La mia prima cache!

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Da qualche tempo a questa parte mi sto interessando al geocaching. Si tratta di una simpaticissima e moderna variante della caccia al tesoro. il succo è questo: qualcuno si reca in un luogo qualsiasi, ma possibilmente di qualche interesse storico o paesaggistico, e ci nasconde una cache, cioè un contenitore segreto contenente un piccolo registro cartaceo e qualche oggettino che costituisce il "tesoro". Poi pubblica sul sito web ufficiale del gioco le coordinate geografiche esatte del nascondiglio, e una descrizione. Chiunque desideri può prendere un GPS, recarsi alle coordinate in questione, e cercare la cache. Se riesce a trovarla, può firmare il registro incluso, e può anche prendersi uno degli oggettini contenuti come ricordo (ma dovrebbe lasciare qualcosa in cambio). Poi può registrare ufficialmente sul sito l’avvenuto ritrovamento. Ci possono essere altre complicazioni, enigmi e via dicendo, ma il succo è questo. Il bello del gioco non è la competizione per trovare più cache degli altri, ma lo stimolo a visitare con attenzione luoghi che altrimenti non si sarebbero presi in considerazione.
Io ho cominciato la mia attività di geocacher a Milano città: inutile andare lontano, quando a pochi passi da casa ci sono una trentina di cache. Ammetto che le mie prime due ricerche sono andate a vuoto. Ma la terza… ebbene sì, sotto la Torre Velasca ho trovato la mia prima cache. Perfettamente mimetizzata, un contenitore magnetico dipinto in modo da risultare praticamente invisibile, pur essendo in piena vista. Devo dire di aver provato una gioia quasi infantile nel reperimento: mi sono sentito tanto "agente segreto" a trovare quel tesoro che mi aspettava in un angolo alquanto desolato di un luogo frequentatissimo, all’insaputa di tutti.
Credo proprio che questo gioco mi abbia preso. Alla prossima pausa pranzo vado a cercare una cache vicina al luogo di lavoro, alla Conca dei Navigli…

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Film: E venne il giorno

E venne il giornoA New York, centinaia di abitanti vengono improvvisamente colti da una mania suicida che li spinge a uccidersi con il primo metodo a portata di mano. Inizialmente si sospetta un atto terroristico ma, quando l’epidemia si diffonde in tutto il nord-est degli Stati Uniti, le spiegazioni ufficiali non reggono più. Un professore di scienze, accompagnato dalla moglie, con cui è in crisi, e dalla figlia di un amico rimasto disperso nella confusione, tenta di fuggire prima di cadere vittima dell’epidemia.
Sono andato a vedere questo film aspettandomi molto poco, grazie alla pacata stroncatura di Ohdaesu. Sarà forse per questo motivo, ma dopo la visione posso dire che E venne il giorno, che non è piaciuto quasi a nessuno, a me non ha fatto schifo.
Avrò forse una particolare sensibilità sull’argomento, ma a me l’autolesionismo fa orrore, e vedere delle persone intente ad autodistruggersi in modo efficiente e brutale sicuramente mi turba. E credo che sia indubbiamente un grosso merito di M. Night Shyamalan l’essere riuscito a destare orrore con elementi semplicissimi, come la camminata all’indietro che prelude all’insorgere della sindrome suicida, o come la scena degli operai che si lanciano dalle impalcature (un richiamo diretto all 11 settembre). Insomma, l’idea che sta alla base del film è semplice e geniale e, se il regista l’avesse accompagnata con uno svolgimento altrettanto solido, avrebbe prodotto un capolavoro.
Qui vengono le dolenti note. Perché Shyamalan, pur avendo avuto il buon gusto di non tirarla troppo in lungo (il film dura un’ora e mezzo), mette a dura prova la pazienza dello spettatore, con delle cose che non si capisce se siano vezzi autoriali malintesi o errori che nemmeno un regista alle prime armi commetterebbe. Cominciamo col dire che la scelta degli attori protagonisti, Mark Wahlberg (che ha me non ha mai detto nulla) e Zooey Deschanel (che in questo film ha perennemente l’aspetto di una lepre di fronte ai fari di un’auto) non è quella che si dice esaltante. Aggiungiamo che i due devono mettere in scena uno dei clichè più triti della storia del cinema, quello della coppia-in-crisi-che ritrova-l’armonia-di-fronte-alle avversità. Concludiamo dicendo che i dialoghi spesso sono totalmente insensati, al punto da rasentare il teatro dell’assurdo, e capirete perché questo film sembra avere decisamente qualcosa che non va. L’impressione finale è che Shyamalan volesse dire qualcosa di preciso, ma questo qualcosa risulta incomprensibile, e ne emerge solo un generico millenarismo antiscientifico e misticheggiante. Alcune scene (un esempio tra tutte: il suicidio della ragazza cui si assiste via telefono cellulare) sono letteralmente buttate via, risultano così finte e poco realistiche da non causare alcuna emozione nello spettatore, se non un senso di straniamento.
Eppure non posso nascondervi che E venne il giorno è riuscito a emozionarmi comunque. Io dico spesso che è meglio assistere a un fallimento interessante che a un successo scontato. A me fa piacere che esista un regista come Shyamalan che gira un horror in cui a fare spavento è il modo di camminare delle persone invece che un effetto speciale in computer graphics. E per questo sono disposto a perdonargli molto, anche se alcune cose di questo film sono davvero imperdonabili.

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Film: Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo

Indiana Jones e il Regno del Teschio di CristalloSiamo nei primi anni ’50. Indiana Jones si ritrova coinvolto nel tentativo di alcuni agenti del KGB per sottrarre alcuni reperti di sospetta origine aliena custoditi a Roswell, ma riesce a cavarsela. Dopodiché incontra un ragazzo che gli porta una lettera di un amico, il professor Oxley. Pare che costui abbia scoperto un antico teschio di cristallo che i conquistadores avrebbero sottratto nientemeno che da El Dorado. Una leggenda dice che chi riporterà indietro il teschio acquisterà un enorme potere. Ma Oxley e la madre del ragazzo sono sono scomparsi. Inevitabile che Indy si lanci alla ricerca del teschio, per poi scoprire che anche i russi sono interessati alla cosa…
C’è un momento in cui Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo dà l’impressione di essere un film in grado di dire qualcosa di nuovo sul personaggio di Indy. Ed è poco dopo l’inizio, quando si ritrova in un villaggio popolato di manichini e destinato a essere spazzato via da un’esplosione atomica sperimentale. Una scena inquietante, degna dello Spielberg migliore, e  che dà lo spunto per costringere Indy a emigrare, vittima della caccia alle streghe e della paranoia anticomunista. Poteva essere l’inizio di un film del tutto diverso da quelli della trilogia precedente. Purtroppo si scopre che questo prologo ha due solo funzioni: far capire allo spettatore che siano negli anni ’50 e non più nei ’30, e permettere a Spielberg di salvarsi l’anima facendo vedere che, anche se i "cattivi" russi sono caricaturali e monodimensionali come se il film fosse stato davvero girato sessant’anni fa, il regista è consapevole che anche gli USA non erano esenti da pecche. Dopodiché, "been there, done that": dei maccartisti non si parla più, e il film si impegna a rifare pedissequamente I Predatori dell’Arca Perduta, sostituendone ogni scena con un’altra equivalente.
Dal punto di vista tecnico, gli riesce pure bene. Spielberg non ha perso la mano, e riesce a rifare se stesso con maestria; sono innumerevoli i piccoli colpi di genio che lo distinguono da tanti imitatori e mestieranti. Il problema, purtroppo, è la sceneggiatura. E non è difficile sospettare che buona parte della colpa sia di George Lucas, autore del soggetto e notoriamente incapace da tempo di scrivere qualcosa che vada oltre l’età mentale di un dodicenne. In generale la sceneggiatura ha il difetto di tutte quelle che sono state riscritte troppe volte, e cioè è troppo affollata di spunti, di cui nessuno sviluppato adeguatamente.
Il risultato fa acqua da tutte le parti. Il personaggio di Mac, che continua ad alternare il ruolo di amico e antagonista di Indy, dovrebbe essere motore di drammi e colpi di scena, ma invece i suoi cambi di bandiera appaiono risibili, e in definitiva non ce ne frega niente di lui. Va un po’ meglio Mutt, il ragazzo, e in effetti il suo rapporto con Indy potrebbe diventare il punto di forza del film, ma poi, a mano a mano che la trama si affolla di personaggi, ci si dimentica di lui, e nel finale non gli viene lasciato alcun ruolo. Cate Blanchett nel ruolo della "cattiva" è molto brava, ma la sceneggiatura non offre al suo personaggio alcuna possibilità di sviluppo.
Ma il difetto più grave è che manca completamente il senso del rischio e del pericolo. Nel primo film, lo spettatore soffriva e si spaventava insieme a Indy. Qui l’archeologo-avventuriero se la cava sempre senza sforzo, con scene che superano in modo così plateale il confine dell’inverosimiglianza da interrompere brutalmente la sospensione dell’incredulità. Gli stessi personaggi ne sembrano consapevoli, e abbiamo persino una scena in cui la madre di Mutt, vedendo il figlio in una situazione di estremo pericolo, invece di gridare terrorizzata assiste tranquilla, come se sapesse benissimo che nulla di grave può succedere. Dopo un po’ tutto diventa meno emozionante di un videogioco, e altrettanto ripetitivo. Quando poi il film si conclude, rimane una quantità mostruosa di misteri non risolti e di dilemmi non spiegati.
Conclusione: grande spettacolo, ma dello Spielberg che sapeva emozionare, oltre che divertire, non è rimasta quasi traccia.

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