Il prefetto

Più riguardo a Il prefettoLa Fascia Splendente è una colonia umana dove vivono cento milioni di persone, suddivise in diecimila habitat orbitanti intorno a Epsilon Eridani. Ogni habitat ha un proprio sistema politico, ma le decisioni che riguardano la Fascia nel suo insieme vengono prese democraticamente in rete da tutti i cittadini. A vigilare sul rispetto della democrazia e contro le minacce esterne c’è il corpo dei prefetti, la cui giurisdizione è sottoposta a regole rigidissime ma che sono gli unici ad avere il potere di esercitare la forza.
Quando uno dei più piccoli habitat viene distrutto con tutti i suoi 960 abitanti, e la colpa sembra ricadere sugli Ultra, la comunità di cyborg che si occupa dei viaggi interstellari, il prefetto supremo Aumonier decide di affidare l’indagine, politicamente delicatissima, al suo protetto Dreyfus. I due sono legati dall’aver subito entrambi delle ferite durante la lotta contro l’intelligenza artificiale assassina nota come l’Orologiaio. Dreyfus ha perso la moglie, mentre Aumonier si ritrova tuttora con un artefatto piantato nel collo, che da 11 anni le impedisce di dormire e minaccia di ucciderla se chiunque si avvicinerà a meno di sette metri da lei.
Ma nessuno dei due sa che dai risultati dell’indagine dipenderà la sopravvivenza dell’intera Fascia Splendente…

Lo dico subito: erano anni che un romanzo di fantascienza non mi conquistava quanto Il prefetto. Mi ha avvinto fin dalle prime pagine e mi ha tenuto fino alla fine senza un momento di noia e insoddisfazione.
Ritengo che nel romanzo di genere moderno il problema più importante che un autore deve affrontare sia la somministrazione dell’informazione: come e quando si passano dati al lettore. Da questo punto di vista, Il prefetto è semplicemente da manuale: gestisce alla perfezione la trama apparente che vivono i protagonisti, la trama nascosta che devono scoprire, e la trama del passato che sembra messa lì solo per fare background, e invece diventa sempre più importante col procedere della storia. Il tutto senza mai dare informazioni fuori contesto, senza che le azioni dei personaggi perdano una logica, e soprattutto senza mai far calare la tensione, procedendo con un grosso colpo di scena a capitolo per 700 pagine, senza mai far calare il ritmo, con un mix perfettamente equilibrato tra azione, mistero, politica e introspezione. Da applauso.
Non si tratta di un romanzo costruito intorno a concetti scientifici, come potrebbe essere uno di Greg Egan o di Ted Chiang: la struttura della trama è quella di una tradizionale investigazione, la cui posta in gioco è un’umanissima lotta per il potere. Nondimeno, si tratta di un’opera profondamente fantascientifica, nel cui contesto vengono trattati (senza fare lezioncine e senza pretesa di volerli esaurire o risolvere) temi interessanti come lo status di umanità delle intelligenze artificiali, i sistemi elettorali per una democrazia diretta in rete e molti altri, e vengono descritte varie tecnologie insolite e bizzarre. Il background di Reynolds, astrofisico prima di diventare scrittore, si vede nel modo in cui lascia correre la fantasia senza mai cadere nell’implausibile.
(Per vostra informazione: il romanzo è il quinto di una serie, detta Revelation Space dal nome dell’opera iniziale, anche se cronologicamente dovrebbe porsi prima di tutti gli altri. Non ho incontrato però alcuna difficoltà a seguirlo, e credo che ogni opera del ciclo sia leggibile a sé.)
Se dovessi fare un paragone, direi che questo romanzo mi ha dato le stesse sensazioni del capolavoro di Dan Simmons, Hyperion: ci ho trovato la stessa vertigine di complessità che gradatamente si ricompone in un’immagine coerente, e la stessa solidità nel rappresentare una società futura completamente diversa dalla nostra eppure profondamente umana. Nel confronto Simmons vince probabilmente ai punti per avere osato ispirarsi alla struttura dei Racconti di Canterbury, mentre il meno ardito Reynolds prende spunto, semmai, da Il silenzio degli innocenti.
Ciò non toglie che Il prefetto sia di gran lunga tra i migliori è più avvincenti romanzi letti negli ultimi anni. A questo punto non vedo l’ora di leggere qualcos’altro di Alastair Reynolds. Mi giunge voce che molto probabilmente Urania pubblicherà il prossimo anno un altro suo romanzo. Sarebbe bello che arrivassero in Italia prima o poi tutti gli altri dodici che ha scritto…

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Elysium

La Terra è ormai un pianeta in decadenza, la cui popolazione è sfruttata e vessata: povertà, polizia opprimente, lavori insicuri, sanità insufficiente. Solo i superricchi se la passano bene, nella stazione orbitante di Elysium, dove vivono in grandi ville e hanno a disposizione macchine che guariscono qualunque malattia.
Max, scontata una condanna per furto d’auto, non cerca più di arricchirsi per pagarsi il viaggio verso Elysium, e vorrebbe solo condurre una vita tranquilla. Ma quando un incidente sul lavoro gli lascia solo pochi giorni da vivere, per lui raggiungere la stazione diventa letteralmente una questione di vita o di morte.

Esordire con un film originale e significativo come District 9 è probabilmente il sogno di ogni regista. Ma comporta anche il problema che, qualunque film farai dopo, ci si aspetterà che sia all’altezza del tuo folgorante debutto. Se Elysium fosse stato realizzato da un esordiente, senza attori famosi e con qualche soldo  in meno, saremmo qui a parlare di un promettente talento. Invece è firmato Neill Blomkamp, e dall’autore di District 9 ci aspettiamo non che faccia promesse, ma che le mantenga. Cosa che non gli è riuscita del tutto.
L’idea alla base del film non è delle più originali: il tema dei ricchi che si costruiscono un rifugio paradisiaco mentre il resto del mondo precipita verso la barbarie è stato declinato dalla letteratura e del cinema in svariate versioni: (la prima che mi viene in mente: il film Zardoz di John Boorman; ma sappiate che anche la trama del romanzo Più che umani di Paolo Lo Giudice, finalista più di una volta al Premio Urania ma purtroppo mai arrivato alla pubblicazione, ha diversi punti di contatto con quella di Elysium). Ma si può fare un buon film anche partendo da dei clichè.  E nella prima parte di Elysium Blomkamp fa un ottimo lavoro nel descrivere una società in cui sovrappopolazione, scarsità di risorse, inquinamento, capitalismo sfrenato e uno stato di polizia dagli onnipresenti controlli informatici collaborano per rendere difficile la vita delle persone.
Il mondo dei ricchi è rappresentato in modo meno dettagliato, ed è una delle pecche del film. Va detto però che il design della stazione spaziale è veramente spettacolare: rivisita il modello a ruota di 2001: Odissea nello Spazio, ma in modo più ardito (è senza soffitto, dato che l’atmosfera è tenuta al suo posto dalla gravità artificiale¹), e desta nello spettatore (perlomeno quello sensibile al fascino dei viaggi spaziali) una meraviglia che è raro incontrare nei film di oggi.
Fino a metà il film è di qualità superiore: un ritmo invidiabile, un’atmosfera fantascientifica ben costruita, e anche un divertente cattivo un po’ fuori dagli schemi (interpretato dal protagonista di District 9, Sharlto Copley), e culmina con una lunga scena di combattimento davvero ben diretta ed efficace.
Nella seconda parte, però, il film si ammoscia completamente. In gran parte a causa di una sceneggiatura pasticciata, che tratta le questioni informatiche con un semplicismo e un’approssimazione non giustificabili nell’era di Internet. Per esempio, perché salvare un file nel cervello di una persona e non su una comune memoria? (D’accordo, lo facevano in Johnny Mnemonic, ma era per mantenere la segretezza, qui sembra una cosa scontata.) Perché ci si sorprende che un file segreto sia criptato? Perché da un certo punto in poi il file risulta leggibile, nonostante nessuno lo abbia decrittato? A che serve una protezione che uccide chi trasporta il file, ma lo lascia leggibile? Ma soprattutto: possibile che basti hackerare un computer per consegnare permanentemente il potere a qualcuno?
Tra tanta confusione, il film si sbarazza in fretta e furia del personaggio di Jodie Foster senza dargli una possibilità di svilupparsi, abbandona i temi politici, e si trasforma in un action movie risolto con il più banale inseguimento con scazzottata finale. Va aggiunto che la vicenda è racchiusa in una cornice ambientata quando il protagonista era ancora un bambino, che vorrebbe dare profondità al personaggio e fornire un appiglio per giustificare la sua redenzione finale, ma risulta sdolcinata e superflua.
In definitiva, il film resta vedibile, grazie all’ottima regia di Blomkamp che ne fa comunque un’altra cosa rispetto ai tanti e malriusciti film di fantascienza di medio budget che abbiamo visto in questi anni (Looper, Codice 46, Il mondo dei replicanti… e così via). Ma è comunque ben lontano dall’essere memorabile.
 
¹A onor del vero ho qualche dubbio che un sistema del genere non lascerebbe sfuggire presto tutta l’aria, ma sorvoliamo.

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Monsters University

Monsters University
 

Come è cominciata l’amicizia tra Mike e Sulley, i due mostri protagonisti di Monsters & Co.? A quanto pare, già all’università, dove Mike si reca entusiasta, pronto a impegnarsi al massimo per realizzare il suo sogno di diventare uno spaventatore di professione. Il suo primo incontro con il futuro amico non è dei più felici, dal momento che il giovane Sulley è un fannullone che pensa di non aver bisogno di studiare, dato che la sua famiglia e il suo aspetto gli apriranno comunque tutte le porte. Dovranno succedere parecchie cose perché l’amicizia tra i due nasca davvero…

Monsters University è stato accolto dai più come un film divertente ma poco interessante, un altro segno della “normalizzazione” di Pixar che, dopo aver prodotto una quantità notevole di capolavori, avrebbe tirato i remi in barca in occasione della fusione con Disney, sacrificando la creatività a favore degli incassi.  Maldisposto dalla visione del pasticciato e deludente Brave stavo quasi per prendere per buono questo giudizio e non andare neppure a vederlo. Ma avrei fatto male, perché invece si tratta di un film davvero molto riuscito, che nel curriculum della grande casa d’animazione non sfigura affatto.
Intendiamoci, Monsters University non è un Up o un Wall-E, e forse nemmeno un Ratatouille: non è un film che tenta di essere in qualche modo innovativo. Però non sta scritto da nessuna parte che un film per essere bello debba per forza essere innovativo. E Monsters University è un bel film proprio perché riesce a essere efficace pur muovendosi in un territorio collaudato.
La grafica è splendida. Pixar ci ha abituato così bene che non ci meravigliamo più, ma questo film mi pare aver segnato un ulteriore progresso, con enormi ambienti occupati da masse di personaggi in movimento tutti diversi tra loro, perfettamente illuminati. Anche gli esseri umani sono animati in modo perfettamente credibile  (abissale la distanza coi bambolotti del primo Toy Story). Ma soprattutto, è eccezionale la cura e la fantasia con cui è stato animato ogni mostro: ce ne sono decine, e anche i personaggi assolutamente minori hanno una personalità e un aspetto caratteristico che si ricorda. E Sulley manifesta talmente tante espressioni ed emozioni nel film che bisognerebbe dargli l’Oscar.
Più che nel film originale, in questo caso la regia è riuscita a inserire nel film qualche tocco horror, più che opportuno, visto che in fondo è di mostri che si parla. Non solo il personaggio dell’Orrendo Rettore Tritamarmo è genuinamente inquietante, ma anche le scene ambientate nel mondo degli umani fanno paura. In particolare, uno dei momenti più alti del film è la scena in cui Mike si trova intrappolato in una stanza piena di bambini che non hanno paura di lui, con un rovesciamento di ruoli da capogiro tra mostro e vittime. (Ultimamente Pixar, da Brave a Toy Story 3, sta dimostrando un’abilità nelle scene horror che sarebbe bellissimo vedere applicata a un intero film, ma temo sia chiedere troppo.)
Quello che mi ha però conquistato è la sceneggiatura, che oserei definire perfetta. Il film non ha mai un attimo di stanca, e riesce non solo a essere divertente dal principio alla fine, ma anche ad avvincere con una storia non banale e che nel finale riserva parecchi colpi di scena. Paradossalmente Monsters University è una commedia studentesca molto migliore di quelle che vorrebbe parodiare, e ha il considerevole pregio di offrire anche una morale molto più realistica di quella offerta in modo martellante da tutto il cinema hollywoodiano. Non è vero che basta impegnarsi a sufficienza per ottenere qualunque risultato: nel film Mike diventa adulto proprio quando viene a patti con la realtà, riconosce di essere un mostro più buffo che spaventoso, e riesce a vivere con questa consapevolezza.
Pixar aveva già dimostrato con i tre Toy Story di essere in grado di sfornare seguiti dello stesso livello dell’originale, ma qui si va anche oltre. In definitiva Monsters & Co. è uno dei suoi film che ho amato meno, ho sempre pensato che non sfruttasse tutto il potenziale del tema. Cosa che invece fa Monsters university, che si rivela perciò migliore del suo modello.

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