Heaven & Earth

Yes - Heaven & EarthEbbene sì: con 46 anni di carriera alle spalle, gli Yes hanno prodotto un nuovo album in studio (il ventunesimo, più o meno, a seconda di come li vogliamo contare). E io sono qui a recensirlo per voi, o perlomeno per quei pochi cui l’evento può ancora interessare. Nel frattempo la band ha cambiato ancora una volta formazione: il cantante Benoît David, da poco subentrato alla voce storica del gruppo, Jon Anderson, è stato costretto ad abbandonare per problemi di salute. Al suo posto è entrato Jon Davison, già cantante dei Glass Hammer.
Ho avuto la possibilità di vedere questa formazione in concerto lo scorso 18 maggio, al Teatro della Luna di Milano, e l’impressione è stata ottima. Si è trattato di un’esibizione totalmente retrospettiva, con l’esecuzione filologica e per intero di tre album storici: The Yes Album (1971), Close to the Edge (1972) e Going for the One (1977). Forse non l’occasione migliore per poter giudicare la tenuta della band, che con questi capolavori giocava sul sicuro. Tuttavia i quattro “vecchi” (che hanno tutti passato da tempo i 60 anni) mi sono sembrati in gran forma, mentre Davison (che ha la stessa età di The Yes Album!), pur non avendo la voce inimitabile di Jon Anderson, mi è sembrato sicuro e perfettamente a suo agio, molto più di quanto non fosse David. Perciò, quando ho saputo che un nuovo album stava per arrivare, mi sono messo ad attenderlo con curiosità. Anche perché il predecessore Fly from here non mi era affatto dispiaciuto.
I primi dubbi mi sono venuti quando ho ascoltato le anteprime del disco diffuse online. “Sembra un disco degli Asia”, mi sono detto. Il che non dovrebbe poi sorprendere, dato che due membri della formazione originaria degli Asia fanno parte anche degli Yes attuali. Tuttavia, fatta eccezione per il primo disco, ho sempre trovato gli album degli Asia soporiferi, rock AOR all’americana vagamente truccato da prog, roba di livello inferiore anche agli Yes meno ispirati.
Dopodiché hanno cominciato a piovere le recensioni online: una stroncatura senza appello dietro l’altra. Tanto che, quando finalmente il CD mi è arrivato a casa, mi aspettavo talmente poco da sperare che forse mi avrebbe riservato qualche sorpresa in positivo. Purtroppo così non è stato: Heaven & Earth è proprio un disco deludente.
Il primo problema sta nella produzione: il suono di questo disco è molto povero. Basso e batteria sono quasi sempre relegati sullo sfondo, e il mix generale è decisamente troppo “tastieroso” (e se lo dico io che sono un fanatico delle tastiere, potete credermi!). Ci sono a volte momenti di “vuoto”, in cui uno strumento, pur non facendo nulla di virtuosistico o particolamente interessante, rimane da solo o quasi. Tutto il contrario del sound sinfonico degli Yes. È stato probabilmente un errore affidarsi a Roy Thomas Baker, una vecchia gloria (fu il produttore di tanti album dei Queen) che conosce bene la band (lavorò con gli Yes durante le sessioni parigine del 1979 mai portate a a termine) ma che non è esattamente all’avanguardia. Mi chiedo perché non abbiano pensato a Steven Wilson, che sta facendo un lavoro eccellente nel remixare in quadrifonia il catalogo degli Yes.
Ma la colpa non è certamente solo del produttore. Anche la band non sembra all’altezza della sua fama, poco incisiva anche in quello che è sempre stato il suo massimo punto di forza, cioè la qualità degli interventi strumentali (principali colpevoli: Howe e White, svogliati e privi di nerbo). Soprattutto, le composizioni sono deludenti, e soffrono fortemente dei problemi che già cominciavano ad emergere in Fly from here: lunghezza eccessiva, con brani che si prolungano oltre i sei minuti senza contenere idee adeguate a giustificarlo; scarsa omogeneità, con transizioni faticose tra sezioni che sembrano avere poco in comune tra loro; e infine mancanza di grinta, il problema più grave di Heaven & Earth, quasi completamente adagiato su tempi lenti e soporiferi.
Analizzando i singoli brani:

  • Believe Again è composta da Davison e Howe, e porta decisamente il marchio stilistico di quest’ultimo. Comincia molto bene con una bella melodia e un bell’arrangiamento, ma dura troppo, e finisce col perdersi senza un colpo d’ala che le doni nuova energia.
  • The Game, scritta da Davison, Squire e da un collaboratore abituale di quest’ultimo, Gerard Johnson, ha una bella melodia pop, però tira il lungo per quasi sette minuti senza costrutto e significative variazioni. La chitarra di Howe appare davvero poco ispirata.
  • Step Beyond è un altro brano scritto da Howe con Davison, caratterizzato da un semplice e ripetitivo riff di sintetizzatore. Molti l’hanno odiato, ma io lo considero uno dei pezzi migliori del disco: molto pop, lontano dal sound Yes (ricorda semmai i brani scritti da Howe per gli Asia, come One Step Closer, somigliante anche nel titolo), ma perlomeno equilibrato e con un po’ di originalità.
  • To Ascend. Il batterista Alan White collabora raramente alla composizione dei brani della band. Questo zuccherosa ballata scritta con Davison purtroppo non rivela doti nascoste: è uno dei pezzi più insignificanti del disco.
  • In a World of Our Own è uno strano pezzo di Squire/Davison con un ritmo cadenzato e atmosfera retrò da primi anni Settanta. Il momento WTF dell’album: cosa c’entra con tutto il resto?
  • Light of the Ages è composta dal solo Davison, che sembra voler impersonare in tutto e per tutto lo stile di Jon Anderson. Questo tipo di pezzo sdolcinato, però, risultava spesso un po’ stridente anche in passato. La copia sbiadita proposta da Davison non vale l’ascolto.
  • It Was All We Knew ripropone il mistero già incontrato nell’album precedente: perché Steve Howe, che pure nei suoi dischi solisti si dimostra ancora molto creativo, per gli Yes sfodera queste canzoni gradevoli ma in fondo mediocri? Belle armonie vocali, ma non decolla mai.
  • Subway Walls, scritta da Downes e Davison, sembra un tentativo di salvataggio in corner. È il brano più lungo dell’album e l’unico che in qualche modo richiami il vero sound degli Yes. Basso e batteria sono finalmente presenti, e in alcune parti il pezzo funziona molto bene. Ci sono però alcuni momenti confusi che fanno scadere un po’ il tutto. Downes si concede due assoli di tastiere; il primo però utilizza un suono di archi sintetici veramente superato (sembra Revolutions di Jean-Michel Jarre, ma senza le percussioni elettroniche che gli davano un senso), mentre il secondo è un assolo di organo che lascia freddi se paragonato alle prodezze di un Wakeman.

In definitiva, non si capisce bene che cosa avessero in mente gli Yes con questo disco. La sensazione è quella di un gruppo privo di direzione, arrivato in studio senza un’idea precisa e assemblando a casaccio le idee portate dai singoli membri. Che non è quello che ci si si può aspettare da una band con più di 40 anni di storia. Forse l’assenza di Jon Anderson, più che per la voce, pesa per la sua capacità di dare un senso unitario ai contributi dei singoli membri.
Personalmente non ho mai condiviso la posizione, molto diffusa, secondo cui una band dovrebbe sciogliersi dopo che il suo periodo di maggiore creatività è passato, o quando viene a mancare un membro chiave. Nel corso dei decenni ho sempre apprezzato la possibilità di ascoltare nuova musica con lo stile degli Yes: anche se non era all’altezza di Close to the Edge, anche se non tutti i nuovi membri erano bravi quanto i vecchi, valeva la pena di ascoltare il risultato. In questo disco però rischia di non esserci nemmeno un brano degno di essere riascoltato nel tempo. In questi giorni la funzione random dell’autoradio mi ha riproposto un brano tratto da Open Your Eyes, che avevo sempre considerato il disco Yes meno riuscito in assoluto, e mi sono detto: “Rispetto a Heaven & Earth è decisamente meglio, almeno ha più grinta”.
Cari Yes, lasciatevelo dire da un fan che vi segue da decenni: se questo è il massimo che sapete fare oggi, meglio chiuderla qui.

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Dalla visto da me

Lo so, sono due giorni che chiunque ripropone canzoni di Lucio Dalla e ormai ne avete abbastanza. Il bello di Dalla, però, è che la sua importanza non si esaurisce in una decina di brani famosi: era un musicista poliedrico, e ha lasciato un enorme repertorio in cui ognuno può andare a cercare ciò che lo colpisce di più. Quindi mi concedo di commemorarlo a modo mio; del resto oggi è il suo compleanno.
Non sono stato un fan di Dalla. Ho scoperto il rock piuttosto tardi, nel 1979 o giù di lì: avevo 13 anni, cominciavo timidamente ad ascoltare i Police, e quelli che unanimemente vengono considerati i dischi più straordinari del cantautore bolognese erano già usciti, decisamente troppo sofisticati perché allora potessi capirli. Li ho scoperti molto tempo dopo.
Tuttavia Dalla ce l’avevo ben presente, anzi, era quasi uno di famiglia. Questo perché era stato il presentatore della prima edizione di Gli eroi di cartone. Era un programma della TV dei ragazzi della RAI, che proponeva vari cartoni animati. Il mio preferito era Nembo Kid (cui in Italia avevano affibbiato il nome autarchico di Superman, ma in realtà era, credo, Hawkman), ma il bello della trasmissione era che facevano vedere anche tanti classici, dando loro un inquadramento storico e anche tecnico, spiegando cioè come venivano fatti. Era il 1970, avevo cinque anni.
Pensateci bene: era la RAI ingessata di Bernabei, quella che per tanti anni abbiamo deprecato, in cui era proibito dire “membro” e per una battuta sul Presidente della Repubblica si rischiava il posto. Però era anche quella in cui ai bambini si proponeva un programma che, senza minimamente essere noioso (io non me ne perdevo una puntata!), era anche culturale nel senso migliore del termine. E lo facevano condurre a un cantautore 27enne irsuto, che per giunta usava come sigla una canzone nonsense a base di scat e jazz, come questa:

Fumetto era stata incisa l’anno prima nel secondo album di Dalla, Terra di Gaibola, e credo sia rimasta nel cuore di tanti bambini dell’epoca. Per esempio in quello di Makkox, evidentemente. Ecco, sono grato a Dalla per quella trasmissione, di cui ricordo ben poco, ma dalla quale sono sicuro di avere imparato tantissimo.
L’altra canzone che vi propongo è di diversi anni più tardi, del 1985. Proviene da Viaggi Organizzati, album in cui Dalla comincia la collaborazione con Mauro Malavasi, cosa che ancora oggi molti vituperano. A me invece il suono molto elettronico di quel periodo (non solo di questo disco ma anche di altri dischi italiani, come E già di Lucio Battisti) piace tuttora molto. Ma, al di là dell’arrangiamento, Washington è una gran bella canzone. Ed è tra l’altro un autentica canzone fantascientifica, non della fantascienza favolistica cui occasionalmente ricorrono i cantautori nostrani, ma proprio fantascienza vera, lo spaccato di un mondo complicato e disperato. E Dalla la interpreta benissimo con una tensione che sale lentamente fino a esplodere nel finale.
Per molti anni, quando si parlava di Dalla, io citavo Washington e la risposta piu frequente che ottenevo era “Huh?”. Mi fa piacere che Luigi Bernardi mi abbia detto che lui la considera una delle più belle canzoni italiane di sempre.

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A Scarcity of Miracles

Siamo abituati alle stranezze di Fripp e compagni, ma questo disco è giunto del tutto inaspettato. Proprio mentre lo scorbutico chitarrista inglese ribadiva sul proprio blog che al momento non ha alcuna voglia di rimettersi a lavorare con i King Crimson, esce un album con la dicitura “a King Crimson ProjeKct” che, se considerato un disco “ufficiale” della band, rappresenterebbe un radicale cambiamento di direzione musicale: prevalenza di canzoni invece che di strumentali, atmosfere soft e acustiche al posto del metal e dell’elettronica degli ultimi vent’anni.
Cos’è successo in realtà? Il disco è nato come album solista di Jakko Jakszyk, musicista inglese non molto noto ma con un impressionante curriculum (ha collaborato, tra gli altri, con Level 42, Jansen Barbieri & Karn, Dave Stewart). Costui ha chiamato ad aiutarlo qualche musicista di area crimsoniana, poi ne sono arrivati altri, e alla fine 4 partecipanti su 5 sono risultati essere membri o ex-membri dei King Crimson: Robert Fripp, Mel Collins (sassofonista della band negli anni ’70), Tony Levin, e Gavin Harrison (batterista dei Porcupine Tree e anche dei King Crimson attuali, sebbene non abbia ancora partecipato ad alcun album). Anzi, possiamo dire 4 e ½ su 5, dato che Jakszyk è il cantante e chitarrista della 21st Century Schizoid band, gruppo dedito alla rievocazione del vecchio repertorio crimsoniano. È stato naturale, perciò, mettere il bollino KC a disco completato.
Il risultato è un disco d’atmosfera, che può ricordare i momenti più sognanti dei dischi di Fripp con David Sylvian. La chitarra di Fripp serve soprattutto a generare soundscape, che vanno a fondersi coi suoni altrettanto eterei di Jakszyk (che suona chitarra, tastiere e una specie di cetra cinese denominata guzheng). Su tutto svetta il sax di Collins, che è la vera colonna portante di questo album: il suo sound è perfetto ed entusiasmante, e i suoi continui assoli donano energia e interesse a una musica che altrimenti rischierebbe di essere monocorde.  Tony Levin al basso e Stick dà il suo solito impeccabile contributo, mentre devo dire di non avere apprezzato molto il drumming di Gavin Harrison: è bravissimo, ma il suo stile troppo roccheggiante mi è parso fuori posto. Qui ci sarebbe voluto un rifinitore come Michael Giles (che tra l’altro è il suocero di Jakszyk…).
Quello che non funziona molto in A Scarcity of Miracles, a mio avviso, sono proprio le composizioni di Jakszyk, che sono garbate e fungono da ottimo spunto per le improvvisazioni strumentali dei suoi compagni, ma non riescono a imporsi per il loro valore intrinseco. Avrò ascoltato l’album almeno una dozzina di volte, ma nessuna delle melodie mi è ancora rimasta nella memoria. Se mi consentite una metafora culinaria, l’effetto è quello di un intingolo delizioso versato su una pietanza di per sé insapore. Il piatto è mangiabile, anche buono,  ma il peccato originale resta.
In definitiva, gli appassionati prog dovrebbero comprare l’album soprattutto se hanno voglia di ascoltare un Mel Collins al massimo della forma. Ma se quello che cercate è un nuovo disco dei King Crimson, dovrete aspettare ancora.
L’album viene venduto a prezzo normale in una confezione che, oltre al CD-Audio, include un DVD che ripropone il contenuto del CD in una varietà di formati di qualità superiore (DVD-Audio stereo, DVD-Audio surround, LPCM stereo e DTS Surround), oltre a offrire un paio di bonus track. Che pacchia! Unico neo: i menu del DVD sul mio computer non sembrano funzionare (ma si può comunque accedere ai contenuti).

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Fly from Here

Un nuovo album degli Yes? Ancora?! Ebbene sì: la quarantatreenne band non si è ancora rassegnata alla pensione, e ha persino registrato un nuovo album in studio, il primo in dieci anni. E ovviamente io, da fan irredento quale sono, mi appresto a recensirlo per voi.
Prima di tutto credo che sia necessario un riepilogo delle ultime vicende di una band che, nonostante la sua longevità, può essere considerata una delle più litigiose mai esistite. Il 2008 ha visto l’uscita di due membri storici. Il tastierista Rick Wakeman ha lasciato amichevolmente per problemi di salute, cedendo il posto al figlio Oliver. Molto meno amichevolmente se n’è andato il cantante Jon Anderson, che, nonostante soffrisse di problemi respiratori al punto di dover rimanere per molti mesi in sanatorio, è rimasto oltraggiato quando la band lo ha sostituito con il canadese Benoît David, che gli somiglia non solo nella voce ma anche nel fisico: praticamente un suo clone con vent’anni di meno.
Doveva essere una sostituzione provvisoria, ma è diventata definitiva, e gli Yes sono entrati in studio con due nuove leve per registrare il loro primo album in dieci anni, con la produzione di Trevor Horn (anche lui ex-membro degli Yes). Ma poi è successo qualcosa, e durante le registrazioni Oliver Wakeman è stato silurato (anche se rimangono nel disco suoi contributi come autore e strumentista) e sostituito da Geoff Downes, che rientra nel gruppo 30 anni dopo esserne uscito. Seguendo la tradizione Yes, i motivi dell’avvicendamento non sono stati esplicitati. C’è chi dice che il povero Wakeman junior si sia reso colpevole di scarso rendimento, ma io sospetto invece che le ragioni siano essenzialmente economiche: buona parte del materiale di Fly from Here è firmata dal duo Horn/Downes, e costava meno avere l’autore all’interno della squadra piuttosto che fuori (per lo stesso motivo nel 1997 Billy Sherwood fu cooptato come “sesto membro” della band in quanto coautore di gran parte del materiale dell’album Open Your Eyes).
Con tutti questi cambi di formazione in corsa, ci si potrebbe aspettare un guazzabuglio. La verità è invece che il disco è piuttosto bello.
Per cominciare Downes è un signor tastierista, e si sente fin dalle prime note: Riesce a mettere molta personalità in quello che suona senza strafare. Poi David, che dal vivo mi aveva convinto solo a metà, in studio funziona bene, riesce a cantare nello stesso registro di Anderson ma con un po’ di sobrietà in più, il che non guasta. Più in generale, il disco è compositivamente e produttivamente solido, e riesce a farsi ascoltare per intero senza i riempitivi e le cadute di tono che avevano infestato gli ultimi dischi del gruppo. L’assenza di Anderson e la preminenza di Horn e Downes come autori fanno sì che la musica abbia l’atmosfera malinconica e nostalgica dei pezzi dei Buggles, una piacevole novità rispetto al romanticismo estatico e un po’ stucchevole dei brani andersoniani. Horn ha fatto tutto il contrario rispetto alla sua precedente produzione per gli Yes (90125), e ha abbandonato completamente gli effetti elettronici per dare la sensazione di un disco veramente cantato e suonato, con un sound molto simile a quello degli Yes anni ’70. In alcuni momenti, come per esempio l’overture in cui gli strumenti entrano ad uno ad uno, è davvero entusiasmante. Insomma, potrebbe essere il miglior disco degli Yes in un quarto di secolo.
Questo non significa che Fly from Here sia un capolavoro. A mio avviso ha tre grandi difetti. In primo luogo, se è vero che non ci sono brani da buttare via, è anche vero che non ci sono grandi picchi, e che si mantiene su un livello medio-alto ma senza mai toccare l’eccellenza. In secondo luogo, nulla da eccepire sulle atmosfere retrò, ma da un disco degli Yes mi sarei aspettato un po’ di creatività in più con i suoni. Forse non si poteva pretendere che un gruppo di ultrasessantenni facesse un album sperimentale, però qui hanno davvero evitato qualsiasi rischio. Infine, forse l’età ha influito anche su questo, ma è un disco troppo poco rock: quasi tutti i brani sono mid-tempo, la batteria è sempre molto tranquilla, Howe usa spesso l’acustica e ha suoni in generale poco aggressivi, solo nell’ultimo brano si sente un po’ di energia.
Venendo alle singole canzoni:

  • We Can Fly è un brano già noto: Horn e Downes ne scrissero la prima parte nel 1981, quando ambedue facevano parte degli Yes, col titolo di We Can Fly from Here. Fu persino eseguita dal vivo (come testimoniato nell’album The Word Is Live) e già allora l’idea era di trasformarla in una lunga suite. Il progetto non andò in porto causa temporaneo scioglimento della band, ma esistevano già i demo delle parti successive (pubblicati di recente in appendice alla riedizione dell’album dei Buggles Adventures in Modern Recording). Come se niente fosse, gli Yes hanno ripreso in mano il progetto 30 anni dopo e l’hanno portato a termine, sotto forma di una suite di oltre 25 minuti di lunghezza. La musica è bella, emozionante e malinconica, e l’esecuzione magistrale (oltre alla già citata introduzione, ho ammirato le rifiniture davvero splendide di Howe alla slide guitar nella seconda parte, “Sad Night at the Airfield”). Ha però il difetto di suonare più come una sequenza di canzoni affini che come una suite coesa. In particolare lo strumentale “Bumpy Ride” (firmato da Howe a differenza del resto) ha un contrasto troppo netto con ciò che lo precede.
  • The Man You Always Wanted Me to Be è un brano “rubato” alla produzione solistica di Chris Squire e ha le caratteristiche abituali dei brani firmati dal bassista: una melodia molto curata, belle armonie vocali, ma la tendenza a durare troppo a lungo senza svilupparsi ulteriormente.
  • Life on a Film Set è un altro brano firmato dal duo Downes/Horn, e a mio avviso il migliore dell’album. Bella melodia, bell’arrangiamento, atmosfere malinconiche alla Buggles ma nel contempo la ricchezza di idee dei migliori Yes.
  • Hour of Need è un brano firmato da Steve Howe, ed è un po’ una delusione: finisce dopo tre minuti dando la sensazione di essere la grandiosa introduzione a qualcosa che non è arrivato. Lascia perplessi il fatto che nell’edizione giapponese dell’album ci sia una versione del brano che dura il doppio…
  • Solitaire è il ritorno a un’amatissima tradizione: il brano acustico solista di Steve Howe. Anche in questo caso però sono leggermente deluso: il pezzo è piacevole, molto classicheggiante, ma non spicca nella produzione del chitarrista.
  • Into the Storm è firmata da tutta la band (incluso Wakeman junior), ed è un bel brano roccheggiante in cui fa da protagonista un altro grande redivivo, e cioè il basso con wah-wah di Chris Squire. Se questo è un’esempio di quello che avrebbe potuto essere il suono degli Yes con Wakeman Junior, direi che non è affatto male.

In conclusione, se gli Yes vi piacciono potete acquistare il disco a scatola chiusa: è una delle cose migliori che abbiano prodotto da tanto tempo, e ricrea molti degli elementi per cui gli Yes degli anni ’70 andavano giustamente famosi. Non è però un disco fondamentale. Se non conoscete la band e volete ascoltare una formazione molto simile a questa, consiglio piuttosto l’acquisto di Drama (1980).

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