a me è parso abbastanza prevedibile) e scorrono i titoli di coda. Non so, a me pare un po’ poco. Anche nei più strampalati e improvviati film di Jim Jarmusch non ci si limitava a presentare i personaggi e a farli interagire, ma c’era anche qualche spunto di sceneggiatura. Qui invece ci si accontenta di un risultato che carino è carino, figuriamoci, e lo è anche in un senso diverso e migliore del classico film italiano "carino". Però da quello che viene spacciato per film-rivelazione mi aspettavo di più.
Film: Kung-Fu Panda
Il maestro di una scuola di Kung-Fu deve scegliere quale degli allievi è destinato a diventare il guerriero-drago, e a ricevere la pergamena che gli consentirà di assumere un enorme potere guerresco. Ma, inopinatamente, i segni del destino indicano Po, un panda grasso e inetto che sembra del tutto inadatto a diventare un temibile guerriero. La situazione si complica quando un feroce ex-allievo della scuola fugge di prigione e si prepara a compiere la sua vendetta sugli abitanti del villaggio…
Non sono mai stato un grande appassionato delle animazioni Dreamworks, sempre più occupate ad ammiccare al mondo adulto e contemporaneo che a raccontare una bella storia (persino l’osannata serie di Shrek si macchia, a mio avviso, di questo peccato). Ma, finalmente, ecco l’eccezione: Kung-Fu Panda è un cartone animato godibilissimo che, proprio perché non si fa carico di ambizioni eccessive, coglie perfettamente nel segno. La storia, semplice, lineare e risaputa, potrebbe essere quella di un qualsiasi film di arti marziali di Hong Kong. Gli autori si sono limitati a lavorare sulla caratterizzazione dei personaggi, e hanno fatto un lavoro splendido. Gli si potrebbe rimproverare che soltanto Po e il suo maestro Shifu sono personaggi davvero sviluppati, ma questo è uno dei pregi del film: l’avere evitato complicazioni eccessive. La trama scorre piacevolmente alternando momenti drammatici e comici, e si ride per le situazioni più che per le singole gag. La regia parodizza argutamente gli eccessi della filmografia di Hong Kong, inclusi rallentatori e fermi immagine, ma senza appesantire con troppe citazioni. Persino la morale "Zen" della faccenda viene illustrata in modo poetico e senza eccessi di retorica (un plus assoluto del film: la totale assenza di numeri cantati!). Insomma un gioiellino da vedere senz’altro, per tutte le età.
Film: E venne il giorno
A New York, centinaia di abitanti vengono improvvisamente colti da una mania suicida che li spinge a uccidersi con il primo metodo a portata di mano. Inizialmente si sospetta un atto terroristico ma, quando l’epidemia si diffonde in tutto il nord-est degli Stati Uniti, le spiegazioni ufficiali non reggono più. Un professore di scienze, accompagnato dalla moglie, con cui è in crisi, e dalla figlia di un amico rimasto disperso nella confusione, tenta di fuggire prima di cadere vittima dell’epidemia.
Sono andato a vedere questo film aspettandomi molto poco, grazie alla pacata stroncatura di Ohdaesu. Sarà forse per questo motivo, ma dopo la visione posso dire che E venne il giorno, che non è piaciuto quasi a nessuno, a me non ha fatto schifo.
Avrò forse una particolare sensibilità sull’argomento, ma a me l’autolesionismo fa orrore, e vedere delle persone intente ad autodistruggersi in modo efficiente e brutale sicuramente mi turba. E credo che sia indubbiamente un grosso merito di M. Night Shyamalan l’essere riuscito a destare orrore con elementi semplicissimi, come la camminata all’indietro che prelude all’insorgere della sindrome suicida, o come la scena degli operai che si lanciano dalle impalcature (un richiamo diretto all 11 settembre). Insomma, l’idea che sta alla base del film è semplice e geniale e, se il regista l’avesse accompagnata con uno svolgimento altrettanto solido, avrebbe prodotto un capolavoro.
Qui vengono le dolenti note. Perché Shyamalan, pur avendo avuto il buon gusto di non tirarla troppo in lungo (il film dura un’ora e mezzo), mette a dura prova la pazienza dello spettatore, con delle cose che non si capisce se siano vezzi autoriali malintesi o errori che nemmeno un regista alle prime armi commetterebbe. Cominciamo col dire che la scelta degli attori protagonisti, Mark Wahlberg (che ha me non ha mai detto nulla) e Zooey Deschanel (che in questo film ha perennemente l’aspetto di una lepre di fronte ai fari di un’auto) non è quella che si dice esaltante. Aggiungiamo che i due devono mettere in scena uno dei clichè più triti della storia del cinema, quello della coppia-in-crisi-che ritrova-l’armonia-di-fronte-alle avversità. Concludiamo dicendo che i dialoghi spesso sono totalmente insensati, al punto da rasentare il teatro dell’assurdo, e capirete perché questo film sembra avere decisamente qualcosa che non va. L’impressione finale è che Shyamalan volesse dire qualcosa di preciso, ma questo qualcosa risulta incomprensibile, e ne emerge solo un generico millenarismo antiscientifico e misticheggiante. Alcune scene (un esempio tra tutte: il suicidio della ragazza cui si assiste via telefono cellulare) sono letteralmente buttate via, risultano così finte e poco realistiche da non causare alcuna emozione nello spettatore, se non un senso di straniamento.
Eppure non posso nascondervi che E venne il giorno è riuscito a emozionarmi comunque. Io dico spesso che è meglio assistere a un fallimento interessante che a un successo scontato. A me fa piacere che esista un regista come Shyamalan che gira un horror in cui a fare spavento è il modo di camminare delle persone invece che un effetto speciale in computer graphics. E per questo sono disposto a perdonargli molto, anche se alcune cose di questo film sono davvero imperdonabili.
Film: Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo
Siamo nei primi anni ’50. Indiana Jones si ritrova coinvolto nel tentativo di alcuni agenti del KGB per sottrarre alcuni reperti di sospetta origine aliena custoditi a Roswell, ma riesce a cavarsela. Dopodiché incontra un ragazzo che gli porta una lettera di un amico, il professor Oxley. Pare che costui abbia scoperto un antico teschio di cristallo che i conquistadores avrebbero sottratto nientemeno che da El Dorado. Una leggenda dice che chi riporterà indietro il teschio acquisterà un enorme potere. Ma Oxley e la madre del ragazzo sono sono scomparsi. Inevitabile che Indy si lanci alla ricerca del teschio, per poi scoprire che anche i russi sono interessati alla cosa…
C’è un momento in cui Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo dà l’impressione di essere un film in grado di dire qualcosa di nuovo sul personaggio di Indy. Ed è poco dopo l’inizio, quando si ritrova in un villaggio popolato di manichini e destinato a essere spazzato via da un’esplosione atomica sperimentale. Una scena inquietante, degna dello Spielberg migliore, e che dà lo spunto per costringere Indy a emigrare, vittima della caccia alle streghe e della paranoia anticomunista. Poteva essere l’inizio di un film del tutto diverso da quelli della trilogia precedente. Purtroppo si scopre che questo prologo ha due solo funzioni: far capire allo spettatore che siano negli anni ’50 e non più nei ’30, e permettere a Spielberg di salvarsi l’anima facendo vedere che, anche se i "cattivi" russi sono caricaturali e monodimensionali come se il film fosse stato davvero girato sessant’anni fa, il regista è consapevole che anche gli USA non erano esenti da pecche. Dopodiché, "been there, done that": dei maccartisti non si parla più, e il film si impegna a rifare pedissequamente I Predatori dell’Arca Perduta, sostituendone ogni scena con un’altra equivalente.
Dal punto di vista tecnico, gli riesce pure bene. Spielberg non ha perso la mano, e riesce a rifare se stesso con maestria; sono innumerevoli i piccoli colpi di genio che lo distinguono da tanti imitatori e mestieranti. Il problema, purtroppo, è la sceneggiatura. E non è difficile sospettare che buona parte della colpa sia di George Lucas, autore del soggetto e notoriamente incapace da tempo di scrivere qualcosa che vada oltre l’età mentale di un dodicenne. In generale la sceneggiatura ha il difetto di tutte quelle che sono state riscritte troppe volte, e cioè è troppo affollata di spunti, di cui nessuno sviluppato adeguatamente.
Il risultato fa acqua da tutte le parti. Il personaggio di Mac, che continua ad alternare il ruolo di amico e antagonista di Indy, dovrebbe essere motore di drammi e colpi di scena, ma invece i suoi cambi di bandiera appaiono risibili, e in definitiva non ce ne frega niente di lui. Va un po’ meglio Mutt, il ragazzo, e in effetti il suo rapporto con Indy potrebbe diventare il punto di forza del film, ma poi, a mano a mano che la trama si affolla di personaggi, ci si dimentica di lui, e nel finale non gli viene lasciato alcun ruolo. Cate Blanchett nel ruolo della "cattiva" è molto brava, ma la sceneggiatura non offre al suo personaggio alcuna possibilità di sviluppo.
Ma il difetto più grave è che manca completamente il senso del rischio e del pericolo. Nel primo film, lo spettatore soffriva e si spaventava insieme a Indy. Qui l’archeologo-avventuriero se la cava sempre senza sforzo, con scene che superano in modo così plateale il confine dell’inverosimiglianza da interrompere brutalmente la sospensione dell’incredulità. Gli stessi personaggi ne sembrano consapevoli, e abbiamo persino una scena in cui la madre di Mutt, vedendo il figlio in una situazione di estremo pericolo, invece di gridare terrorizzata assiste tranquilla, come se sapesse benissimo che nulla di grave può succedere. Dopo un po’ tutto diventa meno emozionante di un videogioco, e altrettanto ripetitivo. Quando poi il film si conclude, rimane una quantità mostruosa di misteri non risolti e di dilemmi non spiegati.
Conclusione: grande spettacolo, ma dello Spielberg che sapeva emozionare, oltre che divertire, non è rimasta quasi traccia.
Film: Onora il padre e la madre
Due fratelli hanno entrambi un gran bisogno di denaro. Se il minore, Hank, è un fallito senza remissione, che non riesce nemmeno a pagare gli alimenti alla ex-moglie, il maggiore Andy apparentemente è un broker immobiliare di successo, ma in realtà è un tossicomane e le sue irregolarità finanziare sono sul punto di venire alla luce. Andy propone perciò ad Hank un piano per cavarsi d’impaccio: rapinare la piccola gioielleria dei genitori. Non ci saranno armi, nessuno si farà del male, l’assicurazione pagherà i danni, e tutto si risolverà. Ma il debole Hank commette l’errore di coinvolgere nella rapina una terza persona. Da qui, tutto procede verso la catastrofe.
L’idea che apparentemente è alla base di Onora il padre e la madre è interessante: cominciare il film come un tradizionale crime movie, mostrando quasi immediatamente la rapina e il suo esito, e di lì procedere per flash back e forward, mostrando non solo le conseguenze dell’atto, ma anche l’inestricabile groviglio di sentimenti che ci sta dietro, e che trasforma il tutto in un dramma familiare. Il veterano Sidney Lumet (quello di La parola ai giurati, A prova di errore, Quel pomeriggio di un giorno da cani e chi più ne ha più ne metta)indubbiamente sa ancora dirigere un film mantenendo alta la tensione. Per giunta ha a disposizione un ottimo cast: oltre a Philip Seymour Hoffman, sempre bravissimo, ci sono anche un Ethan Hawke così bravo a fare lo sfigato da far dimenticare tutti i ruoli da gran figo interpretati in passato, e una Marisa Tomei
Tuttavia, la buona confezione non riesce a nascondere le grandissime carenze che il film ha, sia dal punto di vista strettamente logico che da quello strutturale. Cominciamo col dire che è decisamente improbabile che una persona, colpita da un arma da fuoco, sia in grado di raccogliere la propria pistola e uccidere il proprio avversario con un singolo colpo ben piazzato, un attimo prima di cadere in coma irreversibile. Non dico che non possa succedere, ma sicuramente è proprio credibile, e non si dovrebbe costruire un intero film sulla base di un evento del genere. Ma questo è il meno. Veniamo al punto fondamentale, cioè la proposta della rapina. Andy induce Hank a commetterla, propone di dividere il bottino, però poi non vuole partecipare personalmente. Considerato che anche Hank conosce benissimo la gioielleria di famiglia, in pratica Andy si prende la metà dei soldi senza aver dato alcun contributo utile. Perché mai Hank dovrebbe accettare? Anche ammettendo che sia scemo e succube del fratello, non ha senso.
Se andiamo a poi a guardare i rapporti interpersonali, tutto è ancora più nebuloso. Alcuni personaggi sembrano considerare il padre una specie di mostro, altri invece lo adorano, e la dicotomia non viene mai risolta. Il personaggio della sorella è inesistente, il rapporto tra Hank e la moglie di Andy poco chiaro, ma soprattutto il rapporto di Hank stesso con la famiglia non viene minimamente descritto, ed è un buco grande come una casa: se lui, come dice Andy, era il figlio prediletto, perché mai non ha chiesto dei soldi ai genitori, invece che tentare di rapinarli?
Insomma una sceneggiatura molto confusa, che un buon cast e un buon regista riescono a risollevare in un film vedibile, ma comunque molto lontano dal capolavoro che molti ci hanno visto.
Film: Juno
Juno è una sedicenne statunitense che decide di provare a fare sesso con un amico e, purtroppo, rimane incinta. Prende in considerazione l’aborto, ma poi decide di far nascere il bambino per darlo in adozione.In effetti trova una ricca famiglia di yuppies che non vede l’ora di adottare il nascituro. Ma le cose non vanno così liscie…
Ahimè, sta succedendo: il cinema indipendente americano, dopo aver trovato il suo spazio commerciale, sta rapidamente diventando una "maniera" che, dietro una confezione apparentemente spregiudicata e trasgressiva, nasconde contenuti banalotti e rassicuranti, quando non addirittura regressivi. Era successo con Little Miss Sunshine, che però almeno aveva un bel finale. Succede ancora di più con Juno. Che in effetti è un film in cui si parla di un sacco di argomenti non politicamente corretti, in cui si vede la protagonista seduta sulla tazza del cesso mentre piscia per fare il test di gravidanza, che insomma ostenta un atteggiamento spregiudicato nei confronti di argomenti tabù. Però, a ben guardare, è un film che si svolge nel mondo della Luna quasi quanto le commedie hollywoodiane. Per esempio, non viene MAI nominata la contraccezione, nemmeno per sbaglio: sembra che le alternative siano solo astenersi o rischiare la gravidanza. Possibile che nessun personaggio faccia notare a questi due che avrebbero fatto meglio a usare il preservativo? Il Paese più industrializzato del mondo è ancora a questo livello? E fosse solo questo; in realtà Juno sembra fare un pudico passo indietro, glissando, ogni volta che incontra un tema potenzialmente problematico.
Con questo non voglio dire che sia un brutto film. Al contrario è carino e divertente. Solo che, appunto, si ferma alla categoria del "carino". Preso come una commedia americana che non pretende di dire nulla di sensato sul mondo, ma si limita a fornire un po’ di intrattenimento, Juno è senz’altro superiore alla media, con un buon cast e una serie di battute e situazioni che non possono non far sorridere. Se vi accontentate…