I guardiani del destino

Un giovane politico americano di successo incontra per caso quella che sembra essere la donna della sua vita. Ma dei misteriosi “Guardiani” gli ordinano di non rivederla più, in quanto non fa parte del “Piano”. Scopre così che le vite degli uomini sono costantemente monitorate e “corrette” e che il libero arbitrio è un’illusione…

The Adjustment Bureau (questo il titolo originale di I guardiani del destino) è tratto da un racconto di Philip K. Dick. Di per sé questo non è garanzia di buon risultato. Dick non è affatto uno scrittore facile da rendere al cinema: le sue trame o sono statiche o si muovono in troppe direzioni contemporaneamente, costringendo gli sceneggiatori a reinterpretarlo. Anche Blade Runner, ormai un archetipo cinematografico, riesce a essere un grande film proprio tradendo sottilmente in molti modi l’opera originale. Per il resto, nonostante Dick sia un autore saccheggiatissimo, c’è ben poco di cui gioire. I tentativi più ambiziosi, Atto di Forza di Verhoeven e Minority Report di Spielberg, cominciano bene ma gradamente perdono la carica eversiva dickiana per trasformarsi in banali film di genere. D’altra parte, A Scanner Darkly, nella sua eccessiva fedeltà al testo, risulta  ingessato e poco significativo. Screamers a mio avviso ha una sceneggiatura imbarazzante, Impostor non l’ho visto ma se ne parla malissimo, e quanto a Paycheck è stato talmente esecrato che mi viene quasi voglia di difenderlo (ma me ne guardo bene!). Insomma, i successi sono ben pochi, specie a fronte di altri film che hanno sfruttato temi dickiani ma senza farlo in modo esplicito, come The Truman Show, Dark City o Vero come la finzione, per citare i primi tre che mi vengono in mente.
Tutto queso per dire che il regista George Nolfi (sceneggiatore al debutto nella regia), per convertire in film il breve racconto The Adjustment Team, aveva in qualche modo l’obbligo di tradirlo. Il modo che ha scelto, però, mi è rimasto sul gozzo.
I guardiani del destino è la storia di un uomo che, come tanti personaggi di racconti di Dick (uno tra tutti: l’eccezionale La formica elettrica) scopre per caso che la realtà è completamente diversa da come la conosceva, e che quelle che riteneva di essere sue libere scelte di vita sono in realtà state pianificate da forze al di fuori del suo controllo. Nella fattispecie, da una casta di grigi burocrati che lavorano “dietro le quinte ” del mondo e si preoccupano di far succedere cose apparentemente per caso, in modo che tutti continuino a seguire un misterioso “Piano” il cui scopo nessuno sembra conoscere.
Più che nell’interpretazione non particolarmente memorabile di Matt Damon, il film ha il suo maggior pregio nella rappresentazione dei Guardiani, grigi e annoiati, i cui sofisticatissimi strumenti di controllo hanno sempre un aspetto sorpassato e banale, come appropriato per una burocrazia opprimente e ottusa. E la parte migliore del film è indubbiamente quella in cui il protagonista lotta in modo sempre più disperato contro lo strapotere dei guardiani.
Purtroppo però Nolfi decide di risolvere il film con un lieto fine che stride terribilmente con tutto ciò che aveva costruito fino a quel momento. Io non sono contrario pregiudizialmente al romanticismo e ai finali positivi, tuttavia trovo insensato (oltre che un tradimento totale dello spirito dickiano) partire un racconto che parla della mancanza di libertà della condizione umana per poi alla fine rivoltare la frittata e dire: “abbiamo scherzato, l’Uomo è libero di fare ci che vuole se si impegna abbastanza”. Peccato, perché il film avrebbe meritato, ma questo finale proprio non sta in piedi.

Nota: Per uno strano scherzo delle leggi sul copyright, il racconto originale The Adjustment Team è oggi fuori diritti e di pubblico dominio. Chi volesse leggerlo lo può fare qui.
 

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Fine della pausa

Scusate, impegni di lavoro e di altro genere mi hanno costretto a prendermi una pausa non preventivata dal blogging.
Purtroppo questo ha significato che alcuni post di attualità che avevo in mente, come quelli sui referendum e sui Delos Days, sono ormai diventati inattuali. Cercherò comunque di recuperarne il contenuto.
Grazie per la pazienza.

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Il primo incarico


1953. Nena è una giovane pugliese che riceve il primo incarico come maestra in uno sperduto paesino del Salento. È perciò costretta a lasciare la madre e il fidanzato per recarsi in un luogo che sembra rimasto al medioevo…

Devo ammetterlo: vedo film italiani piuttosto raramente. Un po’ me ne dispiace, perché mi piacerebbe tenermi più aggiornato su quello che si produce nel mio Paese. Tuttavia è innegabile che, se mi chiedessero di citare titoli di film italiani di questo millennio che mi siano piaciuti molto, me ne verrebbero in mente due o tre al massimo. Ed è normale che, a forza di noia e delusioni, si smetta anche di voler provare.
Perciò, quando degli amici mi hanno proposto di andare a vedere Il primo incarico dell’esordiente Giorgia Cecere, una parte di me ha sussurrato: “Te ne pentirai”. Però alla fine ha vinto l’altra metà, quella che ha ribattuto: “Ma no, diamo fiducia a un’esordiente, magari è bello, in fondo è in cartellone da più di un mese, non può essere così male”. Secondo voi chi aveva ragione?
Il film gioca tutte le sue carte migliori all’inizio. In effetti bisogna dire che la ricostruzione d’epoca e la fotografia del paesaggio del Salento sono di prim’ordine. Soprattutto, la scena della cena a casa dei contadini, che fanno alla maestra domande ingenue e imbarazzanti, è molto efficace, e rende tangibile la distanza immane che separa la ragazza di città che ha studiato e vuol essere “moderna” e la rigidità del mondo di campagna.
Certo, si tratta sempre del solito ritratto del nostro Sud arcaico e immutabile che abbiamo già visto mille volte (non manca nemmeno la scena col capannello di uomini che si volta a guardare la ragazza che passa), però almeno il compitino è bene impostato. Se la regista ci avesse mostrato come la maestrina riesce gradatamente a conquistare questa realtà ostile, a integrarsi nel paesino e a sviluppare un rapporto con i suoi abitanti, il film sarebbe stato banalotto ma guardabile.
Peccato però che la regista questo non ce lo mostri affatto. Il tema del rapporto con gli scolari e con il resto del paese viene semplicemente lasciato cadere. Fino a un certo punto gli scolari sono degli asini e non imparano niente, da un certo momento in poi sono tutti bravissimi. Come Nena ci sia riuscita non è dato sapere, perché la Cecere si concentra invece su una storia d’amore totalmente priva di senso, non solo anacronistica ma profondamente illogica.
Alcuni esempi. Nena, lasciata dal fidanzato, per reazione va a trombare con un aitante muratore del paese. Solo che i due vengono visti. Lo zio del giovane va a  trovare Nena e le dice: “Vi hanno visti, è uno scandalo, parlano di farti lasciare la scuola, ti conviene risolvere il problema sposando mio nipote”. E lei, dopo qualche resistenza pro forma, lo sposa. E qui, secondo me, la credibilità della trama va sotto le scarpe. In un paesino degli anni ’50 una maestra che avesse avuto una condotta non irreprensibile sarebbe stata scacciata a furor di popolo, non le avrebbero chiesto un assurdo matrimonio riparatore. Ma ancora più assurdo è che lei accetti di sposare un muratore ignorante solo per paura di perdere il posto, quando avrebbe potuto semplicemente darsi malata e lasciare il paese. Lui poi le spiega di averla sposata solo perché degli zingari lo avevano minacciato di accoltellarlo se non avesse sposato una trapezista che aveva disonorato (e anche qui la logica fa difetto:  perché gli zingari dovrebbero smettere di volerti accoltellare solo perché hai sposato un’altra?). E così via,  una forzatura dopo l’altra.
All’illogicità della trama fa da specchio una regia del tutto insufficiente ogni volta che ci sarebbe da mostrare un pochino di pathos. Per esempio, la scena del tentato suicidio è ridicola: sembra di vedere un tuffo in piscina (per non parlare del fatto che una persona che si butta in un pozzo rischia perlomeno delle fratture e l’ipotermia, ed è piuttosto complicato salvarla; ma questo è un classico del cattivo cinema italiano: se la sceneggiatura prevede qualcosa di poco credibile, si fa un bella ellissi per farlo succedere fuori scena, e il problema è risolto). E le scene di sesso sono di una tristezza infinita. Non dico che ci sarebbe voluto un remake di Nove settimane e mezzo, ma se mi mostri una ragazza che per disperazione va a letto con uno che conosce appena, e me la fai sembrare una scena tra due coniugi annoiati, qualcosa non va.
Credo poi che Il primo incarico meriterebbe due Oscar. Uno per il peggior uso delle musiche (ogni volta che c’è un climax emotivo, la regista fa partire un giro di chitarra che smorza la tensione invece di aumentarla), e uno per la scena più ridicola mai vista. Sì, perché la scena in cui lei reincontra il fidanzato, e per l’emozione lui comincia a sanguinare dal naso (non sto scherzando), peraltro senza macchiare con una sola goccia l’immacolata camicia, rappresenta un picco ineguagliato dell’assurdo e del risibile .
Nel mezzo di questo disastro c’è, dalla prima all’ultima scena, Elisabetta Ragonese. Che secondo me è anche una brava attrice: in Tutta la vita davanti mi era piaciuta. Però anche il più bravo degli attori avrebbe difficoltà a rendere credibile una trama così. La povera Elisabetta qui spesso adotta una recitazione esangue e monotona, come se non avesse la minima idea di cosa possa provare il suo personaggio di fronte a tali assurdità. Come biasimarla?
Non mi dilungo oltre: Il primo incarico è un film scritto male e girato peggio, per giunta con un finale che fa incazzare ulteriormente (la giovane maestrina che avrebbe la possibilità di fuggire con il suo amato, ma invece sceglie di ritornare al paesello dove ha trovato… cosa? Meglio non cercare di rispondere). La cosa che mi rattrista di più è che il pubblico, invece che dare fuoco al cinema al secondo giorno di proiezione, continua ad andarlo a vedere! Al Mexico la sala era mezza piena, e un cartello all’ingresso diceva: “Secondo mese!”.
Mi spiace se me la sto prendendo tanto con un film che forse non è più brutto di tanti altri film italiani che escono nelle sale e che io, semplicemente, ho scelto di non vedere. Però credo che, finché si continueranno a finanziare film inani come questo, e finché il pubblico andrà a vederli senza ribellarsi perché è convinto che se un film è “artistico” allora annoiarsi a morte è normale, il cinema italiano continuerà a restare cadavere.

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Remembering Delos Days

Tra il 2 e il 5 luglio si sono svolti a Milano i Delos Days, cioè una manifestazione creata dall’associazione culturale Delos Books e dedicata a fantascienza, fantasy e affini. Nel suo ambito ha avuto luogo anche l’Italcon, cioè la convention nazionale della fantascienza italiana, spostata a Milano dopo molti anni in cui si era sempre svolta a Fiuggi. Teatro della manifestazione è stata la ludoteca Casa dei Giochi, mentre a fare gli onori di casa sono stati l’Università Europea Sport della Mente e il club ludico-fantascientifico USS Leonardo.

Avrei voluto discutere in dettaglio tutto quanto è successo nel corso della manifestazione, ma non ho avuto tempo. Rimando a uno o due post che scriverò nel corso del week-end.
Nel frattempo, però, devo informarvi che questa notte, nel corso della notturna di Radio Popolare condotta da Renato Scuffietti, il sottoscritto parlerà di Italcon, Delos Days, fantasy e fantascienza, insieme a tre ospiti di eccezione come Emanuele Manco (direttore di Fantasy Magazine), Luca Tarenzi (autore di numerosi libri fantasy, tra cui il recente Quando il diavolo ti accarezza) e (in collegamento telefonico) Alberto Cola (scrittore di fantascienza vincitore del Premio Urania, autore dell’antologia Mekong di recentissima pubblicazione). Come sempre la trasmissione è a un orario infame: dalle 0.45 all’1.00 e (dopo la replica di La Caccia) dall’1.20 fino a molto tardi.
È possibile che in futuro su questo blog appiano i file audio della trasmissione, ma non garantisco. Se volete avere la certezza di ascoltarla, sintonizzatevi stanotte su Radio Popolare, oppure fate clic qui sotto per sentirla in streaming:
Diretta Radio Popolare

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Boris – il film

Il regista René Ferretti, ormai in disgrazia, è costretto ad accettare lavori televisivi ancora più infami di quelli che girava in passato. Quando Sergio, il direttore di produzione, gli propone di dirigere un film tratto da La Casta, René pensa di avere finalmente l’occasione di riscattarsi dalla melma televisiva…

Con tutto l’affetto che posso portare agli autori e agli interpreti di quella che è stata una delle più grandi e rivoluzionarie serie televisive italiane di tutti i tempi, non c’è altro modo per dirlo: Boris – il film è una grandissima occasione perduta.
Il pregio maggiore di Boris serie TV era quello di costituire un perfetto controesempio di ciò che narrava. Tanto la telenovela Gli occhi del cuore che i personaggi realizzavano era becera, malfatta, noiosa, priva di qualità e di contenuti, tanto Boris risultava invece una serie raffinata, curatissima, divertente, originale e con un forte contenuto critico. Per cui si creava una tensione fortissima tra la TV “come potrebbe essere” e “com’è”, che amplificava sia il divertimento, sia l’efficacia del messaggio. Per replicare al cinema lo stesso meccanismo sarebbe stato perciò necessario realizzare un film che non fosse la semplice trasposizione al cinema di una serie TV, ma che fosse un prodotto cinematograficamente sensato da ogni punto di vista, e fruibile indipendentemente dalla conoscenza degli episodi precedenti.
In teoria gli autori della serie erano della stessa opinione. In pratica, però, hanno fatto il contrario. Il trio di sceneggiatori-promossi-registi Ciarrapico, Torre e Vendruscolo, infatti, non solo non ha inserito nel film idee di regia particolarmente ardite, ma ha imbastito una sceneggiatura che di cinematografico ha poco o nulla: in pratica una quarta stagione televisiva di Boris. Dove sarebbe stato necessario sfoltire senza pietà i personaggi per concentrarsi sulla vicenda di René, si è invece scelto di dare uno spazio praticamente a chiunque fosse apparso in precedenza. Per giunta, dato che in questo modo il materiale era di gran lunga sovrabbondante (pare siano state superate le tre ore), per ridurre il tutto a una durata ragionevole sono stati fatti dei tagli, come direbbe René, a cazzo di cane.
Risultato: molti dei personaggi principali sono sacrificati, altri sembrano messi lì ad aspettare un ruolo che non arriva (mi dite a cosa serve Itala in questo film, per esempio?), alcuni filoni narrativi si perdono nel nulla (come il ritorno di fiamma tra Alessandro e Arianna, che non si risolve e nemmeno contribuisce alla storia principale) e alcune scene sono addirittura incomprensibili (per esempio quella in cui Biascica sorprende Alessandro e gli pone una serie di domande che, senza alcuna ragione, sembrano implicare un interesse erotico nei suoi confronti: è evidente che lì alla storia manca un pezzo). A questo punto si spera che un giorno esca in DVD una versione con le scene tagliate che ci chiarisca i tanti punti oscuri. Però io sono tra coloro che si irritano quando pagano il biglietto per un film e si trovano di fronte un lungo trailer.
Sono troppo esigente? Forse. Ma Boris ci aveva autorizzato ad avere aspettative elevate. È tutto da buttare il film? Ovviamente no. Boris – il film resta comunque molto divertente e caustico. La satira del mondo cinematografico italiano è feroce e puntuale. Le rivisitazioni dei vecchi personaggi, come l’ennesimo stratagemma usato per neutralizzare la pessima recitazione di Corinna, sono spesso esilaranti. E c’è almeno un personaggio nuovo, quello della Migliore Attrice Italiana (intepretato in modo magistrale dalla praticamente sconosciuta Rosanna Gentili), che strappa l’applauso. Gli interpreti sono sempre bravi e Pannofino bravissimo. Insomma, non vi dico di non vederlo (cosa che peraltro sarebbe inutile, visto che è uscito dalle sale da una vita), al contrario, compratevi il DVD (se e quando uscirà) e riderete spesso di gusto, probabilmente molto più di quanto non fareste con una media commediola italiana. Solo che questo non era una commediola italiana, era Boris – il film, accidenti.

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Energia dall'acqua

Che succede quando l’acqua di un fiume si mescola con quella del mare? I due liquidi si mescolano e si ottiene dell’acqua con una salinità intermedia. Si tratta di un cosiddetto fenomeno irreversibile (cioè che avviene spontaneamente in una sola direzione: potete aspettare un’eternità, ma non vi succederà mai di vedere acqua dolce separarsi spontaneamente dal mare). In natura, quando accade un fenomeno di questo tipo, l’entropia del sistema aumenta. Se l’entropia aumenta, significa che il sistema è sceso a un livello di energia più basso. L’energia che manca, normalmente, si dissipa in calore. Ma, utilizzando qualche accorgimento tecnologico, è invece possibile pensare di sfruttare questa energia, costruendo centrali elettriché là dove fiumi si gettano nel mare. Per saperne di più, leggete il mio articolo in edicola oggi su Nòva 24, facendo clic qui sotto:(Il titolo che è stato dato all’articolo non corrisponde del tutto al contenuto, dato che l’osmosi riguarda il “vecchio” metodo per estrarre energia dal gradiente di salinità, non quello nuovo proposto da vari ricercatori italiani.)

Nel 2009 avevo già scritto per Wired un altro breve articolo sull’argomento.

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