Lo Hobbit – un viaggio inaspettato

Bilbo Baggins è uno hobbit, che vive felice e tranquillo nella sua casa nella Contea. La sua vita viene sconvolta quando un suo conoscente, lo stregone Gandalf, lo obbliga a ospitare tredici nani vagabondi, che progettano di invadere la tana di un drago per recuperare il tesoro dei loro antenati. Non si sa bene come, Bilbo finisce per aggregarsi alla compagnia in qualità di scassinatore. E lì cominciano i suoi guai…

Chiunque abbia letto Lo Hobbit di J. R. R. Tolkien si è probabilmente chiesto come sia possibile che un agile romanzetto destinato principalmente ai bambini si sia trasformato, nelle mani di Peter Jackson, in un trilogia di film di almeno nove ore complessive di durata. La risposta è che Peter e le sue sceneggiatrici non si sono limitati a tradurre in film la trama del romanzo, ma ci hanno inserito anche altre trame che provengono invece dalle appendici del Signore degli Anelli, dal Silmarillion e da altri scritti di Tolkien, in modo da ricollegarsi alla precedente trilogia cinematografica e spiegare in dettaglio tutti gli eventi accaduti in precedenza.
Motivo? “Operazione commerciale”, sento dire qualcuno, e indubbiamente questo è in parte vero. Tuttavia, prima di buttare la croce addosso a Jackson, va detto che Lo hobbit è un romanzo che narrativamente ha molto poco senso. Tolkien lo scrisse perché il suo editore gli aveva chiesto di scrivere un libro per bambini, e lui eseguì prendendo una fetta della colossale mitologia che stava concependo, e tagliando via tutti i passaggi troppo complicati. Il risultato è molto divertente e appassionante, ma anche piuttosto confuso. Per esempio, a un certo punto del libro Gandalf ha un impegno e scompare, per poi riapparire molto più avanti senza spiegare il motivo della sua assenza (gli esperti sanno che è stato a Dol Guldur, dove ha scoperto la vera identità del Negromante, ha parlato con Thrain prigioniero e ha scoperto l’esistenza dell’Anello del Potere, ma questo nel libro non c’è). Bilbo incontra Gollum e gli ruba l’Anello, ma non viene spiegato chi sia, e tantomeno quale sia l’origine dell’oggetto. Il “cattivo” del romanzo viene ucciso da un tizio mai visto prima. E così via. Insomma, non è stata poi una cattiva idea aggiungere un po’ di roba per ricavarne una storia un po’ più sensata.
Va anche detto che, mentre in Il signore degli anelli c’era pochissimo spazio per l’invenzione, data l’enorme quantità di materiale di cui tenere conto, qui Jackson, Walsh e Boyens (con Guillermo Del Toro, che sarebbe dovuto essere il regista) hanno potuto aggiungere del loro, con ottimi risultati. Sono riusciti a caratterizzare molto bene i nani, che hanno tutti personalità differenti e riconoscibili nonostante siano in tredici (in definitiva meglio che nel romanzo di Tolkien, dove sono una massa un po’ indifferenziata). E hanno trasferito con successo nel film un po’ di quell’estetica del gioco di ruolo che ha preso spunto da Tolkien per diventare un mondo a sé stante. Guardate per esempio il nano Dwalin, col cranio tatuato e la doppia ascia: sembra uscito direttamente da Warhammer, e proviene perciò non dall’immaginario tolkieniano, ma da quello degli innumerevoli fan che sui romanzi di Tolkien hanno ricamato, facendoli propri. Cosa che a me non dispiace affatto.
Soprattutto, gli autori si sono presi la libertà di mettere sotto i riflettori Radagast il bruno, personaggio molto minore del Signore degli anelli che era stato escluso dalla trilogia precedente, e al quale invece viene affidato qui un ruolo piuttosto importante. A partire dai pochi cenni dati da Tolkien, gli autori hanno creato qui un personaggio molto ben caratterizzato. Anche questo può essere visto come una concessione all’estetica del gioco di ruolo, in cui spesso sono proprio i personaggi minori a poter essere riplasmati per nuove avventure. Non so se Tolkien avrebbe apprezzato il Radagast di Jackson che viaggia per i boschi su una slitta trainata da enormi conigli, ma a me è piaciuto.
Per il resto, i pregi e i difetti del film sono sostanzialmente gli stessi della trilogia precedente. Tra i pregi metto la capacità di gestire il complicato universo tolkieniano rimanendogli fedele, e soprattutto il casting. Credo che la scelta di mettere Martin Freeman nella parte di Bilbo sia stata geniale, dato che mette in luce le affinità con il personaggio del dottor Watson che interpreta nella serie televisiva Sherlock: ambedue sono persone coraggiose ma tranquille, che sono messe a dura prova dal confronto con dei compagni completamente fuori di testa. (Nei prossimi film arriverà anche Benedict Cumberbatch, alias Sherlock Holmes, nella doppia parte del Negromante e del drago Smaug).
Tra i difetti metto, anche qui come nella serie precedente, un’enfasi un po’ eccessiva sulle scene di combattimento rispetto al resto, e poi alcuni particolari cambiati senza motivo e in modo peggiorativo, che risaltano molto proprio perché il contesto generale è quello di una grande fedeltà. Ho trovato sensato che l’orco Azog e suo figlio Bolg siano stati unificati in un unico personaggio, ma mi ha infastidito tantissimo che sia stato cambiato l’episodio dei tre troll Guglielmo, Berto e Maso. È la mia scena preferita del romanzo, si faceva riferimento ad essa anche nella trilogia precedente, e non vedevo l’ora di vederla (*). Arrivati al dunque, vedo che i nani, invece che essere catturati con l’astuzia uno ad uno, mettono in piedi una battaglia, e poi si arrendono quando i troll minacciano di uccidere Bilbo. È vero che non è molto logico che i nani si lascino ingannare dagli stupidissimi troll, come avviene nel libro, però che si arrendano (con la prospettiva di finire arrostiti subito dopo) ha ancora meno senso. Inoltre il trucco con cui il gruppo riessce a salvarsi, invece che essere portato avanti da Gandalf, diventa in gran parte opera di Bilbo. Questo può avere senso in quanto gli autori volevano mostrare Bilbo che gradatamente conquista la fiducia dei nani, però rimango ugualmente insoddisfatto: volevo vedere Gandalf che imita le voci dei troll!
Dal punto di vista visivo, non posso unirmi alle tante critiche verso l’uso della tecnologia a 48 fps: non ho notato particolari irregolarità nei movimenti, mentre ho trovato il film molto più luminoso rispetto a quanto siamo abituati. È la prima volta che guardo un film in 3D senza avere una sensazione di oscurità.
Semmai, l’uso del 3D fa sì che, a parte le scene d’azione appositamente concepite, il film appaia parecchio più statico dei precedenti, per la difficoltà di muovere la macchina.
In ogni caso, il giudizio finale è che guardando il film mi sono divertito non poco. Jackson è riuscito a mettere insieme il consueto mix di umorismo, azione ed epicità, e se avete apprezzato la trilogia precedente, se avete amato il romanzo o se vi piacciono i giochi di ruolo, non rimarrete delusi. Non è nulla di nuovo rispetto al Signore degli Anelli, ma nemmeno lo fa rimpiangere. E mi sono piaciute le libertà che Jackson si è preso nel manipolare l’universo tolkieniano. Direi che può bastare.
 
(*) In realtà ero convinto di ricordare alla perfezione questa scena, ma nei commenti mi hanno fatto notare che non era così. Ho quindi corretto il post.

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In memoria – Riccardo Valla

Riccardo Valla
Riccardo Valla (a destra) con Vittorio Catani. Foto: © Marco Passarello

Mi spiace dover proseguire il nuovo corso di questo blog con un’altra commemorazione, ma ieri ci ha lasciato improvvisamente Riccardo Valla, uno dei più noti e stimati traduttori italiani di fantascienza.

Riccardo era molto attivo nell’ambiente dei fan, e ho avuto la fortuna di incontrarlo in svariate occasioni. Era una persona di straordinaria cultura, e anche un esempio raro (soprattutto in Italia!) di intellettuale in grado di trattare con la stessa disinvoltura argomenti scientifici e umanistici, dalla relatività all’opera lirica, dalla meccanica quantistica alla poesia.

Per questo motivo gli venivano spesso affidati autori scientificamente “difficili” come Greg Egan, ma il numero di romanzi di fantascienza che ha tradotto in più di quarant’anni di carriera è sterminato (e non solo di fantascienza: si è occupato di molti altri libri, tra cui il famigerato Il codice Da Vinci, del quale realizzò anche una parodia intitolata Il coccige Da Vinci) e copre ogni sfumatura del genere.

La sua traduzione che preferisco in assoluto è quella di Cyberiade di Stanislaw Lem, che mi pare uno dei più perfetti esempi di come il traduttore possa mettersi al servizio di un autore per valorizzarlo (nonostante Riccardo abbia lavorato con l’intermediazione dell’inglese!). Un capolavoro in cui la sua doppia sensibilità, umanistica e scientifica, viene valorizzata appieno.

Negli ultimi anni Riccardo aveva frequentato molto meno i raduni dei fan, facendoci un po’ preoccupare per la sua salute, ma ultimamente sembrava stesse benissimo, tanto che solo l’altro ieri ci aveva invitato tutti ad andarlo a trovare a Torino per mangiare una pizza e visitare la mostra dedicata a Urania. Purtroppo il giorno dopo un infarto lo ha stroncato all’improvviso. Ci ha lasciato un altro degli uomini che incarnavano fisicamente la fantascienza in Italia.

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In memoria: Gerry Anderson

Non posso riprendere in mano questo blog senza commemorare la scomparsa di Gerry Anderson, avvenuta un paio di settimane fa. Anderson è stato un produttore televisivo che ha avuto una parte importantissima nello scolpire il mio immaginario.

Gerry Anderson con i suoi modellini

Insieme alla moglie Sylvia, Anderson ha prodotto per la televisione britannica un gran numero di serie fantascientifiche per ragazzi. Erano realizzate con un sistema che aveva battezzato Supermarionation, che utilizzava, al posto degli attori, marionette comandate elettricamente, con un particolare circuito elettrico che sincronizzava automaticamente il movimento delle labbra col parlato degli attori. Le marionette non erano particolarmente realistiche, specialmente a causa del loro innaturale testone, necessario per ospitare i meccanismi. Le parti che mi piacevano di più erano quelle in cui si vedevano all’opera i veicoli, le cui animazioni erano invece molto credibili. Si vedeva benissimo che erano stati pensati non solo per fare scena, ma per essere tecnicamente realistici.
La mia preferita di queste serie era Stingray, che raccontava le avventure di un sottomarino impegnato nella lotta contro una razza di esseri subacquei. Il bello della serie era il realismo delle storie, che non solo descrivevano correttamente i pericoli delle immersioni, come l’embolia, ma avevano un protagonista conteso tra due donne, una cosa abbastanza insolita in un telefilm per ragazzi!
Il sottomarino Stingray

Mi piaceva molto anche Joe 90, il cui protagonista era un ragazzino che, grazie a un macchinario inventato dal padre, assimilava conoscenze di ogni tipo e diventava un agente segreto: praticamente la summa delle mie fantasie di bambino. Per qualche ragione, invece, non mi è mai capitato di vedere Thunderbirds, la serie animata più popolare di Anderson.

Il mio primo incontro con l’immaginario di Anderson, però, avvenne con la prima serie con attori da lui realizzata: UFO. Fu trasmessa in Italia per la prima volta nel periodo 1971-74, quando avevo appena cominciato ad andare a scuola, e avevo nei suoi confronti un atteggiamento ambivalente: da un lato ero assolutamente affascinato dai suoi veicoli, dall’altro le atmosfere cupe e violente della serie mi spaventavano, e gli alieni (umanoidi che indossavano tute spaziali piene di liquido verde, e i cui occhi apparivano senza iride a causa delle lenti a contatto protettive che erano costretti a indossare) mi terrorizzavano!

Solo col tempo sono riuscito a superare la paura, e a guardare gli episodi senza fuggire via dal televisore. Da ragazzino mi appassionavano più che altro i veicoli, come i cingolati SHADOmobile, l’aereo da caccia Sky One lanciato da un sottomarino, e soprattutto gli intercettori, che partivano dalla Luna per abbattere le astronavi aliene prima che arrivassero sulla Terra. Mio cugino possedeva i fantastici modellini Dinky Toys in metallo pressofuso dei veicoli della serie, che lanciavano davvero i missili, e ho passato un enorme quantità di tempo a giocarci, anche se il divertimento maggiore era indossare un casco spaziale di plastica, urlare “Intercettori 1 e 2, lancio immediato!”, e buttarsi in velocità sotto il letto matrimoniale di mia nonna, fingendo che fosse il tunnel-scivolo che i piloti usavano al momento del lancio.

Un intercettore della serie "UFO"

Di recente ho riguardato la serie in DVD, e devo dire che dopo quarant’anni regge ancora piuttosto bene, con personaggi spigolosi e trame per nulla scontate (il mio episodio preferito è Questione di priorità, in cui il capitano Foster si perde sulla Luna insieme all’alieno che ha appena abbattuto, e tra i due si crea un’alleanza per sopravvivere, con un finale tragico). La colonna sonora di Barry Gray (che ha accompagnato Anderson per tutta la sua carriera) è ottima, e non dimentichiamo le splendide ragazze che costituivano il personale di Base Luna, vestite di tutine attillate e di parrucche viola (cosa che ho scoperto solo in seguito, visto che all’epoca la TV italiana era in bianco e nero!). Credo che la loro comandante, il tenente Ellis, abbia contribuito non poco a scolpire il mio nascente immaginario erotico (scopro solo ora che l’attrice che la interpretava è la sorella maggiore di Nick Drake).
Quella sventola del tenente Ellis di Base Luna

La serie cui sono più affezionato in assoluto, però, è Space: 1999, progettata inizialmente come seguito di UFO e poi invece realizzata come serie autonoma. Anche questa serie (che narrava della vita su una base lunare dopo che un incidente ha spinto la Luna fuori dalla sua orbita) aveva atmosfere molto cupe, ma alla guerra contro gli alieni si sostituiva il mistero dello spazio e della sua immensità e incomprensibilità, una cosa che oggi si è quasi completamente perduta, ma che era alla base del fascino che aveva per me allora la fantascienza.
Vista oggi, devo dire, la serie ha i suoi problemi, sia di scarso realismo scientifico, sia di eccesso di verbosità (anche se ricordo che alcuni episodi avevano comunque terrorizzato noi ragazzini delle medie di allora). Ma, come in ogni serie di Anderson, i veicoli sono di un realismo assoluto. Credo che l’Aquila di Space: 1999 sia uno dei veicoli spaziali più belli di sempre, con i suoi motori posizionati al posto giusto e soprattutto con la sua costruzione modulare, una specie di impalcatura mobile al cui centro può esserci un modulo abitativo, una gru o qualunque altra cosa servisse alla trama. Sembrava veramente qualcosa che poteva essere realizzato di lì a poco. E, anche se il 1999 è passato da tempo, è rimasta in me la speranza di poter vedere prima o poi astronavi fatte così.
La migliore creatura di Anderson: l'"Aquila" di "Spazio 1999"

Esistono progetti per una versione modernizzata di Space:1999, che dovrebbe chiamarsi Space: 2099. Speriamo vadano in porto: sarebbe un bel tributo all’immaginario di Anderson. Che rimarrà sempre uno degli autori che più mi hanno fatto sognare.
 

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I miei articoli

I frequentatori di questo blog sanno ormai che si alternano periodi in cui lo aggiorno meno di quanto dovrei e periodi in cui non lo aggiorno affatto. Purtroppo il blog è sempre in competizione con altre attività, in particolare quelle che mi permettono di sopravvivere, e ci sono periodi in cui le energie per aggiornarlo proprio non ci sono.
In ogni caso eccomi di nuovo a voi, dopo uno iato di quasi quattro mesi. Non starò a farvi l’ennesimo elenco di buoni propositi che non manterrò: accontentatevi di sapere che nei prossimi giorni dovreste vedere il blog aggiornato con una certa frequenza, più in là non mi spingo.
Per l’occasione, annuncio di avere finalmente cominciato a realizzare una novità cui pensavo da parecchio tempo: una pagina che raccoglie parte degli articoli che ho scritto  per le varie testate per cui lavoro o ho lavorato.
Per il momento la pagina raccoglie solo gli articoli scritti per Nòva 24, ma nelle intenzioni dovrebbe espandersi rapidamente. La potete raggiungere tramite il menu sotto la testata, oppure da qui.

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