I film che ho visto al Trieste Science+Fiction Festival

È tantissimo tempo che non scrivo su questo blog, e ho deciso, volendo ricominciare, valeva la pena di farlo con un long form. E quale migliore occasione della mia visita al Trieste Science+Fiction Festival?

Per la cronaca, ci sono andato non con lo spirito del critico ma del turista: ero lì per divertirmi e vedere amici, non sono rimasto per tutta la durata del festival e ho visto solo i film che mi era comodo vedere, senza fare una selezione ragionata. Nondimeno l’esperienza è stata molto positiva, e quindi ora vi racconto quello che ho visto.

I film che mi sono piaciuti molto:

Mars Express

di Jérémie Périn, Francia

Anno 2200, i robot sono molto diffusi, sia come entità autonome sia come “sostituti”per umani che non dispongono più del proprio corpo. I robot sono incapaci di fare del male agli esseri umani, ma ci sono attivisti che praticano su di loro un jailbreaking per dare loro la totale libertà, cosa che ha provocato rivolte e un’atmosfera di sospetto e ostilità. Aline è una detective della città di Noctis su Marte, cui viene chiesto di indagare sulla sparizione di una studentessa. Mentre i cadaveri si accumulano, gradatamente l’indagine porta alla luce un complotto che coinvolge l’intera popolazione robotica.

Mars Express ha fatto man bassa: ha vinto il premio Asteroide assegnato ai film di registi emergenti, il premio della critica, il premio della trasmissione Wonderland; in pratica, quasi tutto quello che poteva vincere. Meritatamente, perché da tanto tempo non mi capitava di rimanere tanto coinvolto da un film di fantascienza (e parlo in generale, non solo di film di animazione).

La cifra di Mars Express è l’essenzialità: uno stile di animazione che non ricerca gli effetti fini a se stessi ma si mette al servizio della storia. Una storia intricata e nera degna dei migliori polar francesi, con personaggi pieni di ombre che possono vivere momenti di travolgente umorismo ma un attimo dopo finiscono ammazzati senza che ci si soffermi un secondo a compiangerli. Una vicenda complessa e coerente, che ci lancia senza spiegazioni in un mondo alieno come solo la migliore fantascienza sa fare, e che solo negli ultimi dieci minuti si concede di volare alto uscendo dai bassifondi ed evocando scenari grandiosi.

Ho trovato la sceneggiatura di Mars Express molto più convincente di quella di molti recenti blockbuster hollywoodiani. Spero tanto che possa trovare una distribuzione in Italia.

La guerra del Tiburtino III

di Luna Gualano, Italia

Una popolazione aliena, piccoli vermi in grado di penetrare attraverso le narici nel cervello degli esseri umani prendendo il controllo delle loro azioni, sta invadendo il pianeta Terra cominciando dal quartiere Tiburtino III di Roma. A scoprire gli invasori e a mettere i bastoni tra le ruote del loro piano di conquista sarà un’improbabile squadra formata da un piccolo spacciatore, un suo squinternato amico, la sua barista di fiducia e una influencer modaiola capitata nel quartiere in cerca di visibilità.

Il cinema italiano non sta vivendo il suo momento migliore, ma per fortuna ogni tanto capita ancora di incontrare un film italiano fatto bene, e capita sempre più spesso che sia un film di genere. È sicuramente il caso di questa commedia fantascientifica in salsa romana, che ho iniziato a guardare senza aspettarmi nulla e che ho trovato davvero simpatica e divertente.

La guerra del Tiburtino III mi è piaciuto per come riesce a prendere sul serio la sua bizzarra trama. Se l’idea iniziale è demenziale e i suoi sviluppi pure, nondimeno i personaggi sono credibili e ben cesellati, con grande cura dei dettagli e senza eccessi o sbavature, e la storia viene portata avanti rimanendo coerente con le sue assurde premesse (ed è proprio questo che la rende così divertente). Non mancano gli spunti di satira politica e di costume, azzeccati ma senza mai prendere il sopravvento sulla trama (ed è un bene).

Se il film funziona così bene è anche merito di un casting molto azzeccato, con tutti gli attori perfettamente in parte. Chi ha amato Boris sarà felice di ritrovare alcuni interpreti della serie: se Francesco Pannofino si limita a una comparsata, troviamo Carolina Crescentini nella parte della madre del protagonista, ma soprattutto Paolo “Biascica” Calabrese, azzeccatissimo come regina aliena incarnata in un borgataro romano, che rigurgita uova dalla bocca intonando maledizioni sprezzanti nei confronti dei “mammiferi”. Impagabile.

La guerra del Tiburtino III merita di arrivare al grande pubblico, spero che i distributori trovino il coraggio di proporlo fuori dalle porte di Roma.

Gli altri film che ho visto in questa edizione:

Creep box

di Patrick Biesemans, USA

Una tecnologia innovativa permette di ricreare temporaneamente la personalità di persone defunte, che possono esprimersi a voce attraverso quelli che vengono definiti “sussurri”. Il dottor Caul ne è il principale esperto, ma deve affrontare numerosi problemi: le dubbie implicazioni etiche, i finanziatori che spingono sull’aspetto commerciale trascurando quello scientifico, e il desiderio di usare lui stesso i sussurri per comunicare con la moglie morta suicida.

Creep Box nasce dall’acclamato cortometraggio con lo stesso titolo uscito l’anno precedente, che nei suoi primi minuti riproduce molto da vicino (con alcuni attori cambiati). Ma, se il corto era estremamente efficace, la trasformazione in lungometraggio non è riuscita alla perfezione.

Il film riesce piuttosto bene a creare un’atmosfera di suspense, con l’evocazione delle personalità dei defunti che sembra la versione ipertecnologica di una seduta spiritica (con parole chiave scandite a mò di formule magiche per favorire la connessione), e mette sul tavolo una serie di problematiche interessanti: le voci sono solo simulazioni, o sono veramente persone? Quanto ci si può fidare di quello che dicono? Fa davvero bene ai loro cari poterci parlare? Grazie anche alla solida interpretazione del protagonista Geoffrey Cantor nei panni del cupo e tormentato professor Caul, si rimane catturati dalla storia nonostante l’assenza di scene d’azione o effetti speciali. Purtroppo però il regista non sa sfruttare adeguatamente l’ottimo materiale, e cade nel finale, dove tutto si fa confuso e non si risponde ad alcuna delle domande poste. Peccato.

Pandemonium

Di Quarxx, Francia

Dopo un incidente stradale, Nathan scopre di essere morto e destinato all’Inferno. In attesa di sapere quale sarà la sua pena, assiste alle storie di altri dannati: una bambina che ha sterminato l’intera famiglia, e una madre che ha causato il suicidio della figlia ignorando le sue richieste di aiuto.

Mi riesce difficile emettere un giudizio su questo film, perché da ogni scena emerge chiaramente una interessante personalità di autore, e tuttavia non mi è del tutto chiaro dove il regista volesse andare a parare.

Il prologo di Pandemonium è forse la sua parte migliore: il dialogo tra i due personaggi appena morti e che gradatamente si rendono conto di dover andare uno all’Inferno e l’altro in Paradiso (ma ci sarà una sorpresa) ha i toni di un efficacissima commedia nera. L’episodio dedicato alla bambina assassina ha invece la forma di una farsa gotica e inquietante (con una protagonista tredicenne di eccezionale bravura), mentre il successivo, con la madre che per tutto il tempo continua a parlare al cadavere della figlia senza voler accettare il suo suicidio, è di un’angoscia davvero lancinante. Nel finale si ritorna al Nathan della parte iniziale, con un ulteriore sorpresa: il diavolo a cui è stato affidato se lo lascia scappare, e viene spedito sulla Terra per riprenderselo. Potrebbe essere l’inizio di un film bizzarro e divertente, ma invece arrivano i titoli di coda.

Nel presentare il film, Quarxx ha dichiarato che la sua intenzione iniziale era di girare nove episodi, uno per ciascun girone dell’Inferno, e di essere stato dissuaso dalle difficoltà tecniche dell’impresa. Forse se davvero avesse girato più episodi sarebbe più facile dare un senso al film, mentre così la totale diversità delle tre storie presentate rende difficoltoso tirare le somme. Forse il tema potrebbe essere quello della negazione: tutti i personaggi del film in qualche modo non accettano la propria dannazione. Nathan contesta che il proprio peccato meriti l’Inferno, la bambina attribuisce i propri delitti a un immaginario mostro-servitore che fa impiccare al proprio posto, mentre la madre non vuole vedere il suicidio della figlia. A questa negazione fa da contraltare una logica spietata: nonostante nessuno dei personaggi ci sembri davvero meritare l’Inferno (anche la malvagità della bambina è quella inconsapevole di chi non sa valutare la gravità dei propri atti), tutti vengono dannati. Meritiamo tutti l’Inferno, sembra dire il regista, e non lo vogliamo vedere.

A Million Days

di Mitch Jenkins, UK

Con la Terra devastata dal cambiamento climatico, l’umanità affida le sue speranze a un’astronave costruita per fondare una colonia sulla Luna. Tuttavia un esame delle simulazioni condotte da un’intelligenza artificiale fa sorgere il sospetto che quest’ultima stia manipolando la missione per fini ignoti, mentre emergono collegamenti con un incidente che ha causato la morte di un’astronauta cinque anni prima…

A Million Days inizia con alcune scene ambientate in orbita, facendo pensare a un’avventura spaziale, ma è solo un contentino dato allo spettatore: tutto il resto del film ha un impianto strettamente teatrale, un lungo dialogo tra personaggi in cui gli eventi vengono solo evocati senza mai essere mostrati. Un impianto di questo tipo per reggersi avrebbe bisogno di una logica ferrea, mentre purtroppo la trama imbastita dagli sceneggiatori è piena di vaghezze e approssimazioni. Il cambiamento climatico evocato in apertura non è che un macguffin, dato che gli scopi della missione salvifica non vengono mai definiti con precisione. L’idea di fondo (un’intelligenza artificiale che si ribella ai suoi creatori per meglio perseguire gli obiettivi che le sono stati affidati) non è certamente nuova, risale perlomeno a 2001: Odissea nello spazio, più di mezzo secolo fa! La sceneggiatura cerca di accumulare colpi di scena attribuendo sempre nuove mirabolanti capacità all’intelligenza artificiale, ma in questo modo rende sempre più difficile la sospensione dell’incredulità: se può fare tutte queste cose, non si capisce perché abbia dovuto ricorrere a un piano così contorto per ottenere quello che vuole.

In conclusione, un film che mantiene molto meno di quello che promette.

Herd

di Steven Pierce, USA

Una coppia lesbica in crisi cerca di ritrovare la concordia attraverso una settimana di campeggio, ignara che nella zona è scoppiata un’epidemia che trasforma le persone in mostri aggressivi. Ma forse ancora più pericolose dell’epidemia sono le milizie armate che si sono formate per combatterla, ignorando gli appelli alla calma del governo statunitense.

Herd si potrebbe definire un film di zombie revisionista. Sì, perché, anche se quelli mostrati dal film si chiamano “hep” e il regista non vorrebbe fossero chiamati zombie, è inutile negare l’evidenza: siamo di fronte a un film di zombie che mette in scena tutti i cliché del genere, anche se poi ne capovolge il senso: a mano a mano si scopre infatti che gli zombie non sono poi così pericolosi, e che la vera minaccia sono invece le bande armate che sorgono per rimediare alla supposta inerzia del governo, e che finiscono per incrementare la violenza combattendosi tra loro. È trasparente l’atto d’accusa contro l’America rurale, insofferente di ogni regola e autorità e pronta a usare la violenza contro ogni diverso, che siano zombie od omosessuali.

Va sicuramente elogiato il tentativo di rinnovare un genere ormai abusato applicandogli un nuovo sottotesto politico. Detto questo, però, il film non convince del tutto: il messaggio risulta troppo trasparente e a volte eccessivamente retorico, mentre per il resto la regia non si distacca dalla routine del genere. Sufficiente ma niente di più.

The Moon

di Kim Yong-Hwa, Corea del Sud

Non posso in buona fede recensire questo film perché ne ho visto solo un terzo, e poi sono uscito dalla sala per andare alla presentazione di un libro. Posso dire che quello che ho visto non mi ha entusiasmato: il solito film con l’astronauta perduto nello spazio, solo in salsa coreana. Abbiamo già dato.

Bonus: i film dell’anno scorso

Al Trieste Science + Fiction Festival sono andato anche l’anno scorso, a presentare Fanta-Scienza 2, e nell’occasione sono riuscito a vedere un paio di film, che avrei voluto recensire qui ma non ho trovato il tempo. Quindi li recupero ora!

LOLA

di Andrew Legge, U.K.

Negli anni ’30 due geniali sorelle orfane che vivono sole in una villa nella campagna britannica inventano una macchina in grado di captare le trasmissioni televisive del futuro. Per un po’ si limitano ad ammirare le popstar come David Bowie ma, quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale, non resistono alla tentazione di usare la macchina per scoprire in anticipo dove cadranno le bombe tedesche. Le conseguenze saranno dirompenti.

Davvero un piccolo capolavoro questo film che si è meritato il premio Méliès d’argent (riservato ai lungometraggi di produzione europea) e anche il premio di Wonderland. Essendo passato un anno dalla sua uscita potete addirittura guardarvelo a costo zero su RaiPlay, e vi consiglio caldamente di farlo!

Il merito di LOLA non è nell’idea in sé, che in fondo è una classica storia di paradossi temporali affine a tante altre viste in precedenza. Quello per cui si distingue è sono lo stile e il rigore con cui la mette in scena. LOLA è interamente realizzato con la tecnica del found footage, come se fosse stato girato (in un magnifico bianco e nero) con una cinepresa dell’epoca per documentare eventi reali (e il motivo per cui questo filmato è presente nel nostro universo verrà spiegato nel finale).

Con due interpreti bravissime e carismatiche che si rubano la scena a vicenda, il film riesce a porre importanti domande sul senso della nostra presenza nella storia, senza mai cessare di essere avvincente. Per me il migliore dei film che ho visto a Trieste.

The Breach

di Rodrigo Gudiño, Canada

Quando un cadavere con inspiegabili ferite e deformità viene trovato sulle rive di un lago, lo sceriffo locale non può esimersi dall’andare a ispezionare il luogo da cui sembra provenire, in un’area praticamente disabitata. Lo accompagnano un amico e l’ex fidanzata.

Può essere che agli appassionati di horror questo film dica qualcosa, ma io l’ho trovato davvero pessimo. La trama di base è una delle più vecchie e scontate del genere (sappiamo fin da principio che nella casa sperduta in mezzo al nulla troveremo uno scienziato pazzo che ha oltrepassato limiti che l’uomo non dovrebbe valicare), e i tentativi di renderla interessante sono confusi e contraddittori, e hanno sempre meno senso a mano a mano che si procede. Non sembra esserci un sottotesto, a meno che non lo si voglia vedere nel personaggio interpretato dal chitarrista dei Rush, Alex Lifeson, che sembra l’evidente parodia di un complottista (però alla fine ha ragione lui, quindi… dove si va a parare?). Vedibile solo se ci si accontenta di un po’ di avventura e suspense senza altro dietro.

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Dune

So bene che in questo momento chiunque sta dicendo la sua sul Dune di Denis Villeneuve (anzi, molti non parlano d’altro da mesi e mesi, con effetto sinceramente stucchevole), ma proprio per questo non voglio evitare di esprimermi. Sarò breve, anche perché ritengo non sia possibile dare un giudizio su quello che, anche se molto lungo, è comunque solo un mezzo film: la storia si interrompe a metà, e vedremo la conclusione solo se il regista avrà modo di girare la seconda parte.

Mi sono divertito? Direi proprio di sì. Il Dune di Villeneuve è una trasposizione fedele, efficace e spettacolare della prima metà del romanzo di Herbert. Il cast funziona alla perfezione (con una lode particolare alla lady Jessica di Rebecca Ferguson). I dialoghi sono sobri e con gli inevitabili infodump inseriti semza disturbare troppo. I costumi sono fantasiosi e appropriati. I veicoli bellissimi (ho apprezzato molto gli ornitotteri trasformati in convincenti libellule meccaniche). La rappresentazione digitale del pianeta Dune è coinvolgente (anche se la CGI a mio avviso non è sempre della migliore qualità possibile, troppe scene semibuie, qualche caso in cui le persone mi sono sembrate poco realistiche). Persino la colonna sonora di Hans Zimmer, autore che di solito non mi entusiasma, mi ha positivamente colpito. Sicuramente i fan dell’opera non rimarranno delusi.

Che cosa manca? È inevitabile che in una trasposizione vada perso qualcosa. Io ho percepito innanzitutto l’assenza di una spiegazione sul perché l’universo di Dune sia così: non c’è alcun accenno alla jihad che nel passato ha bandito ogni intelligenza artificiale, sostituita con trasformazioni dell’essere umano (che rendono così necessaria la spezia). Una persona che non abbia letto il libro, per esempio, non capisce che Thufir Hawat è un mentat, una specie di computer umano.

Ma soprattutto, quella che mi pare assente da questa prima metà del film è un’interpretazione. A mio avviso, perché un film tratto da un romanzo sia davvero grande, non è sufficiente che replichi l’opera originaria; l’autore dovrebbe anche metterci del suo, offrirci una sua lettura personale. Questo il Dune di David Lynch, con tutti i suoi problemi, lo faceva benissimo, mentre fatico a trarre una conclusione da quello di Villeneuve; che però, come detto, è un’opera incompiuta. Finché non vedremo il finale, non ha senso giudicarlo.

Quindi il giudizio è: promosso con riserva. Andatelo pure a vedere (come se aveste aspettato me per farlo…).

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Space Opera

Dopo una guerra che ha quasi distrutto la Galassia, i tanti popoli alieni hanno deciso di seguire una regola: quando una specie si evolve a sufficienza da poter diventare un pericolo, bisogna decidere se può essere considerata o meno senziente. Se la risposta è sì, verrà accolta pacificamente nel consesso delle altre civiltà galattiche. Altrimenti verrà sterminata senza pietà e cancellata dall’universo. Il criterio è semplice: per essere riconosciuta senziente, la specie sotto esame deve partecipare all’annuale concorso canoro interplanetario e riuscire a non arrivare all’ultimo posto. È arrivato il momento dei terrestri. Il problema è che, secondo gli alieni, l’unica band della Terra che ha qualche possibilità di incontrare il gusto galattico è un gruppo scalcinato, dimenticato e sciolto dopo la morte della batterista: Decibel Jones & the Absolute Zeros…

È stata davvero una piacevole sorpresa l’uscita di questo libro per i tipi della neonata casa editrice 21lettere. Negli ultimi anni l’Italia è rimasta tagliata fuori dalla stragrande maggioranza delle novità editoriali in campo fantascientifico. Il fatto che il romanzo di un’autrice da noi ancora sconosciuta arrivi nelle librerie appena un anno dopo la sua uscita è quindi decisamente insolito. Se poi aggiungiamo che si tratta di un libro molto particolare, e anche difficile da tradurre, l’evento ha quasi del miracoloso.

L’autrice Catherynne M. Valente (è uno pseudonimo, un po’ autolesionista, data la quasi impossibilità di azzeccare lo spelling giusto al primo tentativo) è statunitense, ha già pubblicato un buon numero di romanzi fantascientifici e fantastici, ha vinto il premio Tiptree ed è stata candidata allo Hugo (anche con questo libro), al World Fantasy, al Locus e chi più ne ha più ne metta. Questa volta ha deciso di scrivere un romanzo dichiaratamente ispirato alla Guida Galattica per Autostoppisti di Douglas Adams, mettendoci dentro la sua grande passione per l’Eurovision Song Contest.

A favore del libro ci sono molti argomenti. In primo luogo, l’idea di base è veramente grandiosa. Non appena ho saputo che si parlava di legare il destino della Terra a una gara canora interplanetaria, mi è immediatamente venuta una gran voglia di leggerlo. Con un’idea così, ho pensato, praticamente il libro si scrive da solo.

In secondo luogo, l’evocazione di Douglas Adams non è campata in aria. Si potrebbe ritenere un po’ presuntuoso voler seguire le orme di uno degli autori più venduti e più amati della storia della fantascienza, ma è innegabile che Valente indossi piuttosto bene questi ingombranti panni, riuscendo a evocare in ogni pagina la scrittura di Adams senza mai sembrare una pedissequa imitazione, anzi, mantenendo sempre la propria individualità.

In terzo luogo, Valente è riuscita in un’impresa notevole: dar vita a un repertorio di ben diciotto razze aliene, tutte ugualmente bizzarre, assurde e ben caratterizzate, dipingendo un quadro molto solido e dettagliato dei loro reciproci rapporti. Un lavoro notevole, forse persino un po’ sprecato per questo contesto (al confronto l’universo di Adams appare volutamente molto più casuale, un luogo in cui qualunque cosa può accadere in qualsiasi momento), ma comunque non alla portata di tutti .

Infine, il pregio maggiore: nelle pagine di Space Opera Valente riesce anche a infilare con estrema naturalezza una serie di stoccate al modo di vivere di noi esseri umani. Che era anche uno dei pregi di Adams, e che non era affatto scontato trovare in una sua epigona: non è affatto facile riuscire a essere profondi con leggerezza.

Vi sto dicendo che Space Opera è un capolavoro, o perlomeno un libro che non può assolutamente non piacervi? Ebbene no. Perché purtroppo il libro ha anche dei difetti. Grossi difetti. Che purtroppo riescono a vanificare gran parte di ciò che ho appena detto.

Il problema più grande di Space Opera è la quasi completa assenza di una trama. Il libro comincia ex abrupto con l’arrivo degli alieni sulla Terra, cui seguono l’annuncio del concorso e la partenza di Decibel Jones per lo spazio. A questo punto ci si aspetterebbe, sulla falsariga della Guida Galattica, un ottovolante di avventure assurde e mirabolanti che mettano in pericolo la vita e la salute mentale dei protagonisti fino all’ultima pagina. Invece non succede più niente. Le successive duecento e passa pagine sono occupate da quello che sostanzialmente è un colossale spiegone: mentre Jones e il suo compare viaggiano verso la meta tentando di comporre una canzone, un narratore onnisciente ci racconta tutto quello che è necessario sapere, e anche buona parte di quello che sarebbe superfluo sapere, sulla biografia della band, sulle diciotto razze senzienti che popolano la Galassia, sulle varie edizioni passate del concorso canoro, e così via.

Mi direte: è proprio necessaria una trama in un libro del genere? A mio avviso, eccome! Tanto più il contenuto vira verso il bizzarro e l’insensato, tanto più è utile che ci sia una vicenda intorno alla quale il lettore possa organizzare le informazioni. Se andiamo a guardare il romanzo ispiratore di Valente, la Guida Galattica, vediamo che al povero Arthur Dent capitano cose dal principio alla fine. Cose che, oltre a essere divertenti di per loro, offrono un comodo aggancio per le bizzarre dissertazioni dell’autore. Se assistiamo alla distruzione della Terra e alla cattura del protagonista da parte degli orribili vogon, saremo curiosi di leggere la spiegazione su chi siano questi alieni, molto più che se l’autore ce lo dicesse di punto in bianco prima ancora di averli fatti agire.

In Space Opera, purtroppo, questo non succede. Troppe informazioni vengono passate al lettore ben prima che sia stata stimolata la sua curiosità in proposito. Io non sono un fanatico a oltranza dello show, don’t tell, ma in questo libro è davvero tutto tell e niente show: persino la presentazione dei personaggi viene lasciata quasi interamente a lunghe dissertazioni invece che a dialoghi e azione. Ed è un peccato, anche e soprattutto perché l’autrice avrebbe tutte le capacità necessarie per fare diversamente. Lo vediamo nelle ultime 120 pagine del romanzo, quando finalmente gli Absolute Zeros sono arrivati sul pianeta Litost per cantare e suonare, e allora improvvisamente succedono cose, si pronunciano dialoghi e tutto diventa estremamente più appassionante e divertente. E allora perché non farlo prima?!

Altro problema, strettamente collegato col precedente, è quello dello stile. Perché le suddette dissertazioni sono scritte inanellando frasi lunghissime, piene di subordinate, infarcite di citazioni, allusioni, espressioni gergali, similitudini bislacche e chi più ne ha più ne metta. Ne leggi una, e rimani ammirato. Leggi un intero capitolo composto quasi esclusivamente da frasi del genere, e fai fatica. Ti capita di arrivare in fondo a una frase ed esserti dimenticato di cosa stava parlando. Ricominci daccapo, e quando arrivi di nuovo in fondo ancora non sei sicuro, e torni all’inizio del paragrafo. Anche apprezzando l’attenzione per lo stile, il rischio è che il ritmo e l’ironia vadano perduti.

Le cose ovviamente peggiorano leggendo il romanzo in traduzione. Non per criticare Alice Zanzottera, che ha affrontato con impegno e fantasia un compito difficilissimo, però la struttura sintattica dell’italiano appesantisce ulteriormente frasi già complicate. Forse sarebbe stato necessario spezzare qualche frase, anche a costo di allontanarsi dall’originale.

Insomma, questo libro lo dovete leggere o no? Secondo me vale comunque la pena, perché è insolito, originale e pieno di idee. Se però, come la promozione fatta dall’editore suggerirebbe, vi aspettate qualcosa in stile Guida Galattica, sappiate che qui incontrerete parecchie difficoltà in più.

Disclaimer: il libro mi è stato inviato gratuitamente, non sollecitato, dalla casa editrice.

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Fanta-Scienza

Dopo aver parlato qui per anni di libri altrui, è la volta che finalmente vi parlo di un libro mio: da qualche giorno è in vendita Fanta-Scienza, un’antologia di racconti che ho curato personalmente e che contiene anche un mio racconto. Un libro la cui lavorazione è stata parecchio travagliata, e di cui ho deciso di svelare qui tutte le complicate vicissitudini.

L’idea mi venne diversi anni fa, quando Repubblica Sera mi commissionò un articolo prendendo come spunto l’antologia Hieroglyph curata da Neal Stephenson, che si proponeva di diffondere una fantascienza più ottimista e a questo scopo aveva fatto scrivere dei racconti ispirati dalle previsioni per il futuro espresse dai ricercatori dell’università dell’Arizona. Una delle persone cui chiesi un commento fu Bruce Sterling, che mi scrisse:

I hope that more schools will see the good sense of this effort and try it themselves.  If an Italian university tried it I would be the first to celebrate”.

L’approccio positivista di Stehpenson non mi convinceva affatto, ma l’idea di far collaborare ricercatori e scrittori per ottenere racconti di fantascienza mi sembrò molto interessante. Il suggerimento di Sterling che un’università italiana avrebbe potuto fare la stessa cosa mi diede la spinta definitiva. Ma chi in Italia nel mondo della ricerca avrebbe potuto darmi corda per un’idea del genere?

La risposta arrivò poco dopo quando intervistai per Nòva 24 Roberto Cingolani. L’intervista si trasformò in una chiacchierata a ruota libera che solo in minima parte trovò spazio nell’articolo, e mi fece tra l’altro scoprire in lui un appassionato di fantascienza (ricordo che citò Iain M. Banks, il tipo di scrittore che solo gli intenditori conoscono). Ci misi quasi due anni a trovare il coraggio di farmi avanti, ma alla fine gli chiesi via mail se il suo Istituto Italiano di Tecnologia sarebbe stato interessato a collaborare a un progetto del genere. Mi rispose così:

Come attività sarebbe fuori dai compiti istituzionali. Credo che l’unica cosa possibile per noi sia fornire un supporto individuale volontario. Ci sono ricercatori che potrebbero fornire opinioni sulla realizzabilità di idee e scenari fantascientifici, oppure fornire qualche spunto per nuovi racconti.

“L’unica cosa possibile” era anche l’unica che davvero mi serviva. Era in pratica un “sì”, sia pure condizionato. Ora bisognava fare il passo successivo: trovare un editore che fosse disposto a darmi un budget: non aveva senso, mi pareva, coinvolgere una prestigiosa istituzione scientifica, e far lavorare diverse persone, senza sapere chi avrebbe pubblicato il tutto, senza poter promettere dei compensi, e così via.

Purtroppo questa parte del piano si rivelò irrealizzabile. A parole tutti trovavano che l’idea fosse interessante, ma in pratica nessuno era interessato a pubblicarla. Dopo i primi rifiuti, chiesi addirittura consiglio a Giulio Mozzi, il quale fu estremamente gentile e si offrì spontaneamente di proporre il mio progetto ad alcuni editori di primo piano. Ma nemmeno col suo appoggio riuscii a destare l’interesse di qualcuno.

Stavo quasi per arrendermi, quando decisi di chiedere anche il parere del migliore amico che avessi nel mondo editoriale: Giuseppe Lippi, il curatore di Urania, con cui collaboravo da un ventennio. Lui ebbe una reazione entusiasta, e mi disse subito: “Ma te la pubblico io! Anzi, visto che per Urania sarebbe un po’ sprecato come progetto, farò il possibile per farla poi pubblicare negli Oscar.”

Non avrei mai sperato tanto: io stesso non avevo mai pensato che la mia destinazione potesse essere Urania: mi pareva che il carattere un po’ intellettuale della mia idea fosse poco adatto alla testata, che tra l’altro pubblicava molto raramente antologie, e ancor più raramente se di autori italiani. Ma se Giuseppe in persona la voleva, non sarei stato io a contraddirlo!

E così partii: tre anni fa ricontattai Cingolani, che mi mise in contatto con i responsabili della comunicazione IIT, che mi fornirono una lista di otto scienziati disposti a collaborare. Francesco Nori per la robotica, Marco De Vivo per la chimica farmacologica, Barbara Mazzolai per la robotica bioispirata, Paolo Decuzzi per la medicina di precisione, Guglielmo Lanzani per l’elettronica indossabile, Alberto Diaspro per la microscopia, Athanassia Athanassiou per la scienza dei materiali, Davide De Pietri Tonelli per la neurobiologia. Una specie di dream team! Non credevo ai miei occhi, la mia idea stava cominciando a prendere forma.

A quel punto cominciarono a profilarsi di fronte a me problemi cui non avevo affatto pensato fino ad allora. In particolare: come avrei scelto gli scrittori, e come avrei distribuito tra loro gli spunti forniti dai vari scienziati? Normalmente, quando si fa un’antologia, si contatta un numero di scrittori maggiore di quello necessario, in modo che, anche tenendo conto di defezioni, ritardi o racconti malriusciti, il numero di testi disponibili sia comunque sufficiente. Nel mio caso, ogni scrittore avrebbe lavorato su uno spunto diverso, in stretto contatto con uno scienziato disponibile a collaborare durante la lavorazione. Non era pensabile, dopo che il ricercatore si era gentilmente prestato al progetto, non utilizzare il suo spunto, ma non era pensabile nemmeno ripetere la procedura più di una volta se il racconto non fosse risultato buono. Era necessario scegliere nomi che dessero ottime garanzie di riuscita.

Mi feci una lista di scrittori che mi sembravano in grado di scrivere dei racconti letterariamente validi e allo stesso tempo di non trascurare il lato scientifico della questione, e cominciai a contattarli, e qui ebbi un’altra sorpresa: diversi autori mi dissero di no, prima o dopo aver visto gli spunti, alcuni perché troppo impegnati, ma altri perché in dubbio di non saper produrre qualcosa di buono a partire da uno spunto così specifico. Tra l’altro si tirarono indietro due donne delle quali apprezzavo moltissimo l’approccio ai temi scientifici, il che non solo era un colpo per la riuscita dell’antologia in generale, ma anche per l’equilibrio di genere dell’insieme.

Mi ero posto anche il problema di come distribuire gli spunti. Se avessi scelto io, avrei rischiato di commettere degli errori, ma se avessi lasciato la scelta agli scrittori avrei rischiato litigi e disaccordi. Provai con questo sistema: chiesi al primo gruppo di sei scrittori coinvolti di scegliere almeno tre spunti, e io avrei attribuito loro uno dei tre scelti. In questo modo avrei mantenuto il controllo, ma nessuno avrebbe potuto dire di aver ricevuto uno spunto sgradito. Funzionò abbastanza bene, ma mi accorsi di una cosa: uno degli spunti non era stato preso in considerazione da nessuno, nemmeno come terza scelta. A quel punto dovetti ritornare su una mia decisione iniziale: quella di non partecipare all’antologia come autore. L’antologista che decide di includere un proprio racconto è sempre sospetto di scarsa imparzialità. E mi è capitato più di una volta di incontrare antologie in cui il racconto meno valido era proprio quello del curatore. È vero però che ci sono notevoli eccezioni (esempio: Mirrorshades curata da Bruce Sterling; sfido chiunque a dire che Mozart in Mirrorshades è un brutto racconto!). Decisi quindi che lo spunto scartato da tutti lo avrei tenuto per me, anche perché mi sembrava invece molto ricco di elementi interessanti.

A questo punto, con diversi autori già impegnati a scrivere, ero ragionevolmente sicuro di riuscire a portare a termine il lavoro. Tornai quindi a farmi sentire da Lippi per farmi dare un termine di consegna e magari firmare un contratto. Ma rimasi delusissimo: Lippi mi disse che, con la situazione che c’era a Urania in quel momento, temeva che se avesse proposto l’acquisto glielo avrebbero bocciato. Meglio che terminassi l’antologia e gli portassi il prodotto finito: solo allora avrebbe avuto qualche speranza di farlo accettare.

Non sapevo che le cose sarebbero ulteriormente peggiorate: di lì a poco Lippi dovette lasciare la curatela di Urania dopo oltre un quarto di secolo (pochi mesi dopo sarebbe morto, lasciando un vuoto incolmabile nella fantascienza italiana). Provai a proporre il libro alla nuova gestione della collana, ma mi fu risposto che non era il momento di pubblicare un’antologia di autori italiani, e che al massimo avrebbero potuto pubblicare in appendice alcuni dei racconti e delle interviste, quando ci fosse stato spazio.

Decisi di non accettare, ma fui molto scoraggiato: chiusa la possibilità di Urania, chi avrebbe potuto pubblicare il libro? Abbandonai il lavoro sull’antologia, trascurando di trovare autori per gli ultimi spunti, di scrivere il mio racconto e di curare l’editing, dedicandomi per un anno intero alla ricerca di qualcuno disposto a far uscire il libro in libreria. Un’esperienza per molti versi istruttiva, ma sicuramente frustrante. Ho continuato a rimbalzare da un editore all’altro, ricevendo ogni volta elogi per l’idea, però accompagnati da un gentile rifiuto: nel piano editoriale della casa editrice il mio libro non si inseriva bene. E ogni editore, per farsi perdonare, me ne presentava un altro: “vai da loro, loro sì che sono quelli giusti per te”. Ogni tanto, questa catena di Sant’Antonio editoriale si interrompeva: incontravo qualcuno che si diceva interessatissimo e proponeva un incontro di persona… per poi scomparire e non rispondere più a e-mail e telefonate. Tutto tempo perso, bisognava cercare ancora.

Ci è voluto un anno per convincermi che non c’era modo di fare uscire il testo in libreria. A quel punto, era urgente trovare una soluzione alternativa: le interviste stavano invecchiando, bisognava pubblicare tutto in un tempo ragionevole. Una volta accettato di far uscire il libro distribuendolo solo online, la scelta era ovvia: Delos Digital era l’editore che poteva garantirmi una buona visibilità e un eccellente supporto tecnico. Fortunatamente Silvio Sosio accettò dubito di pubblicare il progetto, e mi propose di far uscire il libro in occasione di StraniMondi 2019. Mi restavano quindi alcuni mesi di tempo per chiudere l’antologia.

Più facile a dirsi che a farsi. Bisognava tappare un paio di buchi nell’organico con scrittori in grado di scrivere in fretta. Bisognava mettere a posto dettagli come l’introduzione, la quarta di copertina e soprattutto la copertina (per fortuna affidata a un grande nome come Franco Brambilla, grazie Delos!). Bisognava provare a ottenere una prefazione da Roberto Cingolani, che, colmo della sfortuna proprio due mesi prima dall’uscita del libro aveva lasciato la guida dell’IIT, dopo quindici anni, ed era superimpegnato col nuovo lavoro a Leonardo (alla fine riuscii a ottenerla, ma così all’ultimo momento che le prime copie cartacee stampate ne sono prive: diventeranno cimeli da collezionista?).

Ma soprattutto dovevo scrivere il mio racconto, che avevo iniziato cinque volte e cinque volte abbandonato, convinto che l’approccio non fosse quello giusto. Alla fine, spinto dalla disperazione, decisi di adottare un metodo per me del tutto inedito: presi gli incipit di tutti e cinque i tentativi falliti, e cercai di immaginare una trama che li comprendesse tutti. Strano a dirsi, funzionò. Perlomeno, è venuto fuori un racconto che mi pare più interessante rispetto alla mia media, con una trama poco lineare, un mucchio di personaggi e di cambi di tono. Aspetto di sentire il giudizio dei lettori. Sicuramente mi ha fatto un sacco di piacere l’apprezzamento di Guglielmo Lanzani, lo scienziato cui mi sono ispirato, al quale sembra essere piaciuto molto. Meno male!

Ultimo punto spinoso è stato quello del titolo. Come fare a trovarne uno che colpisse l’immaginazione del possibile acquirente, e allo stesso tempo desse un’idea generale del contenuto dell’antologia? Non era facile, dato che ogni racconto è ispirato a un campo completamente diverso della scienza. Dopo essermi arrovellato a lungo, escogitai un titolo che mi sembrava funzionare: Superrisoluzione. Si tratta di un termine preso dall’intervista con Alberto Diaspro sulla microscopia. Mi sembrava potesse suggerire la possibilità di guardare verso i nostri possibili futuri con l’accuratezza data da un microscopio (e ancora non sapevo che Franco Brambilla avrebbe messo degli enormi microscopi in copertina!).

Sono ancora convinto che l’idea potesse funzionare, ma tutti gli autori me la bocciarono senza mezzi termini: un parolone complicato che i lettori non avrebbero capito. Mi venne in soccorso Silvio Sosio, che propose Fanta-Scienza, col trattino. Un titolo che può sembrare banale, ma che in effetti sottolinea il senso dell’operazione: tornare in un certo senso alle origini della fantascienza, parlando di scienza vera. Lo abbiamo scelto e sembra avere funzionato: non dico che abbia suscitato grandi entusiasmi, ma è stato accettato da tutti senza problemi, e anche il senso del trattino sembra essere stato ben compreso.

Durante la complicata, pluriennale trafila che vi ho appena descritto, innumerevoli volte ho provato la tentazione di lasciar perdere e mollare tutto. Se non l’ho fatto è solo perché avevo chiesto ad almeno una ventina di persone di impegnarsi e dedicarci parte del loro tempo, e non sarebbe stato giusto sprecarlo così. Ora che sono arrivato in fondo, invece, sono contentissimo di non aver gettato la spugna. Tanto per cominciare, sono soddisfatto del risultato: il libro terminato non è molto lontano da quello che mi ero immaginato all’inizio del percorso.

Ma soprattutto, sembra destare un interesse e riscuotere un credito molto superiore a quello che mi aspettavo. Nelle sue prime settimane di vita ha raccolto gli elogi di Luca De Biase e Bruce Sterling, due persone per cui nutro un grandissimo rispetto. E sta raccogliendo un discreto interesse da parte della stampa. È troppo presto per valutare quanto riuscirà a vendere, ma mi sembra che si stia facendo notare, ben più di quanto era lecito immaginare. Speriamo che continui così.

Addirittura mi è già stato chiesto più volte se ci sarà un seguito, un Fanta-Scienza 2, o magari 3. Se me lo aveste chiesto un anno fa, avrei risposto: mai più! Ora invece sto cominciando a pensarci. Per me potrebbe davvero diventare un appuntamento annuale, magari con una formula un po’ diversa. Dipenderà molto dal successo del libro, e dalla collaborazione che mi permetterà di ottenere nel mondo scientifico e in quello editoriale.

In ogni caso non posso che ringraziare tutti coloro che, in tanti momenti, mi hanno incoraggiato e dato una mano. Ne è valsa davvero la pena!

Ora, se non l’avete ancora fatto, leggete il libro, o perlomeno compratelo!

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Mooncop

Uno come me, da sempre in bilico tra il proprio lato “umanistico” e quello “scientifico”, e impegnato a convincere gli altri che non c’è contraddizione tra i due, non può non provare una sfrenata ammirazione per Tom Gauld. Uno che riesce, mantenendo esattamente lo stesso stile, a disegnare vignette sia per il New Scientist che per le pagine letterarie del Guardian e del New Yorker. Uno il cui tumblr si chiama You’re Just Jealous of My Jetpack, cioè “siete solo gelosi del mio zaino-razzo”, frase che fa pronunciare al personaggio di un romanzo fantascientifico di fronte allo snobismo di altri personaggi che si considerano più “letterari”.

Ero leggermente dubbioso di fronte alla prospettiva di una storia “lunga” di Gauld: mi sembrava che il suo stile , già così rarefatto nelle sue vignette e strisce brevi, mal si prestasse a una forma più lunga. Sono felice di ammettere che mi sbagliavo: non solo Mooncop è una piacevolissima lettura, ma è una storia che solo nello stile minimalista di Gauld poteva essere espressa.

Il titolo significa “poliziotto lunare”, ma non aspettatevi scene d’azione. Il protagonista è un tutore della legge il cui coefficiente di risoluzione dei casi è pari al 100%… ma solo perché non ci sono mai casi da risolvere! La Luna è un luogo semideserto e in via di progressivo abbandono da parte degli esseri umani che, dopo averla colonizzata, non sembrano trovare alcun vero motivo per restarci. L’unico che sembra apprezzarla ancora è il nostro poliziotto, che dopo una serie di poetici e bizzarri incontri troverà (forse?), contemplando la Terra nel cielo, un motivo per restare. Una storia che si legge in un baleno, e che fa capire perché Gauld è un convincente interprete della realtà di oggi: per la sua capacità di esprimere la malinconia di un mondo dove il meraviglioso e il banale, il futuribile e il vetusto si accostano e si mescolano senza soluzione di continuità.

L’edizione italiana è di ottima qualità, il (poco) testo è tradotto da una scrittrice sulla cresta dell’onda, Claudia Durastanti.

Disclaimer: recensione scritta sulla base di copia ricevuta in omaggio, non sollecitata.

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Game of Thrones: il mio parere

Sono passati otto anni da quando commentavo con questo post e questo articolo su Players la fine della prima stagione di Game of Thrones. È buffo pensare a quanto siano cambiate le cose da allora. Nel 2011, avendo letto tutti i libri, il mio parere era quello di una persona esperta di un argomento per quasi tutti nuovo e sconosciuto. Oggi si discute di Game of Thrones anche sul tram e dal parrucchiere, e prestigiosi opinionisti si sono impegnati a commentare in diretta ogni puntata; il mio parere sarà quindi una goccia nel colossale oceano del chiacchiericcio mondiale sull’argomento. Proprio perché l’universo mondo si sta esprimendo, comunque, stavolta non ho voluto esimermi dal dire la mia.

(È anche buffo rivangare le domande che mi ponevo allora. “Riuscirà la serie a mantenere un’audience sufficiente per gli almeno sette anni (ma probabilmente di più) necessari per portare la storia alla sua conclusione? Riuscirà George R. R. Martin a scrivere i due volumi che ancora gli mancano per arrivare al termine prima che la serie TV lo raggiunga? Riusciranno i produttori a ottenere i finanziamenti per tutte quelle scene costose (battaglie campali e navali, draghi, giganteschi metalupi e così via) che nei libri successivi diventano indispensabili alla trama? E come affronteranno il fatto che i numerosi interpreti-ragazzini cresceranno molto più rapidamente dei loro personaggi? Alla fine l’audience ha continuato a crescere fino a livelli da record, i soldi per i draghi si sono trovati eccome, del fatto che gli attori siano invecchiati più del dovuto non è importato a nessuno. L’unico dubbio che purtroppo si è rivelato fondato è la capacità di Martin di terminare di scrivere i libri rimanendo in vantaggio sulla serie TV: non solo non c è riuscito, ma in questi otto anni non ha pubblicato più nulla di nuovo, e da questo derivano gran parte dei problemi delle ultime stagioni.)

Vi anticipo subito in breve cosa ne penso. Credo che il finale di Game of Thrones in sé sia sostanzialmente sensato e in tono con la serie: un finale meno amaro e più trionfalistico sarebbe stato fuori luogo. È probabile che sia stato dettato da Martin stesso, ed è “martiniano” proprio in quanto delude le aspettative più ovvie e infrange i canoni del genere. Purtroppo però il modo in cui ci si è arrivati è invece profondamente insoddisfacente, e ha abbassato di molto la media di una serie che aveva raggiunto livelli qualitativi altissimi.

(Da qui in poi, è superfluo dirlo, saranno SPOILER a manetta!)

Di chi è la colpa? Mi spiace dirlo, ma il principale responsabile resta comunque George R. R. Martin. Il quale non solo in otto anni non ha scritto l’atteso finale della saga, ma già negli ultimi libri pubblicati dà l’impressione di averne perso il controllo. Di questo parlerò in modo più approfondito in un post specificamente dedicato all’argomento, ma comunque voglio sottolineare che negli ultimi due libri pubblicati, A Feast for Crows e A Dance with Dragons, i contorni di un possibile finale sembrano sbiadire invece che farsi più definiti; i personaggi principali si impantanano in complicazioni sempre più intricate, ed entrano in gioco nuovi personaggi e nuove rivelazioni di cui non si sentiva esattamente il bisogno, a rendere ancora più problematica la posizione di chi volesse tirare le fila di tutto il materiale senza tralasciare niente. Insomma, se la serie non è finita in modo degno, la colpa è in primo luogo del fatto che è tratta da una saga che per ora è tronca, e chissà se un finale lo avrà mai.

Ma una pari responsabilità ce l’hanno a mio avviso anche i due showrunner Benioff e Weiss, i quali, dopo aver terminato il materiale originale da cui attingere, hanno deciso che sarebbero arrivati al finale dettato da Martin in soli tredici episodi. C’è chi dice che sia stata una decisione obbligata, dovuta al lievitare dei costi della serie. Costoro non tengono conto però del fatto che, all’epoca, la stampa specializzata fu unanime nell’attribuire interamente agli sceneggiatori la volontà di chiudere in fretta, contro i desideri della stessa HBO, che sarebbe stata disposta a concedere persino altri cinquanta episodi. Una decisione che temo dettata, più che da una visione artistica, da interessi economici (è stato appena annunciato che sceneggeranno il prossimo film di Star Wars, una delle più redditizie franchise hollywoodiane), sicuramente legittimi, ma che non sono andati nell’interesse del mantenimento della qualità.

Abbiamo visto per prima cosa una colossale operazione di potatura, con un gran numero di personaggi eliminati prematuramente senza andare troppo per il sottile. Con vittime principali Rickon Stark (rimasto nascosto per intere stagioni e poi tirato fuori dal cilindro solo per farlo immediatamente ammazzare da Ramsay Bolton) e tutti gli avversari politici di Cersei Lannister, fatti fuori letteralmente col lanciafiamme (un’esplosione di altofuoco che li ha cancellati dalla serie dal primo all’ultimo).

Questo forse era inevitabile: chiunque volesse portare la serie a un finale in tempi ragionevoli doveva per forza di cose concentrarsi su alcune linee narrative e rinunciare a dare un senso di compiutezza alle storie di ogni singolo personaggio minore. Quello che risulta difficile perdonare a Benioff e Weiss è l’aver trattato con pari sufficienza e sbrigatività anche i personaggi e le storie maggiori. Una volta sfrondato l’albero, il materiale per arrivare a una degna conclusione ci sarebbe stato, ma non è stato sfruttato a dovere. Abbiamo visto invece alcuni personaggi subire una sorta di de-evoluzione, abbandonando senza motivo il percorso costruito in tante stagioni per tornare a essere repliche sbiadite di ciò che erano all’inizio, come se gli autori si sentissero più a loro agio a lavorare con cliché che con personaggi complessi.

Per esempio Jaime Lannister: da cattivo disposto a qualunque nefandezza per amore della sorella-amante Cersei, nel corso delle stagioni era diventato sempre più umano, ed era sembrato trovare nell’amore per Brienne di Tarth la spinta definitiva per diventare una persona diversa. Ma se nei libri le cose sembrano andare davvero così, all’inizio della settima stagione gli sceneggiatori hanno pensato bene di fargli quasi-stuprare la sorella accanto al cadavere del figlio facendogli concepire un altro bambino, riportando il personaggio alle origini. In TV Jaime resta così, irrisolto: disobbedisce alla sorella e si reca al Nord a combattere insieme ai suoi nemici, sembra concedersi finalmente all’amore per Brienne… e poi si rimangia tutto per tornare con la sorella e morire insensatamente con lei. Una scelta che non solo è molto difficile da giustificare a livello psicologico, ma che va a contraddire la cosiddetta “profezia del valonqar”, un dettaglio che a suo tempo Benioff e Weiss avevano giudicato tanto importante da contravvenire alla loro stretta regola che bandisce i flashback. Abbiamo visto quindi una giovane Cersei ricevere da una veggente la predizione che sarebbe stata uccisa dal fratello minore. Fratello che lei identificava in Tyrion, ma che i bene informati sapevano poter essere anche Jaime, suo gemello ma nato per secondo. Ma nel finale Cersei muore dopo che entrambi i fratelli si sono impegnati per salvarle la vita, mandando al diavolo la profezia (e la coerenza narrativa). [Nota: mi fanno notare che nella versione televisiva la profezia non fa cenno al valonqar; tenere a mente tutte le differenze tra libri e serie TV è davvero complicato!]

Identico discorso si può fare per Arya Stark, che abbiamo visto affrontare volontariamente un addestramento disumano che l’ha trasformata in un’assassina priva di sentimenti pur di poter avere la sua vendetta. Una volta che Arya è tornata a Grande Inverno, però, tutto questo viene quasi dimenticato. Si addolcisce, decide addirittura di punto in bianco di perdere la verginità, nel combattere contro i non-morti sembra aver perduto i suoi poteri mimetici e tornare a essere una ragazzina in lotta con poteri più grandi di lei. Poi sembra ricordarsi di essere un’assassina, uccide addirittura il Re della notte e parte col Mastino in cerca della vendetta definitiva contro Cersei. Ma nel finale basta una frase buttata lì dal Mastino per indurla a rinunciare, per poi vagare impotente attraverso la città in fiamme in una lunga scena che non porta a nulla. Il suo è diventato un personaggio irrisolto e senza scopo, tanto è vero che la sceneggiatura ha creato dal nulla un suo desiderio di esplorare il mondo a ovest di Westeros pur di darle un’uscita di scena purchessia.

(A proposito del Mastino, anche lui nel lungo viaggio a fianco di Arya sembrava aver trovato una sorta di redenzione, e invece lo vediamo morire insieme al fratello in un lungo duello, molto spettacolare ma del tutto ininfluente ai fini della storia: che morisse o vivesse uno o l’altro dei Clegane, o ambedue, nulla cambierebbe per qualunque altro personaggio.)

Ma il problema più grave di queste ultime stagioni è l’avere sprecato in gran parte tutta l’attesa e la tensione che erano state costruite intorno a due filoni principali: l’elemento profetico-soprannaturale, e le vicende parallele dei due eredi Targaryen, Jon/Aegon e Daenerys, il ghiaccio e il fuoco che, in tutta evidenza, costituiscono il nucleo centrale di una saga che, nella sua versione letteraria, si chiama A Song of Ice and Fire.

I tre principali temi soprannaturali della serie sono stati: il tentativo di Melisandre, la Donna Rossa, di mettere al servizio del proprio ambiguo dio R’hllor (in grado di resuscitare i morti e di proteggere dalle tenebre, ma anche pronto a esigere spietati tributi di sangue) il futuro re dei Sette Regni, che lei erroneamente identifica con Stannis, ma che da tutti gli indizi sembra invece essere Jon Snow; il viaggio iniziatico di Bran per diventare il Corvo con Tre Occhi e acquisire il dono della profezia; e soprattutto l’arrivo dell’Inverno e l’atteso attacco degli Estranei con la loro schiera di non-morti.

Di tutto questo è rimasto ben poco. Melisandre ricompare dal nulla solo per dare un (poco significativo) aiuto in battaglia e poi lasciarsi morire, come se il suo scopo fosse sempre stato quello di sconfiggere gli Estranei e non quello di far sì che R’hlorr diventasse il dio dei Sette Regni. Il dono della profezia di Bran, raggiunto a prezzo di enormi sacrifici e della morte di diverse persone, si dimostra sostanzialmente inutile: Bran conosce tutto quello che succederà ma non ne mette a parte nessuno, né sembra essere in grado di intervenire per modificare ciò che accadrà. L’unica utilità del dono di Bran è di farne il bersaglio del Re della notte, cosa che causerà la dipartita di quest’ultimo, ma tutta questa fretta del Re di uccidere Bran rimane immotivata. (Inoltre il quasi assoluto distacco dalle vicende umane ostentato da Bran una volta acquisito il dono risulterà in totale contrasto con la sua pronta e convinta accettazione del trono nel finale!)
Infine l’inverno degli Estranei: qui almeno abbiamo avuto una colossale battaglia al buio e al gelo, ma alzi la mano chi non è rimasto deluso nel vedere l’intero esercito dei non morti sconfitto da una singola pugnalata (possibilità che non era mai stata ventilata in precedenza) e l’inverno che sarebbe dovuto essere epocale finire nel giro di un paio di episodi.

Quanto a Jon, la sua vera identità di erede dei Targaryen è stato un segreto svelato a poco a poco con indizi sapientemente dosati, poi con due flashback inequivocabili, tenuto nascosto al protagonista fino all’ultima stagione… e, quando finalmente lui lo viene a sapere, non accade praticamente nulla. Sostanzialmente gli unici effetti causati dalla rivelazione sono l’esecuzione di Varys e creare una prima frattura tra Jon e Daenerys, ma a parte questo se la rivelazione non ci fosse stata e fosse rimasto fino alla fine il bastardo di Ned Stark il finale avrebbe potuto svolgersi nello stesso modo. Questa è forse la più grossa delusione di tutta la serie.

Infine, Daenerys, che ha polarizzato le discussioni in rete tra chi ha trovato assurdo il suo diventare la “cattiva” della saga dopo esserne stata sempre una delle principali eroine, e chi invece riteneva che le sue azioni passate già ne dimostrassero la natura tirannica ereditata dal padre Aerys il Folle. Il problema è, a mio avviso, ancora una volta la troppa fretta. Che Daenerys, data la sua intransigenza e la sua granitica convinzione di avere diritto al trono, potesse entrare in contrasto con gli altri eroi e finire per compiere azioni ingiustificabili, era del tutto plausibile. Purtroppo la cosa è stata gestita malissimo, con una Daenerys che di punto in bianco compie una strage di innocenti del tutto immotivata, mentre in precedenza ogni sua azione, anche la più spietata, aveva sempre avuto stringenti motivazioni politiche. La tesi per cui la sua sarebbe stata una decisione conscia di governare attraverso il terrore non regge: avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato punendo esemplarmente i nobili come aveva fatto più volte in passato, non la gente inerme, distruggendo l’immagine di protettrice dei deboli che si era faticosamente costruita in tante battaglie. Il suo non sembra un atto logico, ma un impazzimento inspiegabile al solo scopo di giustificare la sua imminente uccisione.

Con tutto questo non voglio dire di non essermi divertito a guardare l’ultima stagione di Game of Thrones, che ci ha dato un gran numero di scene altamente spettacolari e ci ha fatto comunque trepidare per i suoi personaggi (il fatto che praticamente da una settimana in rete non si discuta di altro che del loro destino è in sé un evento storico per la televisione). E non voglio nemmeno dire che avrei voluto che finisse in modo diverso: che alla fine Daenerys non riesca a diventare la liberatrice dai sette regni ma si trasformi in una tiranna e muoia, che Jon non salga mai sul trono nonostante ne sia l’erede e tutte le profezie lo vogliano, che il re alla fine diventi qualcun altro, sono tutte cose che rientrano perfettamente nello spirito iconoclasta della saga. Vorrei solo che ci si fosse arrivati con meno fretta, portando a compimento tutti gli archi narrativi che erano stati tracciati, e senza tante evidenti forzature.

In questi giorni in rete è circolato un gran numero di difese d’ufficio del finale, quasi tutte argomentate principalmente sulla sua validità simbolica. E c’è persino chi ha sostenuto che, uccidendo Danerys, Jon avrebbe dimostrato di essere il “principe promesso” profetizzato da Azor Ahai, che avrebbe liberato il mondo dalle tenebre incarnate non dagli Estranei, come tutti pensavano, ma da Daenerys. A me questa tesi fa sorridere. A parte il fatto che Azor Ahai esiste solo nei libri, e in TV non se n’è mai parlato, la validità di un finale non si può giudicare a partire da valutazioni puramente esterne. Una storia deve trovare in sé la sua giustificazione, senza doversi apoggiare a metanarrazioni e metaanalisi per trovare un senso.

Quello che fa grande una storia non è solo ciò che succede, ma soprattutto il modo in cui viene raccontato, facendocelo sentire come autentico e inevitabile: proprio ciò che in queste ultime stagioni è mancato. Game of Thrones è stata una grande, grandissima storia, che purtroppo nelle ultime due stagioni è stata raccontata male, in modo frettoloso e sciatto. Pensiamo solo all’ultima puntata, dove alla scena clou dell’uccisione di Daenerys e della distruzione del Trono di Spade (questa sì un’idea bellissima e potente!) segue una terrificante ellissi che ci porta direttamente a una trattativa diplomatica, lasciandoci in dubbio su come sia possibile che dopo un fatto del genere non si siano tutti scannati a vicenda invece che ritrovarsi in un’incruenta, anche se accesa, discussione. (Ma ci sarebbe molto altro da dire sul frettoloso montaggio di quest’ultima stagione, citerò solo il momento WTF in cui Jon lascia Verme Grigio intento a sgozzare prigionieri per andare a parlare con Danerys, si inerpica per una colossale scalinata e in cima trova… ancora Verme Grigio! Manca solo che gli chieda: “Ma hai preso l’ascensore?”.) E aggiungo: il fatto che in quattro e quattr’otto decidano che il Nord sarà un regno indipendente è una cosa che non ha senso, e sembra buttata lì solo per fare contenti i fan di Sansa.

Non firmerò certamente l’assurda petizione che chiede di rifare da capo il finale. Quel che è fatto è fatto, sono contento di aver seguito Game of Thrones per nove anni e otto stagioni, e non giudico tempo perso aver seguito questi ultimi sei episodi. Ma la convinzione che sarebbero potuti essere molto, molto migliori difficilmente qualcuno me la toglierà.

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1984: l'invasione

invading the vintage
È più di un anno che mi dico che vorrei rimettere in funzione questo blog ed è più di un anno che rimando. Ma questa è veramente un’occasione che non posso lasciar scappare.
L’amico Franco Brambilla, che tutti conoscono, tra le altre cose, per la sua attività di copertinista di Urania, ha usato una mia foto come base per un’illustrazione della serie Invading the vintage. L’idea della serie è quella di aggiungere astronavi, robot, alieni e altri elementi fantascientifici a foto d’epoca, creando un effetto straniante di commistione tra passato e futuro.
Nella foto in questione avevo 18 anni, avevo appena passato l’esame di maturità, ero magro come un chiodo e non mi ricordo se stavo partendo per la mia prima vacanza da solo all’estero oppure stavo tornando. L’anno, per aggiungere un ulteriore dettaglio fantascientifico, era il 1984.
Il risultato lo vedete qui sopra. Finire dentro l’immaginario di un artista come Franco è un piacere e un onore.

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Archeoacustica


Oggi su Nòva 24 apparirà un mio articolo in cui intervisto il professor Carl Haber, inventore di una tecnologia per estrarre l’audio con un procedimento ottico da antiche registrazioni, realizzate con macchinari pionieristici su supporti così fragili che rischierebbero di rovinarsi se venissero ascoltati anche una sola volta col metodo tradizionale.
Mentre ascoltavo il professore parlare di come realizza scansioni dettagliatissime delle superfici dei supporti fonografici per poi usare un algoritmo in grado di “ascoltare” i suoni che contengono senza toccarli, mi è venuto in mente un racconto di fantascienza. Lo ha scritto Rudy Rucker nel 1981, si intitola Buzz ed è apparso in Italia nel 1996 col titolo di Ronzio, all’interno dell’antologia Cuori Elettrici curata da Daniele Brolli. In Ronzio degli scienziati ritengono che sulla superficie di un antico vaso egiziano possano essere rimasti incisi dei suoni, grazie al fatto che il coltello del vasaio ha trasformato le vibrazioni dell’aria in solchi che poi si sono solidificati. Costruiscono un macchinario per riascoltare quei suoni, ma nel farlo finiscono col far risuonare un antico incantesimo che ha effetti inaspettati.
Sono rimasto a lungo indeciso se fosse il caso di fare una domanda così strana a un serio professore di fisica, ma alla fine mi sono deciso, e gli ho chiesto se fosse davvero possibile che dei suoni dell’antichità fossero rimasti incisi accidentalmente nel modo descritto dal racconto, e in tal caso se la sua tecnica fosse in grado di recuperarli. Mi ha lasciato di stucco dicendomi: “Questa domanda mi è stata posta centinaia di volte”. Dopodiché mi ha spiegato che si è molto discusso di questa possibilità, che viene definita archeoacustica, ma secondo lui non è molto plausibile che possa realizzarsi in pratica. Haber ha studiato approfonditamente gli esperimenti dei primi pionieri della registrazione audio, e si è reso conto che per l’incisione di suoni intelligibili hanno dovuto affrontare grandissimi sforzi e ricorrere a espedienti ingegnosi. La probabilità che lo stesso risultato possa essere ottenuto per caso, senza la volontà di ottenerlo, a suo avviso è davvero bassa. “Però vorrei specificare una cosa”, ha aggiunto. “Se davvero dei suoni fossero rimasti incisi in quel modo, la mia tecnologia sarebbe perfettamente in grado di tirarli fuori”.
Quindi l’idea di poter ascoltare suoni di epoche precedenti l’invenzione del fonografo e del registratore è molto probabilmente solo un sogno. Un sogno peraltro ricorrente: proprio in questi giorni leggevo, nell’introduzione all’interessantissimo libro Alla ricerca del suono perfetto – Una storia della musica registrata di Greg Milner, che lo stesso Guglielmo Marconi faceva fantasticherie del genere. Avendo osservato che un suono non si interrompe mai davvero, ma si smorza diminuendo di intensità per diventare inaudibile, aveva pensato che, con apparecchiature sufficientemente sensibili, si sarebbero potuti recuperare anche i suoni di epoche molto lontane. In particolare, avrebbe voluto poter ascoltare il Discorso della Montagna come l’aveva pronunciato lo stesso Gesù.
Marconi non conosceva l’odierna teoria dell’informazione, e non si rendeva conto che qualunque suono è destinato a perdersi nel rumore di fondo fino a non essere più in alcun modo decifrabile. Ma quello di far rivivere i rumori del passato, rendendolo in qualche modo ancora vivo e presente, è troppo affascinante per perdere del tutto la speranza. Chissà che un giorno qualche complesso entanglement quantistico non ci consenta di percepire le vibrazioni di atomi di un lontano passato, come inserendo un microfono in un’altra epoca. E chissà cosa potremmo scoprire ascoltando.

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Torna StraniMondi

Un breve post per ricordarvi che il prossimo 15 e 16 ottobre si terrà a Milano la seconda edizione di StraniMondi, la manifestazione dedicata all’editoria fantastica e fantascientifica.
Organizzata da tre delle principali case del settore, e cioè Delos Books, Hypnos e Zona 42, e con la partecipazione della quasi totalità dei piccoli editori del settore, è davvero un evento imperdibile per chi è interessato alla letteratura fantastica. Già l’edizione dell’anno scorso è stata davvero riuscita, come ho scritto altrove, ma quest’anno partecipano ancora più editori (ben 26) e c’è uno schieramento di ospiti stranieri davvero notevole, capitanato da uno degli autori di fantascienza contemporanei che più apprezzo, e cioè Alastair Reynolds.
Ci sarò sicuramente anch’io, anche se non so ancora dirvi se parteciperò a qualche evento.
Vi ricordo infine che StraniMondi viene finanziata attraverso un crowdfunding. Quest’anno la raccolta fndi sta andando molto meglio dell’anno scorso, ma comunque sia se volete dare una mano agli organizzatori o assicurarvi qualcuna delle ricompense speciali previste per i partecipanti andate pure a preiscrivervi presso l’apposito sito Kickstarter.
Ci vediamo lì!

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Sole Pirata (autopromozione)

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È già nelle librerie (e negli e-book store) Sole pirata, terzo volume del ciclo di Virga, scritto dal canadese Karl Schroeder e tradotto dal sottoscritto insieme a mia moglie Silvia Castoldi, come i due volumi precedenti.
Si tratta della conclusione del ciclo (esistono altri due romanzi ambientati in Virga, ma le cui vicende sono slegate da quelle dei libri precedenti; per il momento la loro pubblicazione in Italia non è prevista). Questa volta la trama ruota soprattutto intorno all’ammiraglio Chaison Fanning, imprigionato alla fine del primo volume, e ai suoi tentativi di rientrare in patria. Chi era rimasto deluso dal fatto che il romanzo precedente si svolgesse interamente all’intenro di un habitat, qui avrà il piacere di ritrovare i grandi spazi e gli assurdi panorami del mondo di Virga.
Il libro è acquistabile sia in versione cartacea, sia in ebook, presso il sito della casa editrice, oltre che in alcune librerie selezionate. Ci sarà sicuramente una presentazione del libro a Milano nel corso di StraniMondi, ma ancora non so dirvi la data.

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