I film che ho visto al Trieste Science+Fiction Festival

È tantissimo tempo che non scrivo su questo blog, e ho deciso, volendo ricominciare, valeva la pena di farlo con un long form. E quale migliore occasione della mia visita al Trieste Science+Fiction Festival?

Per la cronaca, ci sono andato non con lo spirito del critico ma del turista: ero lì per divertirmi e vedere amici, non sono rimasto per tutta la durata del festival e ho visto solo i film che mi era comodo vedere, senza fare una selezione ragionata. Nondimeno l’esperienza è stata molto positiva, e quindi ora vi racconto quello che ho visto.

I film che mi sono piaciuti molto:

Mars Express

di Jérémie Périn, Francia

Anno 2200, i robot sono molto diffusi, sia come entità autonome sia come “sostituti”per umani che non dispongono più del proprio corpo. I robot sono incapaci di fare del male agli esseri umani, ma ci sono attivisti che praticano su di loro un jailbreaking per dare loro la totale libertà, cosa che ha provocato rivolte e un’atmosfera di sospetto e ostilità. Aline è una detective della città di Noctis su Marte, cui viene chiesto di indagare sulla sparizione di una studentessa. Mentre i cadaveri si accumulano, gradatamente l’indagine porta alla luce un complotto che coinvolge l’intera popolazione robotica.

Mars Express ha fatto man bassa: ha vinto il premio Asteroide assegnato ai film di registi emergenti, il premio della critica, il premio della trasmissione Wonderland; in pratica, quasi tutto quello che poteva vincere. Meritatamente, perché da tanto tempo non mi capitava di rimanere tanto coinvolto da un film di fantascienza (e parlo in generale, non solo di film di animazione).

La cifra di Mars Express è l’essenzialità: uno stile di animazione che non ricerca gli effetti fini a se stessi ma si mette al servizio della storia. Una storia intricata e nera degna dei migliori polar francesi, con personaggi pieni di ombre che possono vivere momenti di travolgente umorismo ma un attimo dopo finiscono ammazzati senza che ci si soffermi un secondo a compiangerli. Una vicenda complessa e coerente, che ci lancia senza spiegazioni in un mondo alieno come solo la migliore fantascienza sa fare, e che solo negli ultimi dieci minuti si concede di volare alto uscendo dai bassifondi ed evocando scenari grandiosi.

Ho trovato la sceneggiatura di Mars Express molto più convincente di quella di molti recenti blockbuster hollywoodiani. Spero tanto che possa trovare una distribuzione in Italia.

La guerra del Tiburtino III

di Luna Gualano, Italia

Una popolazione aliena, piccoli vermi in grado di penetrare attraverso le narici nel cervello degli esseri umani prendendo il controllo delle loro azioni, sta invadendo il pianeta Terra cominciando dal quartiere Tiburtino III di Roma. A scoprire gli invasori e a mettere i bastoni tra le ruote del loro piano di conquista sarà un’improbabile squadra formata da un piccolo spacciatore, un suo squinternato amico, la sua barista di fiducia e una influencer modaiola capitata nel quartiere in cerca di visibilità.

Il cinema italiano non sta vivendo il suo momento migliore, ma per fortuna ogni tanto capita ancora di incontrare un film italiano fatto bene, e capita sempre più spesso che sia un film di genere. È sicuramente il caso di questa commedia fantascientifica in salsa romana, che ho iniziato a guardare senza aspettarmi nulla e che ho trovato davvero simpatica e divertente.

La guerra del Tiburtino III mi è piaciuto per come riesce a prendere sul serio la sua bizzarra trama. Se l’idea iniziale è demenziale e i suoi sviluppi pure, nondimeno i personaggi sono credibili e ben cesellati, con grande cura dei dettagli e senza eccessi o sbavature, e la storia viene portata avanti rimanendo coerente con le sue assurde premesse (ed è proprio questo che la rende così divertente). Non mancano gli spunti di satira politica e di costume, azzeccati ma senza mai prendere il sopravvento sulla trama (ed è un bene).

Se il film funziona così bene è anche merito di un casting molto azzeccato, con tutti gli attori perfettamente in parte. Chi ha amato Boris sarà felice di ritrovare alcuni interpreti della serie: se Francesco Pannofino si limita a una comparsata, troviamo Carolina Crescentini nella parte della madre del protagonista, ma soprattutto Paolo “Biascica” Calabrese, azzeccatissimo come regina aliena incarnata in un borgataro romano, che rigurgita uova dalla bocca intonando maledizioni sprezzanti nei confronti dei “mammiferi”. Impagabile.

La guerra del Tiburtino III merita di arrivare al grande pubblico, spero che i distributori trovino il coraggio di proporlo fuori dalle porte di Roma.

Gli altri film che ho visto in questa edizione:

Creep box

di Patrick Biesemans, USA

Una tecnologia innovativa permette di ricreare temporaneamente la personalità di persone defunte, che possono esprimersi a voce attraverso quelli che vengono definiti “sussurri”. Il dottor Caul ne è il principale esperto, ma deve affrontare numerosi problemi: le dubbie implicazioni etiche, i finanziatori che spingono sull’aspetto commerciale trascurando quello scientifico, e il desiderio di usare lui stesso i sussurri per comunicare con la moglie morta suicida.

Creep Box nasce dall’acclamato cortometraggio con lo stesso titolo uscito l’anno precedente, che nei suoi primi minuti riproduce molto da vicino (con alcuni attori cambiati). Ma, se il corto era estremamente efficace, la trasformazione in lungometraggio non è riuscita alla perfezione.

Il film riesce piuttosto bene a creare un’atmosfera di suspense, con l’evocazione delle personalità dei defunti che sembra la versione ipertecnologica di una seduta spiritica (con parole chiave scandite a mò di formule magiche per favorire la connessione), e mette sul tavolo una serie di problematiche interessanti: le voci sono solo simulazioni, o sono veramente persone? Quanto ci si può fidare di quello che dicono? Fa davvero bene ai loro cari poterci parlare? Grazie anche alla solida interpretazione del protagonista Geoffrey Cantor nei panni del cupo e tormentato professor Caul, si rimane catturati dalla storia nonostante l’assenza di scene d’azione o effetti speciali. Purtroppo però il regista non sa sfruttare adeguatamente l’ottimo materiale, e cade nel finale, dove tutto si fa confuso e non si risponde ad alcuna delle domande poste. Peccato.

Pandemonium

Di Quarxx, Francia

Dopo un incidente stradale, Nathan scopre di essere morto e destinato all’Inferno. In attesa di sapere quale sarà la sua pena, assiste alle storie di altri dannati: una bambina che ha sterminato l’intera famiglia, e una madre che ha causato il suicidio della figlia ignorando le sue richieste di aiuto.

Mi riesce difficile emettere un giudizio su questo film, perché da ogni scena emerge chiaramente una interessante personalità di autore, e tuttavia non mi è del tutto chiaro dove il regista volesse andare a parare.

Il prologo di Pandemonium è forse la sua parte migliore: il dialogo tra i due personaggi appena morti e che gradatamente si rendono conto di dover andare uno all’Inferno e l’altro in Paradiso (ma ci sarà una sorpresa) ha i toni di un efficacissima commedia nera. L’episodio dedicato alla bambina assassina ha invece la forma di una farsa gotica e inquietante (con una protagonista tredicenne di eccezionale bravura), mentre il successivo, con la madre che per tutto il tempo continua a parlare al cadavere della figlia senza voler accettare il suo suicidio, è di un’angoscia davvero lancinante. Nel finale si ritorna al Nathan della parte iniziale, con un ulteriore sorpresa: il diavolo a cui è stato affidato se lo lascia scappare, e viene spedito sulla Terra per riprenderselo. Potrebbe essere l’inizio di un film bizzarro e divertente, ma invece arrivano i titoli di coda.

Nel presentare il film, Quarxx ha dichiarato che la sua intenzione iniziale era di girare nove episodi, uno per ciascun girone dell’Inferno, e di essere stato dissuaso dalle difficoltà tecniche dell’impresa. Forse se davvero avesse girato più episodi sarebbe più facile dare un senso al film, mentre così la totale diversità delle tre storie presentate rende difficoltoso tirare le somme. Forse il tema potrebbe essere quello della negazione: tutti i personaggi del film in qualche modo non accettano la propria dannazione. Nathan contesta che il proprio peccato meriti l’Inferno, la bambina attribuisce i propri delitti a un immaginario mostro-servitore che fa impiccare al proprio posto, mentre la madre non vuole vedere il suicidio della figlia. A questa negazione fa da contraltare una logica spietata: nonostante nessuno dei personaggi ci sembri davvero meritare l’Inferno (anche la malvagità della bambina è quella inconsapevole di chi non sa valutare la gravità dei propri atti), tutti vengono dannati. Meritiamo tutti l’Inferno, sembra dire il regista, e non lo vogliamo vedere.

A Million Days

di Mitch Jenkins, UK

Con la Terra devastata dal cambiamento climatico, l’umanità affida le sue speranze a un’astronave costruita per fondare una colonia sulla Luna. Tuttavia un esame delle simulazioni condotte da un’intelligenza artificiale fa sorgere il sospetto che quest’ultima stia manipolando la missione per fini ignoti, mentre emergono collegamenti con un incidente che ha causato la morte di un’astronauta cinque anni prima…

A Million Days inizia con alcune scene ambientate in orbita, facendo pensare a un’avventura spaziale, ma è solo un contentino dato allo spettatore: tutto il resto del film ha un impianto strettamente teatrale, un lungo dialogo tra personaggi in cui gli eventi vengono solo evocati senza mai essere mostrati. Un impianto di questo tipo per reggersi avrebbe bisogno di una logica ferrea, mentre purtroppo la trama imbastita dagli sceneggiatori è piena di vaghezze e approssimazioni. Il cambiamento climatico evocato in apertura non è che un macguffin, dato che gli scopi della missione salvifica non vengono mai definiti con precisione. L’idea di fondo (un’intelligenza artificiale che si ribella ai suoi creatori per meglio perseguire gli obiettivi che le sono stati affidati) non è certamente nuova, risale perlomeno a 2001: Odissea nello spazio, più di mezzo secolo fa! La sceneggiatura cerca di accumulare colpi di scena attribuendo sempre nuove mirabolanti capacità all’intelligenza artificiale, ma in questo modo rende sempre più difficile la sospensione dell’incredulità: se può fare tutte queste cose, non si capisce perché abbia dovuto ricorrere a un piano così contorto per ottenere quello che vuole.

In conclusione, un film che mantiene molto meno di quello che promette.

Herd

di Steven Pierce, USA

Una coppia lesbica in crisi cerca di ritrovare la concordia attraverso una settimana di campeggio, ignara che nella zona è scoppiata un’epidemia che trasforma le persone in mostri aggressivi. Ma forse ancora più pericolose dell’epidemia sono le milizie armate che si sono formate per combatterla, ignorando gli appelli alla calma del governo statunitense.

Herd si potrebbe definire un film di zombie revisionista. Sì, perché, anche se quelli mostrati dal film si chiamano “hep” e il regista non vorrebbe fossero chiamati zombie, è inutile negare l’evidenza: siamo di fronte a un film di zombie che mette in scena tutti i cliché del genere, anche se poi ne capovolge il senso: a mano a mano si scopre infatti che gli zombie non sono poi così pericolosi, e che la vera minaccia sono invece le bande armate che sorgono per rimediare alla supposta inerzia del governo, e che finiscono per incrementare la violenza combattendosi tra loro. È trasparente l’atto d’accusa contro l’America rurale, insofferente di ogni regola e autorità e pronta a usare la violenza contro ogni diverso, che siano zombie od omosessuali.

Va sicuramente elogiato il tentativo di rinnovare un genere ormai abusato applicandogli un nuovo sottotesto politico. Detto questo, però, il film non convince del tutto: il messaggio risulta troppo trasparente e a volte eccessivamente retorico, mentre per il resto la regia non si distacca dalla routine del genere. Sufficiente ma niente di più.

The Moon

di Kim Yong-Hwa, Corea del Sud

Non posso in buona fede recensire questo film perché ne ho visto solo un terzo, e poi sono uscito dalla sala per andare alla presentazione di un libro. Posso dire che quello che ho visto non mi ha entusiasmato: il solito film con l’astronauta perduto nello spazio, solo in salsa coreana. Abbiamo già dato.

Bonus: i film dell’anno scorso

Al Trieste Science + Fiction Festival sono andato anche l’anno scorso, a presentare Fanta-Scienza 2, e nell’occasione sono riuscito a vedere un paio di film, che avrei voluto recensire qui ma non ho trovato il tempo. Quindi li recupero ora!

LOLA

di Andrew Legge, U.K.

Negli anni ’30 due geniali sorelle orfane che vivono sole in una villa nella campagna britannica inventano una macchina in grado di captare le trasmissioni televisive del futuro. Per un po’ si limitano ad ammirare le popstar come David Bowie ma, quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale, non resistono alla tentazione di usare la macchina per scoprire in anticipo dove cadranno le bombe tedesche. Le conseguenze saranno dirompenti.

Davvero un piccolo capolavoro questo film che si è meritato il premio Méliès d’argent (riservato ai lungometraggi di produzione europea) e anche il premio di Wonderland. Essendo passato un anno dalla sua uscita potete addirittura guardarvelo a costo zero su RaiPlay, e vi consiglio caldamente di farlo!

Il merito di LOLA non è nell’idea in sé, che in fondo è una classica storia di paradossi temporali affine a tante altre viste in precedenza. Quello per cui si distingue è sono lo stile e il rigore con cui la mette in scena. LOLA è interamente realizzato con la tecnica del found footage, come se fosse stato girato (in un magnifico bianco e nero) con una cinepresa dell’epoca per documentare eventi reali (e il motivo per cui questo filmato è presente nel nostro universo verrà spiegato nel finale).

Con due interpreti bravissime e carismatiche che si rubano la scena a vicenda, il film riesce a porre importanti domande sul senso della nostra presenza nella storia, senza mai cessare di essere avvincente. Per me il migliore dei film che ho visto a Trieste.

The Breach

di Rodrigo Gudiño, Canada

Quando un cadavere con inspiegabili ferite e deformità viene trovato sulle rive di un lago, lo sceriffo locale non può esimersi dall’andare a ispezionare il luogo da cui sembra provenire, in un’area praticamente disabitata. Lo accompagnano un amico e l’ex fidanzata.

Può essere che agli appassionati di horror questo film dica qualcosa, ma io l’ho trovato davvero pessimo. La trama di base è una delle più vecchie e scontate del genere (sappiamo fin da principio che nella casa sperduta in mezzo al nulla troveremo uno scienziato pazzo che ha oltrepassato limiti che l’uomo non dovrebbe valicare), e i tentativi di renderla interessante sono confusi e contraddittori, e hanno sempre meno senso a mano a mano che si procede. Non sembra esserci un sottotesto, a meno che non lo si voglia vedere nel personaggio interpretato dal chitarrista dei Rush, Alex Lifeson, che sembra l’evidente parodia di un complottista (però alla fine ha ragione lui, quindi… dove si va a parare?). Vedibile solo se ci si accontenta di un po’ di avventura e suspense senza altro dietro.

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Dune

So bene che in questo momento chiunque sta dicendo la sua sul Dune di Denis Villeneuve (anzi, molti non parlano d’altro da mesi e mesi, con effetto sinceramente stucchevole), ma proprio per questo non voglio evitare di esprimermi. Sarò breve, anche perché ritengo non sia possibile dare un giudizio su quello che, anche se molto lungo, è comunque solo un mezzo film: la storia si interrompe a metà, e vedremo la conclusione solo se il regista avrà modo di girare la seconda parte.

Mi sono divertito? Direi proprio di sì. Il Dune di Villeneuve è una trasposizione fedele, efficace e spettacolare della prima metà del romanzo di Herbert. Il cast funziona alla perfezione (con una lode particolare alla lady Jessica di Rebecca Ferguson). I dialoghi sono sobri e con gli inevitabili infodump inseriti semza disturbare troppo. I costumi sono fantasiosi e appropriati. I veicoli bellissimi (ho apprezzato molto gli ornitotteri trasformati in convincenti libellule meccaniche). La rappresentazione digitale del pianeta Dune è coinvolgente (anche se la CGI a mio avviso non è sempre della migliore qualità possibile, troppe scene semibuie, qualche caso in cui le persone mi sono sembrate poco realistiche). Persino la colonna sonora di Hans Zimmer, autore che di solito non mi entusiasma, mi ha positivamente colpito. Sicuramente i fan dell’opera non rimarranno delusi.

Che cosa manca? È inevitabile che in una trasposizione vada perso qualcosa. Io ho percepito innanzitutto l’assenza di una spiegazione sul perché l’universo di Dune sia così: non c’è alcun accenno alla jihad che nel passato ha bandito ogni intelligenza artificiale, sostituita con trasformazioni dell’essere umano (che rendono così necessaria la spezia). Una persona che non abbia letto il libro, per esempio, non capisce che Thufir Hawat è un mentat, una specie di computer umano.

Ma soprattutto, quella che mi pare assente da questa prima metà del film è un’interpretazione. A mio avviso, perché un film tratto da un romanzo sia davvero grande, non è sufficiente che replichi l’opera originaria; l’autore dovrebbe anche metterci del suo, offrirci una sua lettura personale. Questo il Dune di David Lynch, con tutti i suoi problemi, lo faceva benissimo, mentre fatico a trarre una conclusione da quello di Villeneuve; che però, come detto, è un’opera incompiuta. Finché non vedremo il finale, non ha senso giudicarlo.

Quindi il giudizio è: promosso con riserva. Andatelo pure a vedere (come se aveste aspettato me per farlo…).

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Un ricordo di Ennio Morricone

Il mio primo incontro con Ennio Morricone per la verità non fu molto positivo. Dovevo avere otto o nove anni. Mio padre (piuttosto incoscientemente ma, immagino, erano altri tempi) mi portò al cinema sotto casa a vedere “C’era una volta il West”, pensando così di compiacere la mia passione per i western.

Quando arrivò la prima scena dei ricordi di Armonica, ne fui letteralmente terrorizzato e dovettero portarmi via dal cinema. Per anni conservai un ricordo vago della scena che mi aveva spaventato: una figura umana a colori falsati, immersa nella musica, una musica così drammatica da farmi presagire che qualcosa di terribile, irreparabile sarebbe accaduto.

La grande musica ha questo potere, di trasmettere emozioni senza filtro.

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Motherless Brooklyn

Mi aspettavo molto da questo adattamento di uno dei noir più originali che siano mai stati scritti, Motherless Brooklyn di Jonathan Lethem, ma devo dire di essere rimasto discretamente deluso: il film di Edward Norton mantiene solo una vaga parentela con l’originale, e ne attenua o elimina tutti i tratti di originalità, ottenendo un noir di discreta fattura ma derivativo e di poca sostanza.

Per cominciare, Norton ne ha retrodatato l’ambientazione, passando dal 1999 al 1957, perché secondo lui “sullo schermo personaggi che agiscono come investigatori anni ’50 nella Brooklyn anni ’90 sarebbero sembrati troppo ironici”. Spariscono così due caratteristiche salienti del romanzo: l’ironia autoconsapevole e i riferimenti culturali anni ’90. Al loro posto abbiamo delle curatissime ambientazioni d’epoca e una polemica politica sulla gentrificazione di New York, roba sicuramente bella e interessante ma che con l’originale non ha nulla a che vedere.

Ma il punto principale è il modo in cui viene trattata la sindrome di Tourette del protagonista Lionel. Nel romanzo, in fin dei conti, la trama noir è un fatto secondario, un macguffin: la cosa importante è che vediamo le cose dal punto di vista di una persona che ha enormi difficoltà a rapportarsi col mondo, assistiamo alla sua lotta con se stesso che trapela da ogni frase. Anche nel film Lionel soffre di sindrome di Tourette (o almeno lo si presume, perché non viene mai nominata, anche perché nel 1957 era quasi sconosciuta), ma lo capiamo solo dai suoi tic: la voce interiore con cui commenta una gran parte delle scene è invece quella di una persona del tutto normale. In questo modo la condizione di Lionel cessa di essere il fulcro della storia per diventare solo un dettaglio insolito e buffo; ed è il maggiore tradimento che si poteva infliggere al libro.

Per il resto, la trama è completamente diversa: per inserire i suoi riferimenti alla politica degli anni ’50, Norton ha cambiato tutto, ha cancellato vari personaggi e li ha sostituiti con altri. La trama regge pure, ma ha una somiglianza un po’ troppo forte con quella di un classico come Chinatown di Polansky, e finisce in modo poco memorabile, con un happy ending contorto e tirato per i capelli.

Certo, se non si considera che si tratta di un adattamento, rimane un film discreto, con splendidi interni ed esterni d’epoca, un cast stellare (oltre a Edward Norton, ci sono Bruce Willis, Alec Baldwin, Willem Dafoe, Bobby Cannavale, Edward Kenneth Williams…) e un protagonista insolito. Ma resta un’occasione perduta.

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Ghostbusters

Ghostbusters
Come si fa un remake perché sia soddisfacente? Probabilmente ognuno ha una risposta diversa a questa domanda (e ho sentito più di una persona sostenere che un remake non è mai soddisfacente). Da parte mia, penso che un remake riuscito sia quello sufficientemente fedele al vecchio film da conservarne in qualche modo lo spirito e l’identità, e sufficientemente infedele perché vedendolo si abbia l’impressione che ci sia qualcosa di valido in più. Purtroppo il remake di Ghostbusters si ferma a metà strada, riproponendo in modo simpatico gli stilemi dell’originale ma senza riuscire ad aggiungere qualcosa di nuovo e diverso che sia anche interessante.
Negli USA il film è stato preceduto da una vergognosa campagna d’odio sessista in opposizione alla scelta di un cast tutto al femminile, considerata un tradimento del film originale. Ma in realtà quella di invertire il genere dei personaggi (peraltro rimasti caratterialmente molto vicini a quelli del 1984) non era affatto una cattiva idea, così come potenzialmente buoni sono gli altri cambiamenti apportati alla trama del film. Per esempio l’aggiunta del segretario tutto muscoli e niente cervello Kevin, interpretato da un Chris Hemsworth tanto a suo agio nell’autoparodia da rubare la scena alle protagoniste. O anche l’avere attribuito l’origine dell’invasione di fantasmi ai rancori di un povero frustrato in cerca di vendetta sul mondo, un tema che, in quest’epoca di attentati, avrebbe anche potuto donare al film una certa profondità.
Il problema è però nella sceneggiatura del regista Paul Feig, che sembra assumere come pubblico di riferimento lo spettatore che fa zapping casuale, e perciò costruisce il film come una sequenza di sketch, passando da uno spunto all’altro senza averne sviluppato a dovere alcuno e, quel che è peggio, senza mai prendere una direzione precisa.
Il film del 1984 ha avuto tanto successo perché rappresenta la perfetta fantasia nerd: un gruppo di maschi che parlano un gergo astruso e sono appassionati di strane tecnologie cerca di farsi notare, inizialmente non viene preso sul serio, ma poi salva il mondo e ottiene la gloria e le ragazze. Nel volgerlo al femminile si poteva scegliere se raccontare esattamente la stessa storia a ruoli invertiti, o se invece sottolineare le differenze che il cambio di genere comporta. Il film però non fa né l’una né l’altra cosa. Non mi viene in mente neppure una scena in cui l’essere donne delle protagoniste crei loro qualche difficoltà. Tuttavia svanisce la questione dei rapporti con l’altro sesso: tre delle quattro protagoniste sembrano asessuate, e l’interesse per gli uomini si riduce alle smanie di Erin per il segretario Kevin, annunciate a gran voce ma mai messe in pratica. Insomma, il potenziale dell’idea va sostanzialmente sprecato, probabilmente in omaggio all’etica del “film per famiglie” (dove invece l’originale voleva proprio stuzzicare la sessualità nerd, con scene come quella in cui Sigourney Weaver posseduta dal demone chiede a Bill Murray “Vuoi tu questo corpo?”).
Anche il rapporto con il sindaco, il cui segretario nel film originale era l’avversario principale e il bersaglio di un’esplicita aggressività (“Sì, è vero, sì: quest’uomo non ha le palle!”), qui è ambiguo e inconcludente. Forse nell’America post 11 settembre non è più concesso farsi beffe dell’autorità e sottintendere che non sia in grado di proteggere i cittadini. Sta di fatto che Feig tenta di dipingere il sindaco Andy Garcia contemporaneamente come un avversario e un alleato, col risultato di annoiare. Quanto al nuovo avversario introdotto, lo sfigato che cerca vendetta ponendosi a capo di un’orda di fantasmi, avrebbe avuto un potenziale enorme se il regista avesse sfruttato la misoginia del personaggio per creare un contrasto vero con le eroine. Ma anche qui tutto si risolve con una battutina (“Sparate come ragazze”).
Servite così male dalla sceneggiatura, le pur brave protagoniste (Melissa McCarthy, Kristen Wiig, Kate McKinnon e Leslie Jones, quasi tutte veterane del Saturday Night Live, proprio come gli attori originali) si ritrovano ad annaspare, strappando talvolta il sorriso ma senza le battute fulminanti che ci sarebbero volute. Con questo non voglio dire che il film sia un disastro. Al contrario, la sua notevole durata (116 minuti, parecchio per una commedia) è trascorsa piacevolmente. Merito in parte degli effetti speciali, davvero spettacolari (io li ho trovati persino troppo realistici, e ho pensato che il me stesso bambino si sarebbe spaventato; ma accanto a me c’era Aurora, di quattro anni, che ha continuato imperterrita a sgranocchiare i suoi popcorn, quindi forse i bambini di oggi sono più difficili da terrorizzare). E merito soprattutto della sceneggiatura originale di Ivan Reitman, Dan Aykroyd e Harold Ramis, che anche così rimaneggiata resta comunque esemplare nel mescolare fantascienza, horror e commedia. Alla fine, se lo si prende per quello che è, e cioè un tentativo senza grandi ambizioni di riciclare una storia di successo, il nuovo Ghostbusters si lascia vedere, ed è sicuramente meglio del pessimo seguito girato nel 1989, Ghostbusters II. Se vi può bastare…

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Interstellar

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Cooper è un ex astronauta, che si è ridotto a fare l’agricoltore in un mondo messo in ginocchio da un’epidemia sconosciuta che decima i raccolti provocando tempeste di polvere. Finché non gli arriva in modo misterioso la possibilità di partecipare a una missione che andrà a cercare una possibilità di salvezza al di fuori del Sistema Solare…

Uno dei motivi che mi fanno amare il nuovo film di Christopher Nolan, Interstellar, è che è un vero film di fantascienza. Ossia: non un’avventura ambientata in uno pseudofuturo rutilante ma in fondo modellato sul passato, bensì una storia davvero incentrata sul rapporto tra l’uomo, la scienza e l’ignoto. Nell’incipit del film si respira davvero un’atmosfera da vecchia fantascienza (anche se poi la vicenda prende un taglio molto più moderno, e mi ha ricordato i romanzi di M. John Harrison).
Di Interstellar mi sono piaciute molte cose. In primo luogo la costruzione, complessa e articolata, piena di sorprese, in grado di tenere interessato lo spettatore per le quasi tre ore di durata, e che dipana con arditi parallelismi vicende lontane nello spazio e nel tempo ma destinate a intrecciarsi. Mi è piaciuto il modo in cui Nolan riesce a far capire la realtà del futuro senza entrare nei dettagli ma con poche scene efficaci (la caccia al drone, la discussione con la maestra). Ho apprezzato come ripropone in modo credibile ma innovativo topoi come l’astronave e soprattutto i robot (dall’aspetto totalmente disumano, ma simpatici, affidabili e rassicuranti: l’esatto opposto di come li vorrebbe il cliché). Ho ammirato il modo in cui è riuscito a visualizzare in modo convincente e comprensibile una realtà con più di tre dimensioni.
E mi pare che si possa dire che abbia raggiunto il suo scopo, che sembra essere quello di fare un film alla 2001: Odissea nello spazio (di cui ricalca in modo fedelissimo la struttura: messaggio da un’entità sconosciuta, lungo viaggio, incidente dovuto a contrasti sullo scopo ultimo della missione, uscita dal mondo e rinascita) rimanendo però comprensibile per lo spettatore medio.
Con tanti pregi, si può dire che è un capolavoro? Purtroppo no, a mio avviso. Perché Nolan, dopo aver messo in piedi una struttura grandiosa, per qualche motivo non riesce a mantenere il rigore di sceneggiatura che ha avuto in Memento o The Prestige (due altri suoi film che affrontano, in modi diversi, lo stesso tema: il mistero della nostra esistenza nel Tempo). Procede così a corrente alternata, con momenti entusiasmanti che convivono con dialoghi dimenticabili e scontati (la tirata sull’Amore, che banalizza un messaggio che il film sa esprimere con ben altra forza solo per immagini, oltretutto mettendola in bocca a una donna, per calcare sullo stereotipo) o carenze e incongruenze di sceneggiatura (il fatto che tutti siano convinti di aver ricevuto un aiuto da misteriosi alieni, ma nessuno si preoccupi di investigare; o il protagonista che dopo 30 anni di inattività viene immediatamente posto al comando di una missione perché nessuno è più esperto di lui, ma poi continua a fare domande come se non sapesse nulla di astrofisica). E anche con qualche aspetto scientifico poco convincente, che stona particolarmente in un film che in generale rappresenta scienza e tecnologia in modo credibile e realistico (ma su questo, per non annoiarvi, farò un post a parte).
Interstellar è un film ambizioso (persino troppo), originale, interessante, intenso. E nonostante questo un po’ irritante, perché sarebbe potuto essere anche migliore. Comunque da vedere.

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Elysium

La Terra è ormai un pianeta in decadenza, la cui popolazione è sfruttata e vessata: povertà, polizia opprimente, lavori insicuri, sanità insufficiente. Solo i superricchi se la passano bene, nella stazione orbitante di Elysium, dove vivono in grandi ville e hanno a disposizione macchine che guariscono qualunque malattia.
Max, scontata una condanna per furto d’auto, non cerca più di arricchirsi per pagarsi il viaggio verso Elysium, e vorrebbe solo condurre una vita tranquilla. Ma quando un incidente sul lavoro gli lascia solo pochi giorni da vivere, per lui raggiungere la stazione diventa letteralmente una questione di vita o di morte.

Esordire con un film originale e significativo come District 9 è probabilmente il sogno di ogni regista. Ma comporta anche il problema che, qualunque film farai dopo, ci si aspetterà che sia all’altezza del tuo folgorante debutto. Se Elysium fosse stato realizzato da un esordiente, senza attori famosi e con qualche soldo  in meno, saremmo qui a parlare di un promettente talento. Invece è firmato Neill Blomkamp, e dall’autore di District 9 ci aspettiamo non che faccia promesse, ma che le mantenga. Cosa che non gli è riuscita del tutto.
L’idea alla base del film non è delle più originali: il tema dei ricchi che si costruiscono un rifugio paradisiaco mentre il resto del mondo precipita verso la barbarie è stato declinato dalla letteratura e del cinema in svariate versioni: (la prima che mi viene in mente: il film Zardoz di John Boorman; ma sappiate che anche la trama del romanzo Più che umani di Paolo Lo Giudice, finalista più di una volta al Premio Urania ma purtroppo mai arrivato alla pubblicazione, ha diversi punti di contatto con quella di Elysium). Ma si può fare un buon film anche partendo da dei clichè.  E nella prima parte di Elysium Blomkamp fa un ottimo lavoro nel descrivere una società in cui sovrappopolazione, scarsità di risorse, inquinamento, capitalismo sfrenato e uno stato di polizia dagli onnipresenti controlli informatici collaborano per rendere difficile la vita delle persone.
Il mondo dei ricchi è rappresentato in modo meno dettagliato, ed è una delle pecche del film. Va detto però che il design della stazione spaziale è veramente spettacolare: rivisita il modello a ruota di 2001: Odissea nello Spazio, ma in modo più ardito (è senza soffitto, dato che l’atmosfera è tenuta al suo posto dalla gravità artificiale¹), e desta nello spettatore (perlomeno quello sensibile al fascino dei viaggi spaziali) una meraviglia che è raro incontrare nei film di oggi.
Fino a metà il film è di qualità superiore: un ritmo invidiabile, un’atmosfera fantascientifica ben costruita, e anche un divertente cattivo un po’ fuori dagli schemi (interpretato dal protagonista di District 9, Sharlto Copley), e culmina con una lunga scena di combattimento davvero ben diretta ed efficace.
Nella seconda parte, però, il film si ammoscia completamente. In gran parte a causa di una sceneggiatura pasticciata, che tratta le questioni informatiche con un semplicismo e un’approssimazione non giustificabili nell’era di Internet. Per esempio, perché salvare un file nel cervello di una persona e non su una comune memoria? (D’accordo, lo facevano in Johnny Mnemonic, ma era per mantenere la segretezza, qui sembra una cosa scontata.) Perché ci si sorprende che un file segreto sia criptato? Perché da un certo punto in poi il file risulta leggibile, nonostante nessuno lo abbia decrittato? A che serve una protezione che uccide chi trasporta il file, ma lo lascia leggibile? Ma soprattutto: possibile che basti hackerare un computer per consegnare permanentemente il potere a qualcuno?
Tra tanta confusione, il film si sbarazza in fretta e furia del personaggio di Jodie Foster senza dargli una possibilità di svilupparsi, abbandona i temi politici, e si trasforma in un action movie risolto con il più banale inseguimento con scazzottata finale. Va aggiunto che la vicenda è racchiusa in una cornice ambientata quando il protagonista era ancora un bambino, che vorrebbe dare profondità al personaggio e fornire un appiglio per giustificare la sua redenzione finale, ma risulta sdolcinata e superflua.
In definitiva, il film resta vedibile, grazie all’ottima regia di Blomkamp che ne fa comunque un’altra cosa rispetto ai tanti e malriusciti film di fantascienza di medio budget che abbiamo visto in questi anni (Looper, Codice 46, Il mondo dei replicanti… e così via). Ma è comunque ben lontano dall’essere memorabile.
 
¹A onor del vero ho qualche dubbio che un sistema del genere non lascerebbe sfuggire presto tutta l’aria, ma sorvoliamo.

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Monsters University

Monsters University
 

Come è cominciata l’amicizia tra Mike e Sulley, i due mostri protagonisti di Monsters & Co.? A quanto pare, già all’università, dove Mike si reca entusiasta, pronto a impegnarsi al massimo per realizzare il suo sogno di diventare uno spaventatore di professione. Il suo primo incontro con il futuro amico non è dei più felici, dal momento che il giovane Sulley è un fannullone che pensa di non aver bisogno di studiare, dato che la sua famiglia e il suo aspetto gli apriranno comunque tutte le porte. Dovranno succedere parecchie cose perché l’amicizia tra i due nasca davvero…

Monsters University è stato accolto dai più come un film divertente ma poco interessante, un altro segno della “normalizzazione” di Pixar che, dopo aver prodotto una quantità notevole di capolavori, avrebbe tirato i remi in barca in occasione della fusione con Disney, sacrificando la creatività a favore degli incassi.  Maldisposto dalla visione del pasticciato e deludente Brave stavo quasi per prendere per buono questo giudizio e non andare neppure a vederlo. Ma avrei fatto male, perché invece si tratta di un film davvero molto riuscito, che nel curriculum della grande casa d’animazione non sfigura affatto.
Intendiamoci, Monsters University non è un Up o un Wall-E, e forse nemmeno un Ratatouille: non è un film che tenta di essere in qualche modo innovativo. Però non sta scritto da nessuna parte che un film per essere bello debba per forza essere innovativo. E Monsters University è un bel film proprio perché riesce a essere efficace pur muovendosi in un territorio collaudato.
La grafica è splendida. Pixar ci ha abituato così bene che non ci meravigliamo più, ma questo film mi pare aver segnato un ulteriore progresso, con enormi ambienti occupati da masse di personaggi in movimento tutti diversi tra loro, perfettamente illuminati. Anche gli esseri umani sono animati in modo perfettamente credibile  (abissale la distanza coi bambolotti del primo Toy Story). Ma soprattutto, è eccezionale la cura e la fantasia con cui è stato animato ogni mostro: ce ne sono decine, e anche i personaggi assolutamente minori hanno una personalità e un aspetto caratteristico che si ricorda. E Sulley manifesta talmente tante espressioni ed emozioni nel film che bisognerebbe dargli l’Oscar.
Più che nel film originale, in questo caso la regia è riuscita a inserire nel film qualche tocco horror, più che opportuno, visto che in fondo è di mostri che si parla. Non solo il personaggio dell’Orrendo Rettore Tritamarmo è genuinamente inquietante, ma anche le scene ambientate nel mondo degli umani fanno paura. In particolare, uno dei momenti più alti del film è la scena in cui Mike si trova intrappolato in una stanza piena di bambini che non hanno paura di lui, con un rovesciamento di ruoli da capogiro tra mostro e vittime. (Ultimamente Pixar, da Brave a Toy Story 3, sta dimostrando un’abilità nelle scene horror che sarebbe bellissimo vedere applicata a un intero film, ma temo sia chiedere troppo.)
Quello che mi ha però conquistato è la sceneggiatura, che oserei definire perfetta. Il film non ha mai un attimo di stanca, e riesce non solo a essere divertente dal principio alla fine, ma anche ad avvincere con una storia non banale e che nel finale riserva parecchi colpi di scena. Paradossalmente Monsters University è una commedia studentesca molto migliore di quelle che vorrebbe parodiare, e ha il considerevole pregio di offrire anche una morale molto più realistica di quella offerta in modo martellante da tutto il cinema hollywoodiano. Non è vero che basta impegnarsi a sufficienza per ottenere qualunque risultato: nel film Mike diventa adulto proprio quando viene a patti con la realtà, riconosce di essere un mostro più buffo che spaventoso, e riesce a vivere con questa consapevolezza.
Pixar aveva già dimostrato con i tre Toy Story di essere in grado di sfornare seguiti dello stesso livello dell’originale, ma qui si va anche oltre. In definitiva Monsters & Co. è uno dei suoi film che ho amato meno, ho sempre pensato che non sfruttasse tutto il potenziale del tema. Cosa che invece fa Monsters university, che si rivela perciò migliore del suo modello.

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Pacific Rim

Nel prossimo futuro, una breccia si apre sul fondo dell’Oceano e cominciano a uscirne enormi mostri alieni asssetati di distruzione. Per contrastarli vengono costruiti gli Jaeger, colossali robot da combattimento. I mostri però diventano sempre più forti e, mentre gli esseri umani fuggono dalle coste, gli ultimi robot si riuniscono a Hong Kong per tentare una disperata resistenza…

Per questo film esistono due possibili recensioni:
Recensione per chi vuole vedere un film di robottoni che si picchiano coi mostri spaziali:
Chiunque sia stato ragazzino negli anni ’80 stava aspettando da oltre trent’anni che arrivasse un film spettacolare e ben fatto coi robot giganti giapponesi accanto ad attori veri. Ebbene, l’attesa è finita. Guillermo Del Toro vi ha preparato un film interamente dedicato ai robottoni.
E quando dico interamente, parlo sul serio: in questo film non vi dovete sorbire insipide storie d’amore, melensi conflitti familiari, o tutta quella roba che nei film tratti dai supereroi Marvel passa per “approfondimento del personaggio” (ma in realtà è fuffa per riempire gli spazi tra un combattimento e l’altro). Qui ci sono solo combattimenti e preparazione ai combattimenti. E stop.
E i combattimenti, inutile dirlo, sono fatti benissimo. Se siete disposti a credere che il modo migliore di affrontare un mostro colossale non sia quello di bombardarlo, bensì di costruire un robot alto centinaia di metri che lo prenda a cazzotti o usi una petroliera come clava per picchiarlo, troverete le azioni estremamente realistiche, comprensibili e coinvolgenti, e i robot degni di tutta la tradizione dei mecha giapponesi.
Menzione speciale per le musiche di Ramin Djawadi, che riescono a rendere alla perfezione l’atmosfera da “colonna sonora di videogioco” senza mai risultare noiose o fastidiose.
Certo, il film qualche difetto ce l’ha. I personaggi sono quasi tutti integralmente stereotipati e, se non ci fossero i due scienziati pazzi e il contrabbandiere di “frattaglie di mostro” magistralmente interpretato da Ron Perlman a portare un po’ di divertimento, il film risulterebbe davvero greve. Inoltre, dal punto di vista della strategia militare, una puntata media di Gundam risulta più convincente di Pacific Rim, dove alcune delle cose che vengono dette non hanno senso, o sembrano supercazzole buttate lì solo per far succedere le cose. (Esempio: a un certo punto i mostri emettono qualcosa che sembra un impulso elettromagnetico, che spegne tutti gli Jaeger. Ma se possono fare una cosa del genere, perché non la rifanno poco dopo, quando sarebbe molto più utile? Ma soprattutto: uno dei robot non va fuori uso, e la spiegazione è che, mentre tutti gli altri robot sono “digitali”, questo è un vecchio modello e perciò è “analogico”. Mi spiegate perché mai un robot gigante costruito tra quarant’anni dovrebbe essere “analogico”, quaunque cosa significhi?)
Ma son piccole cose: se un film riesce a far applaudire la platea a scena aperta quando un robottone tira fuori la spada (è successo quando l’ho visto io), vuol dire che è sostanzialmente riuscito.
Recensione per chi vuol vedere un film di Guillermo del Toro, il regista di Il labirinto del fauno:
Qui cominciano le dolenti note. Se andate a vedere Pacific Rim perché siete fan di un regista che ha sempre mostrato di saper coniugare divertimento e profondità nel proprio cinema, cascate male. Perché questo film è bello da vedere, ma è decerebrato quanto quello di un qualsiasi mestierante hollywoodiano.
E sì che gli spunti non sarebbero mancati. A cominciare da questi mostri vomitati dal profondo della Terra che già nei film di Honda volevano esprimere la paura della contaminazione nucleare (e che qui invece non esprimono un bel niente).
Il problema purtroppo sono i personaggi, talmente monodimensionali che è impossible fargli dire qualcosa. Anche le migliori occasioni vanno sprecate: l’idea per cui i robot sono troppo grandi e complessi per un solo cervello umano, per cui vanno guidati da due uomini in reciproca simbiosi mentale, aveva il potenziale per generare infinite situazioni morbose, conflittuali o stranianti, ma non viene minimamente sfruttata.
In generale, la trama non presenta situazioni interessanti perché mancano avversari interessanti. Non c’è nessun vero conflitto tra gli esseri umani, e l’unico “cattivo” è un pilota che fa il bulletto senza una vera ragione. Mentre i mostri spaziali sono totalmente privi di personalità, e anche quando abbiamo l’occasione di guardare nel loro mondo e nei loro cervelli non scopriamo nulla di inquietante. Non fatemi dire che cosa avrebbe fatto Cronenberg di uno spunto del genere.
I temi politici sono poi del tutto assenti. A parte una frecciata nemmeno tanto convinta contro i politici inetti in generale, è difficile dare una qualsiasi interpretazione politica al tutto. Unica eccezione, la scena in cui la folla, avendo capito che il mostro sta cercando una persona in particolare, le fa il vuoto intorno: efficacissima, ma slegata da qualsiasi discorso.
Insomma, mi spiace deludervi, ma Del Toro ha fatto un film totalmente privo di contenuti. Certo, rispetto a Michael Bay il suo è un cinema molto più raffinato, pieno di riferimenti e citazioni, ed esteticamente molto più bello. Ma la piattezza intellettuale è quasi la stessa e, peccato mortale, non c’è nel suo film assolutamente nulla di spaventoso. È solo un giocattolo.
 
Concludo con alcune note:

  • Se vi state chiedendo che tipo di spettatore sia io, faccio parte della seconda categoria: nonostante infinite visioni di Goldrake, Il grande Mazinga, Jeeg robot d’acciaio , Danguard, Gaiking, Daitarn 3, Gundam e simili, speravo comunque in un film del Del Toro che conoscevo.
  • Non lasciate la sala prima di arrivare a metà dei titoli di coda! C’è una scena che merita.
  • Non ho visto il film in 3D: ho preferito vederlo sotto casa, anche se temo di essermi perso qualcosa.
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Viva la libertà

Il leader del principale partito italiano di centrosinistra, sfiduciato e contestato da più parti, decide di scomparire e si nasconde a Parigi a casa di una ex-fidanzata. Per evitare lo scandalo, il portaborse e la moglie lo sostituiscono con il fratello, un professore di filosofia sotto cure psichiatriche, che gli somiglia come una goccia d’acqua. Dovrebbe essere solo per qualche giorno, ma…

È impossibile non chiedersi cosa sarebbe successo se questo film fosse uscito con un anno di anticipo. La voce del pessimismo dice: probabilmente nulla. Però Viva la libertà fotografa con disarmante semplicità la crisi del PD che ha portato alla sua ennesima “non-vittoria”: il suo perdere contatto con i problemi e gli ideali dei propri elettori, confinandosi in schemi apparentemente realistici, ma in realtà autoreferenziali e perdenti.
L’idea della persona “normale” che sostituisce il potente e si rivela migliore di lui non è certo nuova (si veda per esempio I vestiti nuovi dell’imperatore), ma qui trova una declinazione migliore e a mio avviso più interessante. Il film, infatti, non cerca di sostenere che il buonsenso della persona comune o l’iconoclastia del folle possano ottenere risultati migliori dell’opera di un politico (tesi che sarebbe intrisa di falsa retorica, dello stesso tipo che ha portato al successo il M5S). Al contrario, il professore è una persona colta e preparata almeno quanto il politico che va a sostituire, e la sua follia si manifesta solo come totale mancanza di paura; quella paura che, viene detto esplicitamente, paralizza il politico e lo rende incapace di agire.
Il professore e il politico, quindi, non rappresentano due opposti. Al contrario, sono due varianti della stessa persona, le cui somiglianze vanno accentuandosi nel corso del film (i due, scopriamo, soffrono di disturbi simili, hanno amato e amano le stesse donne) fino al punto in cui non riusciamo più a distinguerli l’uno dall’altro. Ed è questo il messaggio più significativo del film: per riuscire non è richiesto un cambiamento radicale, basterebbe smettere di aver paura e di disprezzare le proprie radici.
Il film deve la sua riuscita innanzitutto a Toni Servillo, eccezionale nel suo recitare due personaggi identici mantenendoli chiaramente distinguibili con le sole espressioni facciali (e smettiamola di dire che è “il solito Toni Servillo”, che altri attori con la sua versatilità ce li sogniamo!). Ma anche Valerio Mastandrea funziona bene nella parte del portaborse che organizza il trucco per disperazione e finisce per rimanerne conquistato. Mi ha fatto poi un grande piacere ritrovare un novantatreenne ma ancora efficacissimo Gianrico Tedeschi, mentre purtroppo ho trovato la nota stonata nella monocorde Valeria Bruni Tedeschi.
Il regista Roberto Andò, autore anche del romanzo Il trono vuoto da cui è stato tratto il film, ha il merito di non pigiare inutilmente sul pedale del farsesco, e di mantenersi nei binari di una commedia garbata, con qualche puntata nel grottesco come il tango balllato di nascosto con la cancelliera tedesca. Anche i riferimenti alla politica “vera” sono sfumati e non giocano troppo sui facili riferimenti all’attualità (sebbene non sia difficile capire chi si nasconda dietro ai baffetti e agli occhialini dell’intrigante DeBellis).
Certo, qualche difetto il film ce l’ha. In particolare, molti personaggi sono poco approfonditi, e lasciano allo spettatore il compito di immaginare le ragioni che si nascondono dietro le loro azioni (facendosi sospettare che, se esplicitate, apparirebbero poco giustificate). Ma resta comunque una piacevole sorpresa: di film italiani così, con un’idea solida alla base, sceneggiatura e dialoghi solidi, e un buon cast internazionale, divertenti e accessibili ma senza essere vacui, vorrei vederne molti di più.

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