I film che ho visto al Trieste Science+Fiction Festival

È tantissimo tempo che non scrivo su questo blog, e ho deciso, volendo ricominciare, valeva la pena di farlo con un long form. E quale migliore occasione della mia visita al Trieste Science+Fiction Festival?

Per la cronaca, ci sono andato non con lo spirito del critico ma del turista: ero lì per divertirmi e vedere amici, non sono rimasto per tutta la durata del festival e ho visto solo i film che mi era comodo vedere, senza fare una selezione ragionata. Nondimeno l’esperienza è stata molto positiva, e quindi ora vi racconto quello che ho visto.

I film che mi sono piaciuti molto:

Mars Express

di Jérémie Périn, Francia

Anno 2200, i robot sono molto diffusi, sia come entità autonome sia come “sostituti”per umani che non dispongono più del proprio corpo. I robot sono incapaci di fare del male agli esseri umani, ma ci sono attivisti che praticano su di loro un jailbreaking per dare loro la totale libertà, cosa che ha provocato rivolte e un’atmosfera di sospetto e ostilità. Aline è una detective della città di Noctis su Marte, cui viene chiesto di indagare sulla sparizione di una studentessa. Mentre i cadaveri si accumulano, gradatamente l’indagine porta alla luce un complotto che coinvolge l’intera popolazione robotica.

Mars Express ha fatto man bassa: ha vinto il premio Asteroide assegnato ai film di registi emergenti, il premio della critica, il premio della trasmissione Wonderland; in pratica, quasi tutto quello che poteva vincere. Meritatamente, perché da tanto tempo non mi capitava di rimanere tanto coinvolto da un film di fantascienza (e parlo in generale, non solo di film di animazione).

La cifra di Mars Express è l’essenzialità: uno stile di animazione che non ricerca gli effetti fini a se stessi ma si mette al servizio della storia. Una storia intricata e nera degna dei migliori polar francesi, con personaggi pieni di ombre che possono vivere momenti di travolgente umorismo ma un attimo dopo finiscono ammazzati senza che ci si soffermi un secondo a compiangerli. Una vicenda complessa e coerente, che ci lancia senza spiegazioni in un mondo alieno come solo la migliore fantascienza sa fare, e che solo negli ultimi dieci minuti si concede di volare alto uscendo dai bassifondi ed evocando scenari grandiosi.

Ho trovato la sceneggiatura di Mars Express molto più convincente di quella di molti recenti blockbuster hollywoodiani. Spero tanto che possa trovare una distribuzione in Italia.

La guerra del Tiburtino III

di Luna Gualano, Italia

Una popolazione aliena, piccoli vermi in grado di penetrare attraverso le narici nel cervello degli esseri umani prendendo il controllo delle loro azioni, sta invadendo il pianeta Terra cominciando dal quartiere Tiburtino III di Roma. A scoprire gli invasori e a mettere i bastoni tra le ruote del loro piano di conquista sarà un’improbabile squadra formata da un piccolo spacciatore, un suo squinternato amico, la sua barista di fiducia e una influencer modaiola capitata nel quartiere in cerca di visibilità.

Il cinema italiano non sta vivendo il suo momento migliore, ma per fortuna ogni tanto capita ancora di incontrare un film italiano fatto bene, e capita sempre più spesso che sia un film di genere. È sicuramente il caso di questa commedia fantascientifica in salsa romana, che ho iniziato a guardare senza aspettarmi nulla e che ho trovato davvero simpatica e divertente.

La guerra del Tiburtino III mi è piaciuto per come riesce a prendere sul serio la sua bizzarra trama. Se l’idea iniziale è demenziale e i suoi sviluppi pure, nondimeno i personaggi sono credibili e ben cesellati, con grande cura dei dettagli e senza eccessi o sbavature, e la storia viene portata avanti rimanendo coerente con le sue assurde premesse (ed è proprio questo che la rende così divertente). Non mancano gli spunti di satira politica e di costume, azzeccati ma senza mai prendere il sopravvento sulla trama (ed è un bene).

Se il film funziona così bene è anche merito di un casting molto azzeccato, con tutti gli attori perfettamente in parte. Chi ha amato Boris sarà felice di ritrovare alcuni interpreti della serie: se Francesco Pannofino si limita a una comparsata, troviamo Carolina Crescentini nella parte della madre del protagonista, ma soprattutto Paolo “Biascica” Calabrese, azzeccatissimo come regina aliena incarnata in un borgataro romano, che rigurgita uova dalla bocca intonando maledizioni sprezzanti nei confronti dei “mammiferi”. Impagabile.

La guerra del Tiburtino III merita di arrivare al grande pubblico, spero che i distributori trovino il coraggio di proporlo fuori dalle porte di Roma.

Gli altri film che ho visto in questa edizione:

Creep box

di Patrick Biesemans, USA

Una tecnologia innovativa permette di ricreare temporaneamente la personalità di persone defunte, che possono esprimersi a voce attraverso quelli che vengono definiti “sussurri”. Il dottor Caul ne è il principale esperto, ma deve affrontare numerosi problemi: le dubbie implicazioni etiche, i finanziatori che spingono sull’aspetto commerciale trascurando quello scientifico, e il desiderio di usare lui stesso i sussurri per comunicare con la moglie morta suicida.

Creep Box nasce dall’acclamato cortometraggio con lo stesso titolo uscito l’anno precedente, che nei suoi primi minuti riproduce molto da vicino (con alcuni attori cambiati). Ma, se il corto era estremamente efficace, la trasformazione in lungometraggio non è riuscita alla perfezione.

Il film riesce piuttosto bene a creare un’atmosfera di suspense, con l’evocazione delle personalità dei defunti che sembra la versione ipertecnologica di una seduta spiritica (con parole chiave scandite a mò di formule magiche per favorire la connessione), e mette sul tavolo una serie di problematiche interessanti: le voci sono solo simulazioni, o sono veramente persone? Quanto ci si può fidare di quello che dicono? Fa davvero bene ai loro cari poterci parlare? Grazie anche alla solida interpretazione del protagonista Geoffrey Cantor nei panni del cupo e tormentato professor Caul, si rimane catturati dalla storia nonostante l’assenza di scene d’azione o effetti speciali. Purtroppo però il regista non sa sfruttare adeguatamente l’ottimo materiale, e cade nel finale, dove tutto si fa confuso e non si risponde ad alcuna delle domande poste. Peccato.

Pandemonium

Di Quarxx, Francia

Dopo un incidente stradale, Nathan scopre di essere morto e destinato all’Inferno. In attesa di sapere quale sarà la sua pena, assiste alle storie di altri dannati: una bambina che ha sterminato l’intera famiglia, e una madre che ha causato il suicidio della figlia ignorando le sue richieste di aiuto.

Mi riesce difficile emettere un giudizio su questo film, perché da ogni scena emerge chiaramente una interessante personalità di autore, e tuttavia non mi è del tutto chiaro dove il regista volesse andare a parare.

Il prologo di Pandemonium è forse la sua parte migliore: il dialogo tra i due personaggi appena morti e che gradatamente si rendono conto di dover andare uno all’Inferno e l’altro in Paradiso (ma ci sarà una sorpresa) ha i toni di un efficacissima commedia nera. L’episodio dedicato alla bambina assassina ha invece la forma di una farsa gotica e inquietante (con una protagonista tredicenne di eccezionale bravura), mentre il successivo, con la madre che per tutto il tempo continua a parlare al cadavere della figlia senza voler accettare il suo suicidio, è di un’angoscia davvero lancinante. Nel finale si ritorna al Nathan della parte iniziale, con un ulteriore sorpresa: il diavolo a cui è stato affidato se lo lascia scappare, e viene spedito sulla Terra per riprenderselo. Potrebbe essere l’inizio di un film bizzarro e divertente, ma invece arrivano i titoli di coda.

Nel presentare il film, Quarxx ha dichiarato che la sua intenzione iniziale era di girare nove episodi, uno per ciascun girone dell’Inferno, e di essere stato dissuaso dalle difficoltà tecniche dell’impresa. Forse se davvero avesse girato più episodi sarebbe più facile dare un senso al film, mentre così la totale diversità delle tre storie presentate rende difficoltoso tirare le somme. Forse il tema potrebbe essere quello della negazione: tutti i personaggi del film in qualche modo non accettano la propria dannazione. Nathan contesta che il proprio peccato meriti l’Inferno, la bambina attribuisce i propri delitti a un immaginario mostro-servitore che fa impiccare al proprio posto, mentre la madre non vuole vedere il suicidio della figlia. A questa negazione fa da contraltare una logica spietata: nonostante nessuno dei personaggi ci sembri davvero meritare l’Inferno (anche la malvagità della bambina è quella inconsapevole di chi non sa valutare la gravità dei propri atti), tutti vengono dannati. Meritiamo tutti l’Inferno, sembra dire il regista, e non lo vogliamo vedere.

A Million Days

di Mitch Jenkins, UK

Con la Terra devastata dal cambiamento climatico, l’umanità affida le sue speranze a un’astronave costruita per fondare una colonia sulla Luna. Tuttavia un esame delle simulazioni condotte da un’intelligenza artificiale fa sorgere il sospetto che quest’ultima stia manipolando la missione per fini ignoti, mentre emergono collegamenti con un incidente che ha causato la morte di un’astronauta cinque anni prima…

A Million Days inizia con alcune scene ambientate in orbita, facendo pensare a un’avventura spaziale, ma è solo un contentino dato allo spettatore: tutto il resto del film ha un impianto strettamente teatrale, un lungo dialogo tra personaggi in cui gli eventi vengono solo evocati senza mai essere mostrati. Un impianto di questo tipo per reggersi avrebbe bisogno di una logica ferrea, mentre purtroppo la trama imbastita dagli sceneggiatori è piena di vaghezze e approssimazioni. Il cambiamento climatico evocato in apertura non è che un macguffin, dato che gli scopi della missione salvifica non vengono mai definiti con precisione. L’idea di fondo (un’intelligenza artificiale che si ribella ai suoi creatori per meglio perseguire gli obiettivi che le sono stati affidati) non è certamente nuova, risale perlomeno a 2001: Odissea nello spazio, più di mezzo secolo fa! La sceneggiatura cerca di accumulare colpi di scena attribuendo sempre nuove mirabolanti capacità all’intelligenza artificiale, ma in questo modo rende sempre più difficile la sospensione dell’incredulità: se può fare tutte queste cose, non si capisce perché abbia dovuto ricorrere a un piano così contorto per ottenere quello che vuole.

In conclusione, un film che mantiene molto meno di quello che promette.

Herd

di Steven Pierce, USA

Una coppia lesbica in crisi cerca di ritrovare la concordia attraverso una settimana di campeggio, ignara che nella zona è scoppiata un’epidemia che trasforma le persone in mostri aggressivi. Ma forse ancora più pericolose dell’epidemia sono le milizie armate che si sono formate per combatterla, ignorando gli appelli alla calma del governo statunitense.

Herd si potrebbe definire un film di zombie revisionista. Sì, perché, anche se quelli mostrati dal film si chiamano “hep” e il regista non vorrebbe fossero chiamati zombie, è inutile negare l’evidenza: siamo di fronte a un film di zombie che mette in scena tutti i cliché del genere, anche se poi ne capovolge il senso: a mano a mano si scopre infatti che gli zombie non sono poi così pericolosi, e che la vera minaccia sono invece le bande armate che sorgono per rimediare alla supposta inerzia del governo, e che finiscono per incrementare la violenza combattendosi tra loro. È trasparente l’atto d’accusa contro l’America rurale, insofferente di ogni regola e autorità e pronta a usare la violenza contro ogni diverso, che siano zombie od omosessuali.

Va sicuramente elogiato il tentativo di rinnovare un genere ormai abusato applicandogli un nuovo sottotesto politico. Detto questo, però, il film non convince del tutto: il messaggio risulta troppo trasparente e a volte eccessivamente retorico, mentre per il resto la regia non si distacca dalla routine del genere. Sufficiente ma niente di più.

The Moon

di Kim Yong-Hwa, Corea del Sud

Non posso in buona fede recensire questo film perché ne ho visto solo un terzo, e poi sono uscito dalla sala per andare alla presentazione di un libro. Posso dire che quello che ho visto non mi ha entusiasmato: il solito film con l’astronauta perduto nello spazio, solo in salsa coreana. Abbiamo già dato.

Bonus: i film dell’anno scorso

Al Trieste Science + Fiction Festival sono andato anche l’anno scorso, a presentare Fanta-Scienza 2, e nell’occasione sono riuscito a vedere un paio di film, che avrei voluto recensire qui ma non ho trovato il tempo. Quindi li recupero ora!

LOLA

di Andrew Legge, U.K.

Negli anni ’30 due geniali sorelle orfane che vivono sole in una villa nella campagna britannica inventano una macchina in grado di captare le trasmissioni televisive del futuro. Per un po’ si limitano ad ammirare le popstar come David Bowie ma, quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale, non resistono alla tentazione di usare la macchina per scoprire in anticipo dove cadranno le bombe tedesche. Le conseguenze saranno dirompenti.

Davvero un piccolo capolavoro questo film che si è meritato il premio Méliès d’argent (riservato ai lungometraggi di produzione europea) e anche il premio di Wonderland. Essendo passato un anno dalla sua uscita potete addirittura guardarvelo a costo zero su RaiPlay, e vi consiglio caldamente di farlo!

Il merito di LOLA non è nell’idea in sé, che in fondo è una classica storia di paradossi temporali affine a tante altre viste in precedenza. Quello per cui si distingue è sono lo stile e il rigore con cui la mette in scena. LOLA è interamente realizzato con la tecnica del found footage, come se fosse stato girato (in un magnifico bianco e nero) con una cinepresa dell’epoca per documentare eventi reali (e il motivo per cui questo filmato è presente nel nostro universo verrà spiegato nel finale).

Con due interpreti bravissime e carismatiche che si rubano la scena a vicenda, il film riesce a porre importanti domande sul senso della nostra presenza nella storia, senza mai cessare di essere avvincente. Per me il migliore dei film che ho visto a Trieste.

The Breach

di Rodrigo Gudiño, Canada

Quando un cadavere con inspiegabili ferite e deformità viene trovato sulle rive di un lago, lo sceriffo locale non può esimersi dall’andare a ispezionare il luogo da cui sembra provenire, in un’area praticamente disabitata. Lo accompagnano un amico e l’ex fidanzata.

Può essere che agli appassionati di horror questo film dica qualcosa, ma io l’ho trovato davvero pessimo. La trama di base è una delle più vecchie e scontate del genere (sappiamo fin da principio che nella casa sperduta in mezzo al nulla troveremo uno scienziato pazzo che ha oltrepassato limiti che l’uomo non dovrebbe valicare), e i tentativi di renderla interessante sono confusi e contraddittori, e hanno sempre meno senso a mano a mano che si procede. Non sembra esserci un sottotesto, a meno che non lo si voglia vedere nel personaggio interpretato dal chitarrista dei Rush, Alex Lifeson, che sembra l’evidente parodia di un complottista (però alla fine ha ragione lui, quindi… dove si va a parare?). Vedibile solo se ci si accontenta di un po’ di avventura e suspense senza altro dietro.

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Highwayman

Recensione del fumetto “Highwayman” di Koren Shadmi.

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Avevo già apprezzato moltissimo Koren Shadmi per Abaddon, inquietante variazione sul tema dell’Inferno. Molto meno mi era piaciuto Rise of the Dungeon Master, biografia a fumetti di Gary Gygax in cui il disegno di Shadmi veniva banalizzato dalla poco efficace sceneggiatura di David Kushner. Ora arriva questo Highwayman, dove l’autore di origine israeliana torna a curare anche la sceneggiatura e arriva di nuovo ai massimi livelli con una storia puramente fantascientifica, diventata immediatamente la mia preferita nella sua produzione.

Siamo sempre dalle parti dell’Inferno, anche se in questo caso è un Inferno in terra. Il protagonista è un uomo senza qualità colpito dalla maledizione dell’immortalità: quando muore resuscita poco dopo, guarito e pronto a riprendere il cammino. Nei sei episodi che compongono la storia (più un settimo collocato al penultimo posto, che in un flashback ambientato nell’America dei primi pionieri ci fa conoscere l’origine del suo tormento) l’uomo vaga alla ricerca della Fonte, obiettivo che dovrebbe spiegargli il perché della sua situazione e dargli finalmente la pace. A ogni episodio corrisponde un forte salto temporale, dal periodo tra le due guerre fino a un futuro lontanissimo, e il viaggiatore si trova a testimoniare della progressiva distruzione della vita sul nostro pianeta e della terribile decadenza della civiltà umana, incontrando nel frattempo altri che condividono, sempre senza comprenderlo, il suo destino di immortale.

Quello di Highwayman non è uno spunto particolarmente originale, ma la sua forza è nella solidità della realizzazione. Una serie di personaggi credibili e memorabili, e una serie di sprazzi vertiginosi che permettono alla mente del lettore di riempire gli spazi lasciati vuoti e disegnare una visione inquietante del futuro dell’umanità. Il tratto di Shadmi è essenziale, non sfrutta grandi effetti ma minuscoli dettagli significativi che vanno a colpire l’immaginazione.

Quello che ho apprezzato di più è l’assenza totale di misticismo e finalismo nel punto di vista dall’autore. La spiegazione finale arriva ed è amara, banale e priva di vero senso come tutto il resto. Il protagonista rifiuta granitico ogni tentativo di giustificare la sofferenza con un fine più grande, ma rimane tenacemente attaccato alla propria umanità, alla propria condizione di testimone dell’Universo che è l’unica cosa che dia un senso al tutto.

Da leggere.

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Money Talks! su Zeppelin

Pochi giorni fa è uscita l’antologia Metamorfosi della mente a cura di Gian Filippo Pizzo, che comprende anche il mio racconto intitolato Money Talks! Credo sia una delle storie più bizzarre che ho scritto, perlomeno come concetto di fondo: l’intelligenza artificiale è diventata una valuta e quindi il denaro stesso ha acquisito un’intelligenza.

Paolo Mazzucato, giornalista di RAI Alto Adige, mi ha gentilmente invitato a parlarne nel corso della trasmissione radio Zeppelin, il 14 ottobre scorso.

Qui potete ascoltare il nostro dialogo:

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The Calculating Stars

Nel 1952 un grosso meteorite precipita sugli Stati Uniti. Oltre a distruggere completamente Washington, innesca un cambiamento climatico che potrebbe rendere la Terra inabitabile nel giro di pochi decenni. Elma York, pilota e matematica, viene coinvolta nel programma spaziale allestito nella speranza di trovare una salvezza per l’umanità. Il suo compito è inizialmente quello di fare i calcoli per le missioni spaziali, ma presto il suo obiettivo diventa quello di convincere tutti che dell’equipaggio può far parte anche una donna…

Questo romanzo è arrivato accompagnato da una marea di recensioni positive, ma non riuscivo a capire perché la storia che propone dovesse risultare così interessante. Alla fine mi sono lasciato convincere e l’ho comprato ma, al termine della lettura, la mia perplessità è rimasta.

Intendiamoci, il libro è scorrevole e ben scritto: si lascia leggere in un paio di giorni sotto l’ombrellone senza annoiare. Si vede benissimo che l’autrice si è documentata in modo molto approfondito sull’argomento. E soprattutto, la storia evidenzia in maniera molto chiara come funzionano le barriere non esplicite, ma non per questo meno solide, che tengono le donne e le minoranze lontane da una parità effettiva.

Ugualmente però il libro non è riuscito ad appassionarmi davvero. In primo luogo perché mi è stato venduto come libro di fantascienza, e dentro di fantascienza ce n’è veramente poca. Il lato ucronico della trama non viene sviluppato: le conseguenze economiche e politiche della catastrofe non sono che un lontanissimo sfondo privo di dettagli. L’unica cosa su cui ci si sofferma è l’avvio anticipato del programma spaziale, e anche qui devo dire che ho parecchie perplessità. Siamo davvero sicuri che nel 1952, dopo una catastrofe da milioni di morti e danni incalcolabili, la priorità degli USA sarebbe stata quella di far partire da zero un programma spaziale con l’obiettivo di far sopravvivere l’umanità al di fuori della Terra (cosa che ancora oggi, 70 anni dopo, appare fuori dalla nostra portata)? E per quale motivo gli USA, che pure hanno subito il danno iniziale più grave, sono in grado di affrontare la crisi senza gravi sconvolgimenti, mentre l’URSS dopo il primo anno di cambiamento climatico è “alla fame” e viene messa fuori gioco? (Certo, far sparire dai giochi i sovietici è comodo, così si evita di menzionare che loro mandarono una donna nello spazio vent’anni prima degli statunitensi.)

Dal punto di vista tecnologico il libro è ugualmente avaro: il programma spaziale procede più velocemente e seguendo un ordine diverso rispetto a quanto è avvenuto nella realtà (in questo caso viene lanciata una stazione orbitante prima dello sbarco sulla Luna, cosa che del resto sarebbe stata logica, se non ci fosse stata la pressione di battere i sovietici), ma del come ci viene detto pochissimo, e quel poco non sembra discostarsi molto da quanto hanno fatto le varie Mercury, Gemini ecc… Niente di fantascientifico neppure qui.

Appurato che il libro non contiene elementi fantascientifici di rilievo, può funzionare semplicemente come storia di una donna che riesce ad avere successo vincendo le resistenze del sessismo e del razzismo? Può funzionare e in effetti, come ho detto, funziona. Però con dei limiti. Per cominciare, la scrittura è estremamente convenzionale. Il romanzo sembra costruito già con l’intenzione di diventare il classico filmone hollywoodiano, di quelli con l’eroe positivo (in questo caso l’eroina positiva) che, un passo alla volta e sostenuto da un coniuge pressoché perfetto, supera ogni difficolta esterna ed interiore, vanifica le perfidie dell’antagonista e infine trionfa. E poi mi chiedo: era davvero necessario imbastire uno scenario ucronico per una storia di affermazione femminile, quando la realtà ce ne offre tantissime equivalenti? (Tra l’altro prima di questo è uscito un altro libro, Il diritto di contare, diventato anche film, che parla delle vere donne del programma spaziale USA; e alla forza di quella storia questo libro mi sembra avere davvero poco da contrapporre).

In conclusione: un libro che si lascia leggere e il cui messaggio è impossibile non condividere, ma di qui a considerarlo imperdibile e fondamentale, come molti stanno facendo, ce ne corre…

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In morte di Stefano Di Marino

Mi rattrista molto la notizia della morte di Stefano Di Marino. Non ero un suo lettore, frequentava generi che non mi appassionano, ma mi era molto simpatico come persona. Lo conoscevo attraverso la comune amicizia con Giuseppe Lippi, quando lo incontravo mi salutava e, riconoscendo in me un altro adepto della confraternita della letteratura di genere, si metteva a chiacchierare.

Era uno degli ultimi scrittori-artigiani rimasti, capace di sfornare un romanzo in pochi giorni e passare subito al successivo, nascosto dietro innumerevoli pseudonimi, con una passione infinita per il suo lavoro. Uno che ricercava il dettaglio in modo maniacale, ed era diventato un’autorità sulle arti marziali e sulle armi, pubblicando anche vari saggi sull’argomento.

L’ultima volta che l’ho incontrato, in stazione a Milano alcuni anni fa, anche nelle poche parole scambiate traspariva la preoccupazione per il suo futuro. Se fosse nato statunitense sarebbe stato agiato e forse celebre, mentre l’editoria italiana non gli aveva mai dato la possibilità di uscire dal ghetto degli pseudonimi e delle pubblicazioni da edicola.

Ora che si è tolto la vita, tutti i maggiori quotidiani si sono occupati di lui. Ed è emerso il rispetto che si era guadagnato nella comunità degli scrittori. Purtroppo, ormai è tardi. Ma i suoi lettori non lo dimenticheranno.

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Cala il sipario sull’EmDrive

Vi ricordate l’EmDrive? Ne avevo parlato tempo fa su questo blog (quasi sette anni fa! Non ci posso credere!). Si trattava di un motore che, se avesse funzionato, avrebbe potuto rivoluzionare i viaggi spaziali. In pratica è una specie di forno a microonde che, secondo i suoi ideatori, dovrebbe generare una spinta senza bisogno di propellente. Il problema è che un motore del genere, se esistesse, violerebbe alcune delle più fondamentali leggi della fisica, e le spiegazioni date dai progettisti sul perché questo potrebbe avvenire erano considerate fumose e poco convincenti dalla comunità scientifica.

E tuttavia, negli esperimenti pratici il motore sembrava generare una spinta. Molto piccola. Molto più piccola di quanto previsto dagli ideatori. Così piccola da essere probabilmente frutto di un errore di misura. Epperò questa spinta c’era, ed era sufficiente per dire: chissà? Magari in questa storia c’è davvero qualcosa di vero, può nascondere quel tipo di scoperta inattesa che in molti romanzi di fantascienza dà il via a una nuova era di esplorazioni spaziali facili ed economiche…

Ma su questo tipo di fantasie è calata la scure dell’Università di Dresda. Che ha provato a ripetere l’esperimento dell’EmDrive con maggiore attenzione agli strumenti di misura, e ha ricavato che:

  • l’Emdrive non produce nessuna spinta, nemmeno di tre ordini di grandezza inferiore a quanto misurato in precedenza;
  • la spinta misurata negli altri esperimenti era dovuta a un surriscaldamento della bilancia usata per misurarla.

Niente da fare, quindi. L’EmDrive non funziona. Per muoverci nello spazio siamo limitati alle vecchie, collaudate, limitate tecnologie di sempre.

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Un ricordo di Camilleri

Per ricordare Andrea Camilleri, vi racconto come entrai, per così dire, in contatto con lui.

Poco meno di 20 anni fa ero entrato da non molto nella redazione di Computer Idea, e mi avevano affidato (o, meglio, affibbiato) la recensione di un videogioco tratto Il cane di terracotta di Camilleri. (In realtà chiamarlo “videogioco” è eccessivo: era una storia a bivi con animazioni in Flash, quello che anche allora si poteva considerare una “poverata”.)

Mi venne un’idea: “E se invece di sforzarmi di rendere interessante questa roba provassi a intervistare Camilleri? Potrei chiedergli del suo rapporto coi computer, del perché abbia fatto diventare Catarella l’esperto di informatica di Montalbano, e altre cose del genere!”. Ottimo, ma sarei riuscito a ottenere l’intervista con un personaggio di quel calibro?
“Tentar non nuoce!”, mi dissi, e telefonai alla Sellerio.

La persona che mi rispose mi disse: “Guardi, posso darle il suo numero privato, così si metterà d’accordo lei”. Non potevo credere di essere così fortunato. Al primo tentativo avevo ottenuto il numero di Camilleri. Bastava provare!

Telefonai al numero. Mi rispose Camilleri. Sotto forma di un nastro registrato con la sua voce. Che diceva all’incirca:

MI CHIAMATE TUTTI I GIORNI PER CHIEDERMI DI PARTECIPARE A INTERVISTE, PRESENTAZIONI, TRASMISSIONI, MANIFESTAZIONI. BASTA! NON HO TEMPO! DEVO LAVORARE! DEVO SCRIVERE! LASCIATEMI IN PACE!

😀

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Game of Thrones: il mio parere

Sono passati otto anni da quando commentavo con questo post e questo articolo su Players la fine della prima stagione di Game of Thrones. È buffo pensare a quanto siano cambiate le cose da allora. Nel 2011, avendo letto tutti i libri, il mio parere era quello di una persona esperta di un argomento per quasi tutti nuovo e sconosciuto. Oggi si discute di Game of Thrones anche sul tram e dal parrucchiere, e prestigiosi opinionisti si sono impegnati a commentare in diretta ogni puntata; il mio parere sarà quindi una goccia nel colossale oceano del chiacchiericcio mondiale sull’argomento. Proprio perché l’universo mondo si sta esprimendo, comunque, stavolta non ho voluto esimermi dal dire la mia.

(È anche buffo rivangare le domande che mi ponevo allora. “Riuscirà la serie a mantenere un’audience sufficiente per gli almeno sette anni (ma probabilmente di più) necessari per portare la storia alla sua conclusione? Riuscirà George R. R. Martin a scrivere i due volumi che ancora gli mancano per arrivare al termine prima che la serie TV lo raggiunga? Riusciranno i produttori a ottenere i finanziamenti per tutte quelle scene costose (battaglie campali e navali, draghi, giganteschi metalupi e così via) che nei libri successivi diventano indispensabili alla trama? E come affronteranno il fatto che i numerosi interpreti-ragazzini cresceranno molto più rapidamente dei loro personaggi? Alla fine l’audience ha continuato a crescere fino a livelli da record, i soldi per i draghi si sono trovati eccome, del fatto che gli attori siano invecchiati più del dovuto non è importato a nessuno. L’unico dubbio che purtroppo si è rivelato fondato è la capacità di Martin di terminare di scrivere i libri rimanendo in vantaggio sulla serie TV: non solo non c è riuscito, ma in questi otto anni non ha pubblicato più nulla di nuovo, e da questo derivano gran parte dei problemi delle ultime stagioni.)

Vi anticipo subito in breve cosa ne penso. Credo che il finale di Game of Thrones in sé sia sostanzialmente sensato e in tono con la serie: un finale meno amaro e più trionfalistico sarebbe stato fuori luogo. È probabile che sia stato dettato da Martin stesso, ed è “martiniano” proprio in quanto delude le aspettative più ovvie e infrange i canoni del genere. Purtroppo però il modo in cui ci si è arrivati è invece profondamente insoddisfacente, e ha abbassato di molto la media di una serie che aveva raggiunto livelli qualitativi altissimi.

(Da qui in poi, è superfluo dirlo, saranno SPOILER a manetta!)

Di chi è la colpa? Mi spiace dirlo, ma il principale responsabile resta comunque George R. R. Martin. Il quale non solo in otto anni non ha scritto l’atteso finale della saga, ma già negli ultimi libri pubblicati dà l’impressione di averne perso il controllo. Di questo parlerò in modo più approfondito in un post specificamente dedicato all’argomento, ma comunque voglio sottolineare che negli ultimi due libri pubblicati, A Feast for Crows e A Dance with Dragons, i contorni di un possibile finale sembrano sbiadire invece che farsi più definiti; i personaggi principali si impantanano in complicazioni sempre più intricate, ed entrano in gioco nuovi personaggi e nuove rivelazioni di cui non si sentiva esattamente il bisogno, a rendere ancora più problematica la posizione di chi volesse tirare le fila di tutto il materiale senza tralasciare niente. Insomma, se la serie non è finita in modo degno, la colpa è in primo luogo del fatto che è tratta da una saga che per ora è tronca, e chissà se un finale lo avrà mai.

Ma una pari responsabilità ce l’hanno a mio avviso anche i due showrunner Benioff e Weiss, i quali, dopo aver terminato il materiale originale da cui attingere, hanno deciso che sarebbero arrivati al finale dettato da Martin in soli tredici episodi. C’è chi dice che sia stata una decisione obbligata, dovuta al lievitare dei costi della serie. Costoro non tengono conto però del fatto che, all’epoca, la stampa specializzata fu unanime nell’attribuire interamente agli sceneggiatori la volontà di chiudere in fretta, contro i desideri della stessa HBO, che sarebbe stata disposta a concedere persino altri cinquanta episodi. Una decisione che temo dettata, più che da una visione artistica, da interessi economici (è stato appena annunciato che sceneggeranno il prossimo film di Star Wars, una delle più redditizie franchise hollywoodiane), sicuramente legittimi, ma che non sono andati nell’interesse del mantenimento della qualità.

Abbiamo visto per prima cosa una colossale operazione di potatura, con un gran numero di personaggi eliminati prematuramente senza andare troppo per il sottile. Con vittime principali Rickon Stark (rimasto nascosto per intere stagioni e poi tirato fuori dal cilindro solo per farlo immediatamente ammazzare da Ramsay Bolton) e tutti gli avversari politici di Cersei Lannister, fatti fuori letteralmente col lanciafiamme (un’esplosione di altofuoco che li ha cancellati dalla serie dal primo all’ultimo).

Questo forse era inevitabile: chiunque volesse portare la serie a un finale in tempi ragionevoli doveva per forza di cose concentrarsi su alcune linee narrative e rinunciare a dare un senso di compiutezza alle storie di ogni singolo personaggio minore. Quello che risulta difficile perdonare a Benioff e Weiss è l’aver trattato con pari sufficienza e sbrigatività anche i personaggi e le storie maggiori. Una volta sfrondato l’albero, il materiale per arrivare a una degna conclusione ci sarebbe stato, ma non è stato sfruttato a dovere. Abbiamo visto invece alcuni personaggi subire una sorta di de-evoluzione, abbandonando senza motivo il percorso costruito in tante stagioni per tornare a essere repliche sbiadite di ciò che erano all’inizio, come se gli autori si sentissero più a loro agio a lavorare con cliché che con personaggi complessi.

Per esempio Jaime Lannister: da cattivo disposto a qualunque nefandezza per amore della sorella-amante Cersei, nel corso delle stagioni era diventato sempre più umano, ed era sembrato trovare nell’amore per Brienne di Tarth la spinta definitiva per diventare una persona diversa. Ma se nei libri le cose sembrano andare davvero così, all’inizio della settima stagione gli sceneggiatori hanno pensato bene di fargli quasi-stuprare la sorella accanto al cadavere del figlio facendogli concepire un altro bambino, riportando il personaggio alle origini. In TV Jaime resta così, irrisolto: disobbedisce alla sorella e si reca al Nord a combattere insieme ai suoi nemici, sembra concedersi finalmente all’amore per Brienne… e poi si rimangia tutto per tornare con la sorella e morire insensatamente con lei. Una scelta che non solo è molto difficile da giustificare a livello psicologico, ma che va a contraddire la cosiddetta “profezia del valonqar”, un dettaglio che a suo tempo Benioff e Weiss avevano giudicato tanto importante da contravvenire alla loro stretta regola che bandisce i flashback. Abbiamo visto quindi una giovane Cersei ricevere da una veggente la predizione che sarebbe stata uccisa dal fratello minore. Fratello che lei identificava in Tyrion, ma che i bene informati sapevano poter essere anche Jaime, suo gemello ma nato per secondo. Ma nel finale Cersei muore dopo che entrambi i fratelli si sono impegnati per salvarle la vita, mandando al diavolo la profezia (e la coerenza narrativa). [Nota: mi fanno notare che nella versione televisiva la profezia non fa cenno al valonqar; tenere a mente tutte le differenze tra libri e serie TV è davvero complicato!]

Identico discorso si può fare per Arya Stark, che abbiamo visto affrontare volontariamente un addestramento disumano che l’ha trasformata in un’assassina priva di sentimenti pur di poter avere la sua vendetta. Una volta che Arya è tornata a Grande Inverno, però, tutto questo viene quasi dimenticato. Si addolcisce, decide addirittura di punto in bianco di perdere la verginità, nel combattere contro i non-morti sembra aver perduto i suoi poteri mimetici e tornare a essere una ragazzina in lotta con poteri più grandi di lei. Poi sembra ricordarsi di essere un’assassina, uccide addirittura il Re della notte e parte col Mastino in cerca della vendetta definitiva contro Cersei. Ma nel finale basta una frase buttata lì dal Mastino per indurla a rinunciare, per poi vagare impotente attraverso la città in fiamme in una lunga scena che non porta a nulla. Il suo è diventato un personaggio irrisolto e senza scopo, tanto è vero che la sceneggiatura ha creato dal nulla un suo desiderio di esplorare il mondo a ovest di Westeros pur di darle un’uscita di scena purchessia.

(A proposito del Mastino, anche lui nel lungo viaggio a fianco di Arya sembrava aver trovato una sorta di redenzione, e invece lo vediamo morire insieme al fratello in un lungo duello, molto spettacolare ma del tutto ininfluente ai fini della storia: che morisse o vivesse uno o l’altro dei Clegane, o ambedue, nulla cambierebbe per qualunque altro personaggio.)

Ma il problema più grave di queste ultime stagioni è l’avere sprecato in gran parte tutta l’attesa e la tensione che erano state costruite intorno a due filoni principali: l’elemento profetico-soprannaturale, e le vicende parallele dei due eredi Targaryen, Jon/Aegon e Daenerys, il ghiaccio e il fuoco che, in tutta evidenza, costituiscono il nucleo centrale di una saga che, nella sua versione letteraria, si chiama A Song of Ice and Fire.

I tre principali temi soprannaturali della serie sono stati: il tentativo di Melisandre, la Donna Rossa, di mettere al servizio del proprio ambiguo dio R’hllor (in grado di resuscitare i morti e di proteggere dalle tenebre, ma anche pronto a esigere spietati tributi di sangue) il futuro re dei Sette Regni, che lei erroneamente identifica con Stannis, ma che da tutti gli indizi sembra invece essere Jon Snow; il viaggio iniziatico di Bran per diventare il Corvo con Tre Occhi e acquisire il dono della profezia; e soprattutto l’arrivo dell’Inverno e l’atteso attacco degli Estranei con la loro schiera di non-morti.

Di tutto questo è rimasto ben poco. Melisandre ricompare dal nulla solo per dare un (poco significativo) aiuto in battaglia e poi lasciarsi morire, come se il suo scopo fosse sempre stato quello di sconfiggere gli Estranei e non quello di far sì che R’hlorr diventasse il dio dei Sette Regni. Il dono della profezia di Bran, raggiunto a prezzo di enormi sacrifici e della morte di diverse persone, si dimostra sostanzialmente inutile: Bran conosce tutto quello che succederà ma non ne mette a parte nessuno, né sembra essere in grado di intervenire per modificare ciò che accadrà. L’unica utilità del dono di Bran è di farne il bersaglio del Re della notte, cosa che causerà la dipartita di quest’ultimo, ma tutta questa fretta del Re di uccidere Bran rimane immotivata. (Inoltre il quasi assoluto distacco dalle vicende umane ostentato da Bran una volta acquisito il dono risulterà in totale contrasto con la sua pronta e convinta accettazione del trono nel finale!)
Infine l’inverno degli Estranei: qui almeno abbiamo avuto una colossale battaglia al buio e al gelo, ma alzi la mano chi non è rimasto deluso nel vedere l’intero esercito dei non morti sconfitto da una singola pugnalata (possibilità che non era mai stata ventilata in precedenza) e l’inverno che sarebbe dovuto essere epocale finire nel giro di un paio di episodi.

Quanto a Jon, la sua vera identità di erede dei Targaryen è stato un segreto svelato a poco a poco con indizi sapientemente dosati, poi con due flashback inequivocabili, tenuto nascosto al protagonista fino all’ultima stagione… e, quando finalmente lui lo viene a sapere, non accade praticamente nulla. Sostanzialmente gli unici effetti causati dalla rivelazione sono l’esecuzione di Varys e creare una prima frattura tra Jon e Daenerys, ma a parte questo se la rivelazione non ci fosse stata e fosse rimasto fino alla fine il bastardo di Ned Stark il finale avrebbe potuto svolgersi nello stesso modo. Questa è forse la più grossa delusione di tutta la serie.

Infine, Daenerys, che ha polarizzato le discussioni in rete tra chi ha trovato assurdo il suo diventare la “cattiva” della saga dopo esserne stata sempre una delle principali eroine, e chi invece riteneva che le sue azioni passate già ne dimostrassero la natura tirannica ereditata dal padre Aerys il Folle. Il problema è, a mio avviso, ancora una volta la troppa fretta. Che Daenerys, data la sua intransigenza e la sua granitica convinzione di avere diritto al trono, potesse entrare in contrasto con gli altri eroi e finire per compiere azioni ingiustificabili, era del tutto plausibile. Purtroppo la cosa è stata gestita malissimo, con una Daenerys che di punto in bianco compie una strage di innocenti del tutto immotivata, mentre in precedenza ogni sua azione, anche la più spietata, aveva sempre avuto stringenti motivazioni politiche. La tesi per cui la sua sarebbe stata una decisione conscia di governare attraverso il terrore non regge: avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato punendo esemplarmente i nobili come aveva fatto più volte in passato, non la gente inerme, distruggendo l’immagine di protettrice dei deboli che si era faticosamente costruita in tante battaglie. Il suo non sembra un atto logico, ma un impazzimento inspiegabile al solo scopo di giustificare la sua imminente uccisione.

Con tutto questo non voglio dire di non essermi divertito a guardare l’ultima stagione di Game of Thrones, che ci ha dato un gran numero di scene altamente spettacolari e ci ha fatto comunque trepidare per i suoi personaggi (il fatto che praticamente da una settimana in rete non si discuta di altro che del loro destino è in sé un evento storico per la televisione). E non voglio nemmeno dire che avrei voluto che finisse in modo diverso: che alla fine Daenerys non riesca a diventare la liberatrice dai sette regni ma si trasformi in una tiranna e muoia, che Jon non salga mai sul trono nonostante ne sia l’erede e tutte le profezie lo vogliano, che il re alla fine diventi qualcun altro, sono tutte cose che rientrano perfettamente nello spirito iconoclasta della saga. Vorrei solo che ci si fosse arrivati con meno fretta, portando a compimento tutti gli archi narrativi che erano stati tracciati, e senza tante evidenti forzature.

In questi giorni in rete è circolato un gran numero di difese d’ufficio del finale, quasi tutte argomentate principalmente sulla sua validità simbolica. E c’è persino chi ha sostenuto che, uccidendo Danerys, Jon avrebbe dimostrato di essere il “principe promesso” profetizzato da Azor Ahai, che avrebbe liberato il mondo dalle tenebre incarnate non dagli Estranei, come tutti pensavano, ma da Daenerys. A me questa tesi fa sorridere. A parte il fatto che Azor Ahai esiste solo nei libri, e in TV non se n’è mai parlato, la validità di un finale non si può giudicare a partire da valutazioni puramente esterne. Una storia deve trovare in sé la sua giustificazione, senza doversi apoggiare a metanarrazioni e metaanalisi per trovare un senso.

Quello che fa grande una storia non è solo ciò che succede, ma soprattutto il modo in cui viene raccontato, facendocelo sentire come autentico e inevitabile: proprio ciò che in queste ultime stagioni è mancato. Game of Thrones è stata una grande, grandissima storia, che purtroppo nelle ultime due stagioni è stata raccontata male, in modo frettoloso e sciatto. Pensiamo solo all’ultima puntata, dove alla scena clou dell’uccisione di Daenerys e della distruzione del Trono di Spade (questa sì un’idea bellissima e potente!) segue una terrificante ellissi che ci porta direttamente a una trattativa diplomatica, lasciandoci in dubbio su come sia possibile che dopo un fatto del genere non si siano tutti scannati a vicenda invece che ritrovarsi in un’incruenta, anche se accesa, discussione. (Ma ci sarebbe molto altro da dire sul frettoloso montaggio di quest’ultima stagione, citerò solo il momento WTF in cui Jon lascia Verme Grigio intento a sgozzare prigionieri per andare a parlare con Danerys, si inerpica per una colossale scalinata e in cima trova… ancora Verme Grigio! Manca solo che gli chieda: “Ma hai preso l’ascensore?”.) E aggiungo: il fatto che in quattro e quattr’otto decidano che il Nord sarà un regno indipendente è una cosa che non ha senso, e sembra buttata lì solo per fare contenti i fan di Sansa.

Non firmerò certamente l’assurda petizione che chiede di rifare da capo il finale. Quel che è fatto è fatto, sono contento di aver seguito Game of Thrones per nove anni e otto stagioni, e non giudico tempo perso aver seguito questi ultimi sei episodi. Ma la convinzione che sarebbero potuti essere molto, molto migliori difficilmente qualcuno me la toglierà.

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I briganti

Dopo un anno di pausa, dovuto ovviamente alla difficoltà di conciliare il blogging con il lavoro, ho deciso di riprendere segnalandovi la ripubblicazione di questo capolavoro del fumetto italiano.

I briganti è tratto dall’omonimo romanzo cinese del XIV secolo (omonimo in italiano; in originale il titolo suona come “storia in riva all’acqua”) e ambientato circa due secoli prima, e racconta le imprese di un gruppo di briganti che, diventati fuorilegge per i motivi più vari, utilizzano le loro capacità per mettere in difficoltà i corrotti governanti della provincia cinese dello Huinan. Una storia con qualche affinità con quella di Robin Hood, che nel corso del tempo ha conosciuto varie reinvenzioni e riscritture (anche il grande artista giapponese Hokusai ne fece una sua versione).

Magnus, uno dei più grandi e conosciuti fumettisti italiani, iniziò a lavorarci negli anni Settanta, basandosi sull’edizione parziale pubblicata da Einaudi (che non includeva il prologo, in cui 108 demoni si reincarnano in altrettanti briganti, cosa che conferisce alle loro imprese il sigillo della volontà divina). I primi due capitoli furono pubblicati nel 1975-76. I successivi due nel 1987-89. Magnus aveva previsto altri due capitoli per concludere la serie, ma impegnato in altri progetti non arrivò mai a completarli.

Non ho letto il romanzo originale, ma sembra che Magnus segua piuttosto da vicino la trama dell’edizione Einaudi. La grande libertà che si prende è il trasporre tutto in un atemporale universo science fantasy: i nomi dei personaggi e dei luoghi vengono conservati, ma tutto si svolge in un mondo in cui convivono archi, spade, armature, fulminatori, astronavi, che in un certo senso anticipa ciò che solo qualche anno dopo la pubblicazione delle prime tavole sarebbe stato reso mainstream da Star Wars. Amputata del prologo e mancante di un finale, la vicenda narrata procede in modo ondivago, dando voce ora a un personaggio, ora all’altro, e solo verso la fine si comincia a intravedere un quadro generale.

Su di me I briganti ha sempre esercitato un fascino enorme. Ricordo la prima volta che imbattei nel fumetto, a casa dell’amico Ernesto, e praticamente ne lessi metà all’istante, incapace di staccarmene. Non starò a dilungarmi sulla qualità dei disegni di Magnus, uno dei pilastri del fumetto italiano; di certo qui è possibile ammirarne l’evoluzione, dalle prime tavole molto in stile Alan Ford fino agli ultimi, sofisticatissimi disegni. Ma altrettanto mi coinvolge la sceneggiatura. Non solo la trasposizione di una storia antichissima in un contesto futuribile le dona una particolarissima sensazione di realtà, come fosse un documento storico proveniente da un mondo alternativo; ma la visione di Magnus riesce a rendere perfettamente la sensazione della caotica casualità da cui nasce l’ineluttabilità della storia. Ciascuno dei briganti diventa tale non per sua volontà; tutti loro erano personaggi onorati e rispettati, che finiscono per non avere altra scelta che mettersi contro la legge per l’azione congiunta di un sistema di governo corrotto e di imprevedibili capricci della sorte. Ne I briganti si vive o si muore, si viene esaltati o si precipita nell’abiezione per un nonnulla, e nessun personaggio è del tutto buono o cattivo, ma ognuno ha le proprie colpe e i propri meriti. Concedetemi un paragone oggi abusatissimo: è proprio il tipo di sguardo che ha fatto la fortuna di George R. R. Martin.

Questa è solo l’ennesima delle tante edizioni de I briganti. Ma se non l’avete ancora letto è un’ottima occasione per farlo: copertina rigida, ottima stampa (il fumetto è in bianco e nero) e un discreto apparato critico.

Disclaimer: L’occasione di pubblicare questo testo mi è stata data da Mondadori che, per motivi a me sconosciuti, mi ha improvvisamente incluso nella lista delle persone cui invia in visione i suoi fumetti. Che per un certo periodo si sono accumulati al mio vecchio indirizzo, prima che me ne accorgessi e gli facessi sapere che mi ero trasferito altrove da più di un anno. L’edizione che recensisco è pubblicata nella collana Oscar Ink.

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