Chronic City

More about Chronic CityIn una Manhattan surreale (di cui una parte è perennemente avvolta nella nebbia, e nella quale accadono eventi improbabili come gli attacchi di una tigre gigante che demolisce edifici) seguiamo le vicissitudini di Chase Insteadman, un quasi-VIP che vivacchia sfruttando la notorietà dovuta al proprio passato di attore-bambino e alla bizzarra condizione di fidanzato ufficiale di un’astronauta rimasta imprigionata in orbita. Quando Chase diventa amico del bizzarro critico rock Perkus Tooth, le elucubrazioni di quest’ultimo cominciano a infondergli dubbi sempre maggiori sulla consistenza della realtà in cui vive.

Ho cominciato fiducioso la lettura di questo libro: Lethem è un autore che in genere mi piace molto, e per giunta Chronic City arrivava accompagnato da pareri favorevoli di amici e recensioni positive. Dopo un po’ di pagine, però, ho cominciato a chiedermi perché ogni volta avessi sempre meno voglia di riprenderlo in mano, per giungere alla fine all’inevitabile conclusione: per quanto mi riguarda, è una noia mortale!
Le tematiche di Chronic City non sono certamente nuove, e sono state affrontate da autori del calibro di Philip K. Dick, Thomas Pynchon, William Gibson: l’alternativa tra virtuale e reale e l’incapacità di distinguerli, la dipendenza dell’uomo moderno da strutture che non riesce a comprendere e a controllare, l’impossibilità di assumere un punto di vista affidabile sull’esistenza. Di per sé questo non è un male: nessun grande tema è mai veramente esaurito, e tutti possono essere affrontati ancora da un punto di vista inedito o più moderno. Il problema però è che, a mio avviso, non solo Lethem qui non dice nulla di veramente nuovo e interessante, ma non riesce neppure a dare al lettore un motivo per voler sapere come proseguirà la storia
Lethem in passato ha dato buona prova di saper utilizzare a proprio vantaggio sia gli spunti offerti dalla realtà, sia quelli dati dal fantastico e dal grottesco, spesso mescolandoli insieme in modo inedito e spiazzante. Qui, al contrario, sceglie un registro indiretto, artificioso e blando, che non riesce ad appassionare né a sorprendere. Nelle centinaia di pagine del romanzo non succede quasi nulla, solo dialoghi sconclusionati tra personaggi che potrebbero tutti provenire da un film di Woody Allen (però di quelli in cui il regista vuole essere serio e finisce con l’annoiare).
Dove la realtà offrirebbe infiniti spunti narrativi, l’autore sceglie di utilizzare un pesante filtro metaforico che finisce col depotenziarli. Per fare un esempio, il romanzo si dilunga sul paradosso per cui oggetti puramente virtuali finiscono per essere desiderati al punto di avere un valore in denaro e di influire sui comportamenti delle persone reali. Situazioni del genere sono comunissime nel campo del gioco online; tuttavia, invece che metterne in scena una in modo realistico, Lethem inventa i “calderoni” oggetti virtuali provenienti da un videogioco i quali, per motivi non spiegati, provocano una sorta di estasi mistica in chi li vede rappresentati. I personaggi cercano disperatamente di procurarsene uno su eBay, senza riuscirci, ma anche la partecipazione all’asta online provoca in qualche modo una sorta di comunione mistica con l’oggetto. Tutto questo a mio avviso non solo è ridondante, ma arbitrario e perciò inefficace: la puntata di The Big Bang Theory in cui Sheldon & C. si contendono una spada virtuale, per dire, mi sembra esprimere il concetto in modo molto più concreto e appassionante.
Anche dal punto di vista strutturale il romanzo non mi convince. È scritto quasi completamente in prima persona dal punto di vista di Chase, ma ci sono un paio di capitoli in cui si passa invece alla terza persona dal punto di vista di Perkus, un’asimmetria che disturba e non sembra avere alcuna particolare funzione. Tutto il libro è pieno di strizzatine d’occhio, a volte pesantemente didascaliche (il protagonista si chiama Insteadman, una trasparente allusione al suo vivere secondo le aspettative altrui senza avere una personalità propria), a volte incomprensibili (perché mai a un certo punto i newyorkesi sentono profumo di cioccolata? È un bizzarro nonsense, o una sottile allusione culturale che mi sfugge?).
Alla fine, le uniche pagine che mi siano davvero piaciute sono le lettere scritte dalla fidanzata-astronauta di Chase. Il che è paradossale, visto che nell’economia del libro dovrebbero essere sinonimo di inconsistenza. Forse era questo il messaggio dell’autore, che una realtà immaginata è più vivida e interessante di una vissuta? Ricevuto, ma forse lo si poteva dire in meno di 450 pagine.

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To tweet or not to tweet

Con questo post inizia una serie che vorrebbe servire a mettere a punto il blog in base alle esigenze dei suoi pochi visitatori.
Comincio con l’account di Twitter, il quale mi procura non pochi dubbi.
Quando ho deciso di affiancare al blog un account Twitter, ho pensato di usarlo esclusivamente per segnalare le mie attività pubbliche: pubblicazione di articoli e racconti, trasmissioni radio, e così via. Non mi era sembrato opportuno segnalare su Twitter l’uscita dei post del blog, dato che chi vuole riceverli regolarmente può usare un newsreader RSS. E non intendevo nemmeno usarlo per diffondere commenti, dato che a questo scopo uso direttamente il blog per le opinioni più articolate, e l’account di Facebook per la chiacchiera che immagino interessi solo i miei diretti conoscenti.
Tuttavia ultimamente Twitter è molto cresciuto in importanza, e certe volte ho avuto la tentazione di utilizzare l’account di Twitter per partecipare a dibattiti estemporanei e commenti in diretta, diffondere link, e in generale per altri usi per cui non si può utilizzare il blog. Finora non l’ho fatto perché non volevo snaturare l’account Twitter come l’avevo concepito originariamente. Mi chiedo però che ne pensino i miei (scarsi) seguaci. Inoltre mi chiedo se potrebbe essere opportuno lasciare inalterato l’uso di questo account e affiancargliene un secondo più incline alla chiacchiera.
A seguire il mio Twitter sono appena una ventina di persone. Spero aumentino nel tempo. Comunque mi piacerebbe se i magnifici venti mi dicessero il loro parere su questo:

  • Vi è utile se segnalo su Twitter l”uscita dei post?
  • Preferite che continui a usare il mio account Twitter solo per segnalare articoli e trasmissioni, o siete favorevoli a un ampliamento delle sue funzioni?
  • Meglio un solo account Twitter, o due?

Fatemi sapere, possibilmente nei commenti di questo post.

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Il ciclo di vita degli oggetti software

More about Il ciclo di vita degli oggetti softwareSu Data Earth, uno dei tanti ambienti virtuali a disposizione del pubblico (qualcosa di simile a una versione estremamente sofisticata di Second Life) vengono venduti i “digenti”, creature domestiche virtuali, dotate di intelligenza artificiale e in grado di apprendere. Se per alcuni non sono più che giocattoli, per altri diventano l’equivalente di figli che vanno educati e protetti. Col tempo si presentano problemi che nessuno si aspettava. Cosa succede se la piattaforma software che li ospita diventa obsoleta? Come finanziare le tecnologie che possono consentire loro di continuare a esistere e ad apprendere?  In che forma legale si può garantire loro tutela e autodeterminazione? E soprattutto, bisogna lasciarli liberi anche quando non condividiamo le loro scelte?

È indiscutibile che Ted Chiang sia tra gli autori più interessanti e talentuosi della fantascienza contemporanea. Ogni sua opera affronta problemi scientifici, epistemologici o filosofici da un punto di vista totalmente inedito, e lo fa con strumenti stilistici ogni volta differenti e sorprendenti. Ha il rigore scientifico di un Greg Egan, ma riesce nello stesso tempo a risultare molto più leggibile anche ai profani, e a coinvolgere emotivamente il lettore in modo molto più approfondito.
Non fa eccezione questo suo primo approccio al romanzo (comunque molto breve). L’obiettivo di Il ciclo di vita degli oggetti software (esplicitato in un’interessante intervista pubblicata su Robot #64), è quello di fornire un punto di vista nuovo rispetto alla visione narrativa dell’intelligenza artificiale. Questa, infatti è sempre stata rappresentata come qualcosa di compiuto, che nasce già pronto e superiore agli esseri umani. Tuttavia, fa notare Chiang, è molto improbabile che sia così. Molto probabilmente una vera intelligenza artificiale dovrà affrontare gli stessi problemi che affrontano gli umani, e cioè crescere gradatamente imparando dall’esperienza.
La lettura di questo libro mi ha fatto pensare a Bob Shaw, filtrato attraverso il minimalismo americano: un’idea semplice e ben definita, esplorata fino alle sue estreme e non immediatamente prevedibili conseguenze (ovverosia quello che la fantascienza dovrebbe sempre fare), attraverso una serie di quadretti familiari, descritti in maniera diretta e priva di orpelli.
Dal punto di vista delle idee, il romanzo di Chiang è quantomai stimolante. Forse è presto per dirlo, ma potrebbe essere uno di quei libri che portano a un cambiamento di paradigma: sarà difficile d’ora in poi immaginare a un’intelligenza artificiale prescindendo dai digenti e da quello che possono insegnarci. Come lettore, tuttavia, provo per la prima volta un briciolo di insoddisfazione nei confronti di un’opera di Chiang. Lo stile adottato in questo caso, estremamente distaccato e con continui salti temporali, rende difficile affezionarsi ai personaggi, proprio quando le situazioni descritte dall’autore implicano sentimenti profondi e coinvolgenti. Inoltre il romanzo termina proprio in un momento, l’equivalente dell’inizio dell’adolescenza per i digenti, che lascia il lettore con la curiosità di come si evolveranno le cose. Insomma, visto che Chiang si è cimentato per la prima volta in un romanzo, avrei preferito che non fosse un romanzo brevissimo, visto che i temi presentati avrebbero tranquillamente retto un maggiore approfondimento. Cionondimeno, resta una delle uscite fantascientifiche più interessanti degli ultimi tempi.
Il libro è uscito in Italia in un’ottima edizione della Delos Books. Chi sa bene l’inglese può anche leggerselo gratuitamente qui.

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Sherlock Holmes – Gioco di ombre

Sherlock Holmes è determinato a sconfiggere il malvagio professor Moriarty, che dietro la facciata di tranquillo accademico manovra crimini e  organizza attentati senza mai lasciare tracce. Moriarty gli fa sapere che, se insisterà a cercare di fermarlo, lo colpirà negli affetti più cari, incluso il dottor Watson, che sta per sposarsi e non ne vuole più sapere di aiutare Holmes nelle sue imprese. Ma Holmes non accetta di arrendersi: non gli resta perciò che proteggere Watson all’insaputa di quest’ultimo…

Il primo Sherlock Holmes di Guy Ritchie mi era sostanzialmente piaciuto. A fianco di tante operazioni che, nel tentativo di “modernizzare” un personaggio famoso, lo snaturano completamente (tipo trasformare I tre moschettieri in un’avventura steampunk, per dire), il regista inglese ha compiuto un’operazione molto più sofisticata, recuperando le caratteristiche del personaggio letterario che erano state gradatamente dimenticate nella vulgata cinematografia e televisiva. Nella fattispecie: Sherlock Holmes non è (solo) un freddo ragionatore: è un uomo d’azione, un drogato e sostanzialmente un pazzo lunatico. A questa ottima intuizione si aggiunge che Ritchie è un mago del montaggio, e riesce a rendere i ragionamenti sovrannaturalmente complicati di Holmes facendoci entrare nella sua testa con un velocissimo flusso di immagini invece che somministrarci i consueti noiosi spiegoni.
Se avevo delle riserve sul primo film era perché questa ottima costruzione del personaggio e le inquietanti atmosfere gotiche non andavano poi a parare da nessuna parte: il cattivo e il suo complotto erano poco significativi e non davano soddisfazione. Per fortuna qui si è corretto il tiro, si è chiamato in causa l’arcinemico di Holmes in persona, il professor Moriarty, interpretato in modo più che convincente da Jared Harris, e le cose funzionano meglio, tanto che si può tranquillamente dire che questo è uno di quei rari seguiti migliori del film iniziale. La tensione non cala mai, c’è un perfetto equilibrio tra dramma e commedia, e le trovate di Holmes sono sempre sorprendenti (e inverosimili se ci si pensa per un secondo, ma questo è vero anche per i romanzi di Doyle). La scena che mi è piaciuta di più è quella finale, in cui Moriarty e Holmes giocano a scacchi e con montaggio alternato Watson mette in pratica le deduzioni dell’investigatore: una costruzione impeccabile. Ritchie è davvero uno che ci sa fare, peccato per quell’incidente di percorso di sposare Madonna (finché è stato suo marito ha prodotto l’unico film brutto della sua carriera).
Certo, ci sono anche cose che non funzionano, per esempio il personaggio femminile. Tolta di mezzo in fretta Irene Adler, viene sostituita con una chiromante zingara che segue ovunque Holmes & Watson senza mai interagire con loro. Un personaggio inutile (e l’interpretazione incolore di Noomi Rapace non aiuta). Ma in generale tutti i personaggi secondari non convincono molto. Per esempio, usare Stephen Fry come Mycroft Holmes è stata una scelta di casting pressoché perfetta, ma poi il personaggio rimane sospeso per aria, come se gli sceneggiatori fossero indecisi su come usarlo.
Giudizio sintetico: se fanno il terzo andrò a vederlo.
Per un errore una bozza incompleta di questo post è rimasta a lungo online. Me ne scuso.

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A pesca di neutrini

Una sfera di vetro, resistente alla pressione e contenente una trentina di fotomoltiplicatori, viene calata in mare (proprietà consorzio KM3NeT)

Mariastella Gelmini non lo sapeva, ma i neutrini sono particelle prive di carica elettrica e quasi prive di massa, che viaggiano nello spazio in linea retta senza farsi deviare da nulla e attraversano un pianeta come la Terra come se non esistesse neppure. Per questo motivo i neutrini sono un’ottima fonte di informazione su quello che succede in zone remote dell’Universo, dato che nulla li ferma o li sposta. Il problema è che particelle del genere sono anche molto difficili da individuare, dato che attraversano qualsiasi cosa come se fossero fantasmi. Un osservatorio per neutrini, quindi, funziona in modo molto particolare. Per cominciare, invece che guardare verso il cielo, guarda verso la Terra: in questo modo non viene disturbato da particelle di altro genere, mentre “vede” comunque i neutrini che attraversano facilmente il pianeta. In secondo luogo, l’osservatorio deve essere circondato da grandi quantità di materia. In questo modo, i neutrini che l’attraversano lasciano ogni tanto una debole traccia, un lampo di radiazioni che sensori sufficientemente acuti possono catturare e interpretare. E’ per questo che l’osservatorio del Gran Sasso sta sotto una montagna, e l’osservatorio Ice Cube sotto il ghiaccio dell’Antartide. Il prossimo osservatorio, invece, verrà costruito sul fondo del Mediterraneo, circondato non da roccia o ghiaccio, da dall’acqua.
Se volete saperne di più, leggete l’articolo che ho scritto in proposito su Nòva 24 di oggi, che trovate in edicola allegato a Il Sole 24 Ore, oppure facendo clic su:

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