Libro: Harry Potter and the Deathly Hallows

Harry Potter and the Deathly HallowsAvvertenza: Niente paura: anche se ormai gli spoiler non si contano, in questa recensione farò in modo di rimanere sul vago e non svelare alcun dettaglio importante. Certo, se proprio volete rimanere a mente vergine al 100%, o se non avete letto nemmeno tutti i romanzi precedenti della serie, è meglio che non la leggiate comunque.

Ho avidamente letto l’ultimo volume della saga di Harry Potter, e credo di poter dire con sicurezza che J. K. Rowling è riuscita a dare una degna conclusione alla serie. Dirò di più: pur non essendo esente da difetti, Harry Potter and the Deathly Hallows è probablmente il suo libro più avvincente e uno dei meglio costruiti. L’autrice è riuscita nel difficile compito di creare un’opera profondamente diversa dalle sei precedenti, senza però snaturare l’atmosfera della serie. Ed è riuscita, compito ancora più difficile, a risultare sorprendente senza contraddire le aspettative dei lettori (e camminava su un terreno minato, perché gli indizi che rivelavano quanto sarebbe successo erano numerosi).
La principale differenza tra The Deathly Hallows e il resto della saga è che si svolge quasi del tutto fuori da Hogwarts. Niente più lezioni, partite di Quidditch o rivalità tra le Case, e nessun momento di tranquillità: Harry Potter è braccato, rischia la vita ogni minuto, e l’azione comincia dal primo capitolo per non fermarsi praticamente mai. E la lotta è all’ultimo sangue: se ciascuno dei tre libri precedenti era segnato da una morte importante, qui vediamo cadere oltre mezza dozzina di personaggi cui il lettore può essersi affezionato. Del romanzo per bambini non è rimasto quasi più nulla.
Anche dal punto di vista psicologico, il libro non è meno duro. Non solo Harry è sottoposto a pressioni tremende, ma si trova costretto a mettere in discussione alcuni dei legami più profondi della sua vita. Del resto, il giovane mago si trova privo della sua guida, Albus Dumbledore, morto in Harry Potter and the Half-Blood Prince. Ed è proprio Dumbledore il vero coprotagonista di The Deathly Hallows: analizzato retrospettivamente, perde la sua aura di infallibilità e diventa un personaggio umano con contraddizioni e manchevolezze, segnando così il definitivo passaggio di Harry all’età adulta.
La trama è straordinariamente complessa. Per distogliere l’attenzione del lettore da quegli elementi che solo in fondo al libro potevano essere svelati, la Rowling ha inserito abbastanza misteri da bastare per almeno due libri “normali” della serie. È comunque evidente come la saga sia stata progettata in modo completo fin dall’inizio: nella trama hanno una funzione essenziale indizi e personaggi minori che risalgono addirittura al primo libro. Se la vostra memoria non è buona, una rilettura integrale dell’intero sestetto precedente prima di affrontare quest’ultimo volume potrebbe essere consigliabile.
Il risultato: direi ottimo. The Deathly Hallows non annoia e non dà mai l’impressione (a differenza dei libri centrali della serie) che ci siano capitoli superflui. È terribilmente avvincente, e conclude la serie in modo soddisfacente, senza forzature e con un bel po’ di sorprese.
Difetti? Ovviamente ce ne sono. Alcuni condivisi con l’intera saga. La scrittura della Rowling tende sempre un po’ al barocchismo e alla lungaggine. Inoltre personalmente ho un’idiosincrasia per i duelli magici troppo lunghi, che non trovo molto convincenti, né qui né altrove.
Per quanto riguarda questo libro in particolare, bisogna dire che la prima metà del libro è un po’ estenuante: Harry Potter brancola nel buio, commette alcuni errori colossali, i dubbi e i misteri si accumulano senza mai uno spiraglio di luce, e tutto comincia a sembrare un po’ troppo cupo e disperato. Fortunatamente, le pagine successive rimettono le cose a posto. Ma, soprattutto, in The Deathly Hallows la Rowling ha sacrificato la completezza all’efficacia narrativa. Ci sono alcune lungaggini in meno, ma alcuni particolari appaiono un po’ “tirati via”. Per esempio, c’è un oggetto che scompare e poi riappare senza che venga spiegato bene come ciò sia possibile. Ma soprattutto, ci sono alcuni personaggi molto importanti che muoiono in battaglia, in qualche caso addirittura fuori scena, e vengono messi da parte in poche righe, lasciando una certa sensazione di “vuoto” narrativo. Probabilmente il libro sarebbe risultato troppo pesante con l’aggiunta di altri capitoli con morti eroiche e struggenti compianti, però anche questa soluzione lascia a desiderare. Inoltre i più frivoli tra i lettori rimarranno con la curiosità di sapere cosa ne è stato di alcune relazioni sentimentali che si potevano intuire nei libri precedenti, e del cui destino il libro finale non si occupa. Comunque sia, il maggiore difetto di The Deathly Hallows è che finisce ed è l’ultimo. Le belle storie hanno una fine, e questa ne ha una davvero degna, però si resta male al pensiero che il divertimento è finito.

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Concerto: Dusk e-B@nd + La Torre dell'Alchimista

Michele MuttiIl giorno prima del concerto dei Genesis di cui parlo nel post precedente, mi sono lasciato convincere dal Soloist ad andare al concerto di una cover-band, in modo da godermi un po’ dei brani del periodo Gabriel che sicuramente il gruppo originale non avrebbe eseguito. Mi sono così recato insieme a lui al Thunder Road di Codevilla (PV). L’arrivo è stato abbastanza deprimente: meno di trenta persone nel pubblico (c’è da chiedersi cosa spinga tanti ottimi musicisti a dedicarsi ancora al prog, se i risultati sono questi). Per giunta, niente birra alla spina, in quanto esaurita (di venerdì sera?!?!).

Il concerto è stato aperto da La Torre dell’Alchimista, che ha presentato il nuovo album Neo. La band si rivela una piacevolissima sorpresa. È raro che un concerto mi piaccia molto se non conosco i brani che vengono eseguiti, e questo vale in particolare per una musica complessa e non sempre orecchiabile come il prog. Ma i giovani bergamaschi della Torre mi hanno davvero fatto passare un piacevole inizio di serata. Merito soprattutto del tastierista Michele Mutti che, dotato di una strumentazione invidiabile (organo Hammond, Mellotron, Fender Rhodes, qualcosa che sembrava un MiniMoog o altro strumento equivalente, più tastiere digitali e computer) l’ha usata davvero al massimo delle possibilità, sostenuto da un’ottima sessione ritmica e da un cantante dalla voce limpida che riusciva a farsi sentire nonostante l’imponente sbarramento sonoro. Musica vecchio stile, certo, ma cos’ ben composta ed eseguita da non sembrare affato datata. Non altrimenti si può dire, ahimé, dei testi, il vero punto debole della band. Retorici, pesantemente metaforici, roba che sarebbre apparsa ingenua e fuori moda già trent’anni fa. Datevi una regolata, ragazzi!

A seguire, la Dusk e-B@nd, e qui sono cominciati i guai. Il gruppo arriva sul parco già in ritardo e comincia, tra la costernazione dei pochi presenti, a fare il soundcheck. Non ho modo di sapere se la copla del ritardo sia stata del locale o della band; certo che, per un concerto che si svolge in un locale a quasi un’ora di macchina da Milano, cominciare a suonare dopo mezzanotte non è il massimo. Per giunta, ci sono gravi problemi: il basso ha un problema di schermatura, ogni volta che interviene si sente un colossale ronzio che arriva a coprire gli altri strumenti, pasticciando irrimediabilmente il suono. Non si trova una soluzione, il gruppo comincia a suonare lo stesso, ma è sull’orlo di una crisi di nervi, e si vede. Data la situazione, viene eseguita una scaletta piuttosto accorciata. Watcher of the Skies, The Return of the Giant Hogweed, vari brani tratti da The Lamb Lies Down on Broadway, I Know What I Like, Dance on a Volcano, forse qualche altro pezzo che non ricordo, mentre Abacab è l’unico dei brani post-Hackett. Però il suono è un disastro, la tastiera distorce pesantemente, i musicisti non riescono a sentirsi e sbagliano.
Difficilissmo giudicare la band in una situazione del genere. Rispetto alle altre due splendide cover band italiane che ho avuto occasione di sentire (cioè i Supper’s Ready, il cui batterista è finito proprio nella Dusk e-B@nd, e la G Cover Band), mi è parso che in questo caso il sound lasciasse a desiderare in quanto non molto filologico ma nemmeno sufficientyemente personalizzato. Però, appunto, la situazione era tale da non consentire di giudicare serenamente. Nota di merito, in ogni caso, per il cantante Roberto Capparucci, che è riuscito ad apparire bravo anche in condizioni difficili come quelle descritte. Mi auguro che ci sarà un’occasione migliore per consentire anche agli altri di splendere.

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Concerto: Genesis

Per prima cosa, voglio prevenire tutti coloro che commenteranno dicendo "I Genesis sono finiti quando se n’è andato Peter Gabriel", o qualcosa del genere. Io non sono d’accordo, perlomeno non del tutto. Per cominciare, ritengo che i due album immediatamente successivi all’uscita di Gabriel siano tra i migliori in assoluto della produzione della band, come se il vuoto lasciato dalla vulcaniza ma ingombrante teatralità del cantante fosse stato riempito da uno sforzo ancora più intenso sotto il piano strettamente musicale. In secondo luogo, non credo sia un sacrilegio se una band decide di cambiare genere musicale. Negli anni ’80 e ’90 i Genesis producevano rock da stadio e pop invece che progressive ma, finché lo facevano bene, non c’era problema. Per me brani come Abacab, Home by the Sea, persino un pezzo terribilmente piacione ma originale come I Can’t Dance vanno benissimo, non vedo motivo di scandalizzarmi se provengono da una band che un tempo faceva altro.
Detto questo, non voglio certamente assolvere la band dalle colpe degli ultimi anni della sua carriera, che sono numerose. Per esempio, l’aver farcito gli ultimi album della sua carriera di brani inutili, privi di idee e di rifinture, di ballatone utili per eccitare gli accendini negli stadi ma senza alcun contenuto di originalità. Di essere stata incapace di produrre testi anche solo un minimo interessanti. Di essersi completamente ingessata negli spettacoli dal vivo, pescando per vent’anni sempre dagli stessi trenta brani degli oltre centocinquanta del suo repertorio. E di avere completamente sprecato l’opportunità dell’arrivo del nuovo, giovane cantante Ray Wilson, costringendolo nel ruolo di rimpiazzo di Phil Collins invece che approfittarne per svecchiare la propria immagine, e abbandonandolo vigliaccamente al suo destino ai primi accenni di mancato gradimento da parte del pubblico.

Ma se la pensi così, mi chiederete, perché sei andato fino a Roma a celebrare il ritorno di Phil Collins e dei Genesis sui palchi dopo un decennio (e più) di assenza? Non ho difficoltà ad ammetterlo: per bieca nostalgia. Per ascoltare ancora una volta la band con cui ho  letteralmente imparato ad ascoltare musica. E anche per testimoniare a un evento che si preannunciava colossale.

Ho rinunciato ad arrivare vicino al palco: per farlo sarebbe stato necessario perlomeno viaggiare di notte e sistemarsi in posizione buona alle prime luci dell’alba. Ma non ho più l’eta di queste cose, e inoltre ero accompagnato da amiche che male avrebbero sopportato di scomparire nella calca. Ho optato per arrivare solo mezz’ora prima dell’inizio e per sistemarmi sulle pendici di una collinetta a un centinaio di metri dal palco, postazione che garantiva comunque un’ottima visuale del megaschermo e anche di tutto il Circo Massimo, che era uno spettcolo in sé: circa mezzo milione di persone, non credo di aver mai visto una folla simile in vita mia!
L’amplificazione era potentissima, ma ovviamente l’acustica della situazione era quella che era: impossibile discernere fini dettagli. Comunque si percepiva ogni strumento e, anche se il riverbero pasticciava un po’ il sound, nel complesso si sentiva bene. Assolutamente straordinario il megaschermo a LED; grande come uno stadio (era largo sessanta metri!). Si vedeva benissimo anche prima che calasse il sole, e sicuramente forniva la spettacolarità che i membri del gruppo quasi invisibili sul palco lontano non avrebbero altrimenti potuto ottenere.

Chi si aspettava una solenizzazione dell’evento (ultimo concerto del tour di fronte a una folla colossale) è rimasto deluso: i Genesis hanno suonato esattamente la stessa scaletta di tutti gli altri concerti. E, ovviamente, nessun ospite speciale (lo stesso Peter Gabriel si era preoccupato di smentire recisamente). Tuttavia non ci si può lamentare: l’assenza di un album specifico da promuovere, se non altro, ha permesso di toccare tutte le epoche del repertorio della band, senza lasciare nessuno del tutto insoddisfatto (la scaletta completa è in fondo al post).
Ho trovato che i Genesis abbiano suonato molto bene. Sicuramete meglio dell’ultimo tour in cui li ho visti, nel 1998, in cui mancava la doppia batteria (e Nir Z non era un degno sostituto nemmeno del solo Collins o del solo Thompson), e in cui il bravo ma svogliato Anthony Drennan non poteva minimamente competere con Daryl Stuermer. Quest’ultimo, a mio parere, è stato il migliore in campo: il suo assolo su Firth of Fifth mi ha fatto gridare dall’entusiasmo, e in generale, nei brani in cui sostituisce la chitarra di Hackett, è stato eccezionale. Un altro momento splendido del concerto è stato il ripescaggio di Ripples…, che credo non venisse più suonata da un quarto di secolo, e che è stata eseguita benissimo. Personalmente avrei tolto qualche ballata strasentita a favore di qualche pezzo più interessante, ma era scontato che gli equilibri fossero questi.
Nel complesso, un bel concerto, che mi ha riportato a dolcissimi ricordi. Niente di sorprendente, ma se non altro i Genesis hanno dimostrato, se non altro, di saper ancora suonare il loro repertorio, cosa di cui alla fine degli anni ’90 non ero più certo. Questo non vuol dire che siano più capaci di dire qualcosa di nuovo… ma mai dire mai (qui parla il fan, non il critico).

La scaletta:
Duke’s End
Turn It On Again
No Son of Mine
Land of Confusion
In the Cage
medley Cinema Show – Duke’s Travels
Afterglow
Hold On my Heart
Home by the Sea
Follow You, Follow Me
Firth of Fifth (parte strumentale)
I Know What I Like
Mama
Ripples…
Throwing It All Away
Domino
Drum Duet – Los Endos
Tonight Tonight Tonight – Invisible Touch

I Can’t Dance
Carpet Crawlers

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Cordiali vaffanculo

al sito di La Repubblica, che da pochi minuti dopo la mezzanotte di oggi strilla in prima pagina il finale dell’ultimo Harry Potter, in modo tale che è impossibile frequentare il sito senza leggerlo. Credo che teppismo mediatico sia l’unica possibile definizione di questo comportamento.

Aggiornamento: ho scritto in proposito anche un post su Macchianera.

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Anteprima film: Vi dichiaro marito e marito

Now I pronounce you Chuck and LarryLarry e Chuck sono due pompieri newyorchesi, il primo vedovo con due figli, il secondo impenitente donnaiolo. I due rischiano la vita ogni giorno, e Larry è molto preoccupato per il futuro dei suoi figli: se lui morisse, perderebbero il diritto alla casa. C’è bisogno di un nuovo partner a cui intestarla, e il pompiere non trova di meglio che chiedere all’amico Chuck, che è in debito con lui, di fingersi gay e di registrarsi ufficialmente come suo convivente.
Il problema di questo film è tutto nello spunto iniziale: è talmente forzato che non è possibile crederci neppure per un momento. Per non parlare del fatto che una commedia degli equivoci basata sullo scambio dei ruoli sessuali avrebbe bisogno di trovate assolutamente geniali per non sembrare scontata e già vista.
Peccato, perché la coppia di protagonisti (Chuck è Adam Sandler, mentre Larry è l’attore televisivo Kevin James) funziona abbastanza bene. Ma il film, nella sua assoluta prevedibilità , riesce al massimo a far sorridere. Potete già immaginare cosa succede: le difficoltà di Chuck nel nascondere la sua passione per le donne, la convivenza che assume le dinamiche di una coppia autentica, le discriminazioni subite che portano il duo a farsi paladino dei diritti dei gay, fino al deus ex machina finale che rimetterà ciascuno nel ruolo sessuale che gli spetta. Non aiutano nemmeno i molti caratteristi aggiunti per dare man forte agli attori principali. Steve Buscemi è sempre bravissimo, ma costretto in un ruolo che gli offre pochi spunti. Dan Aykroyd è spento e invecchiato. Solo Ving Rhames risulta divertente nella parte del ceffo patibolare che si rivela poi essere il più gay di tutti.
Se non altro, pur in una rappresentazione dei gay stereotipata e senza ammettere che tra i due protagonisti etero possa veramente crearsi un’attrazione sessuale,il film fa del suo meglio per trasmettere un messaggio di accettazione e tolleranza della diversità sessuale. E può servire a far notare che le convivenze omosessuali, che da noi proprio non si riesce a far digerire, nei puritanissimi USA sono un fatto legale e normale.
Il film sarà sugli schermi italiani dal 7 settembre.

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Grazie alla moderna tecnologia delle reti, prenotare un biglietto ferroviario è un'operazione che si può compiere ovunque

Ore 2.00, a casa mia, tentando di prenotare un biglietto del treno via Internet
PC: Non è stato possibile effettuare il pagamento. Riprovi più tardi.
Io: Strano, forse è in manutenzione. Riproverò domani.

Ore 8.30, sempre a casa mia
PC: Non è stato possibile effettuare il pagamento. Riprovi più tardi.
Io: Ma che kazz… Non è possibile. Ora riprovo.

Ore 8.35, sempre a casa mia
PC: La prenotazione è stata effettuata. Le ricordiamo che entro le 12.00 di oggi deve confermarla presso un Bancomat Unicredit, una ricevitoria SISAL o una biglietteria automatica FS.
Io: Eh?! Ma siamo matti?! Cosa prenoto a fare su Internet se poi mi fate andare in stazione?!?! Pork! È tardissimo! Corro in ufficio, vedremo da lì…

Ore 9.30, in ufficio
Io: Sarà meglio telefonare al Servizio Clienti Trenitalia.
Cellulare: Credito insufficiente per accedere al servizio.
Io: [censura]

Ore 9.40, in ufficio
Io: Per fortuna che ho l’home banking. Ora ricarico il cellulare da qui.
PC: La ricarica potrebbe non essere stata effettuata. Attendere 24 ore e verificare con il provider.
Cellulare: (rimane in eloquente silenzio)
Io:

Ore 9.50, in ufficio
Io: È un’emergenza, userò il telefono fisso.
Centralino automatico: Per l’orario dei treni premere 1, per modifica prenotazione premere 2…
Io: [beep]
Centralino automatico: (squilla due volte, poi cade la linea)

Ore 9.51, in ufficio
Centralino automatico: Per l’orario dei treni premere 1, per modifica prenotazione premere 2…
Io: [beep]
Centralino automatico: (squilla due volte, poi cade la linea)

Ore 9.52, in ufficio
Centralino automatico: Per l’orario dei treni premere 1, per modifica prenotazione premere 2…
Io: (beep)
Centralino automatico: (squilla due volte, poi cade la linea)
Io: [censura]

Ore 10.00, in ufficio
Centralino automatico: Per l’orario dei treni premere 1, per modifica prenotazione premere 2…
Io: (beep)
Operatore telefonico: In cosa posso esserle utile?
Io: Ho prenotato on-line e mi chiede di andare in stazione a confermare!
Operatore telefonico: Ma lei ha scelto PostoClick?
Io: No, ho scelto Ticketless. Ho pure controllato.
Operatore telefonico: Impossibile. Altrimenti le avrebbe chiesto la carta di credito.
Io: Infatti mi ha chiesto la carta di credito!!!
Operatore telefonico: Controlliamo. Qual è la sua user id?
[seguono dieci minuti di penosa navigazione web assistita]
Operatore telefonico: Vede, aveva scelto PostoClick!
Io: Non l’avevo scelto! E comunque, ora come faccio a pagare?
Operatore telefonico: È molto semplice: vada in Area Clienti, poi faccia clic su “Gestire le tue prenotazioni con PostoClick”, e selezioni il pagamento online.
Io: È vero, funziona! Grazie mille [riappendo]
PC: Non è stato possibile effettuare il pagamento. Riprovi più tardi.

Ore 10.30, agenzia viaggi di Via DeAmicis
Impiegata: Mi spiace, qui non facciamo biglietti ferroviari nazionali.
Io: Maledizione, devo rientrare in ufficio! Riproverò altrove durante la pausa pranzo.

Ore 10.35, banca di via Olona
Io: Già che sono uscito, perlomeno provo a fare una ricarica dal Bancomat per rimettere in funzione il cellulare…
Bancomat: L’operazione non è stata effettuata per cause tecniche.

Ore 13.30, agenzia viaggi di Via Ariberto
Io: Fate biglietti ferroviari qui?
Impiegato: Certo, purché non deva partire subito.
Io: In che senso?
Impiegato: Si è rotta la stampante. Non posso stampare i biglietti. Lei quando parte?
Io: Domani, maledizione!
Impiegato: Allora niente da fare. Perché non prova da Coin, più avanti?

Ore 13.40, Coin di corso Colombo
Cartello: FUORI SERVIZIO – Ci scusiamo per il disagio
Io: Come sarebbe?
Commessa: Mi spiace, non funziona la nostra connessione.
Io: AAAAAAArrgh!
Commessa: Non faccia così, perché non prova qui in stazione a Porta Genova?

Ore 14.05, già in orario di lavoro, dopo venti minuti di coda.
Ferroviere: I posti ci sono.
Io: Ottimo! Ecco il mio Bancomat!
Ferroviere: Mi spiace, la transizione è stata rifiutata.
Io: [dopo attimi di sbigottito silenzio] Posso pagare con carta di credito, purché non sia necessario il codice perché non lo ricordo, non lo uso mai…
Ferroviere: Non dovrebbe essere necessario. [pausa]
Pare sia necessario.
Io: [Lo fisso con aria eloquente. Il mondo trattiene il respiro]
Ferroviere: Aspetti, ho un’idea…

[Per farla breve, il ferroviere ha pensato di farmi usare il Bancomat come carta di credito, e ha funzionato. Per coloro che possono aver pensato che io intenda fare concorrenza a Personalità Confusa, sappiate che è tutto vero, parola per parola. Successo venerdì.]

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Poesia involontaria

Su Repubblica, per la precisione qui, oggi c’è scritto: Elisabetta Lionelli, in arte Betty Lee, è finita sulle cronache per aver denunciato l’ingerenza dell’arte nel campo della camorra.
Che dire? Temo sia involontaria, ma è una frase bellissima.

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No representation without taxation

Le recenti rivelazioni su brogli praticati in Oceania nel corso delle ultime elezioni politiche non fanno che confermare l’opinione che ho sempre avuto riguardo al voto degli italiani all’estero: si tratta di una legge insensata, che non avrebbe dovuto essere approvata e che andrebbe abrogata subito (nonostante abbia il merito, se così lo si può chiamare, di aver procurato al centrosinistra la sua risicatissima maggioranza in Senato).
Il fatto è che la questione del voto degli italiani all’estero riunisce due questioni totalmente diverse e separate. La prima è quella di permettere agli italiani che temporaneamente si trovano lontano dal loro seggio di poter votare ugualmente. La seconda è quella di dare il voto anche agli italiani che risiedono stabilmente all’estero, e pertanto non sono iscritti ad alcun seggio italiano.
Il primo problema mi pare abbastanza facilmente risolvibile (in molte nazioni il voto dall’estero, per posta o nei consolati, è una pratica consolidata) e decisamente importante. Ma la legge sul voto degli italiani all’estero non se ne occupa affatto. Tuttora, se sei in vacanza, sei uno studente Erasmus, o comunque ti trovi all’estero temporaneamente, non hai la possibilità di esercitare il tuo diritto di voto.
In compenso, la legge ha dato la possibilità di votare a centinaia di migliaia di italiani che risiedono stabilmente all’estero. La cosa è stata presentata come una grande conquista di civiltà non solo dai promotori della legge come Mirko Tremaglia, ma anche da esponenti di sinistra come Furio Colombo. Eppure, a me sembra palesemente un nonsenso. In pratica è stato concesso un diritto a persone che non hanno alcun dovere nei nostri confronti. Gli italiani all’estero non sono soggetti alle leggi italiane e non pagano le tasse in Italia; sono quindi dei soggetti totalmente irresponsabili, che possono prendere parte al processo decisionale senza subirne le conseguenze. Per fare un paragone, immaginate che una legge stabilisca che, nei condomini, 100 millesimi vadano assegnati agli ex inquilini dello stabile, che non abitano più lì, non contribuiscono alle spese, ma possono influenzare le decisioni dell’assemblea. Vi sembrerebbe logico?
Per giunta, la legge implica che ci siano candidati in collegi esteri che tengono la loro campagna elettorale all’estero, fuori dal territorio italiano. Il che implica sia l’impossibilità di far rispettare le norme, sia anche solo di garantire che la campagna elettorale si possa tenere (non è solo un’ipotesi: già il Canada ha espressamente vietato che si possa votare per elezioni straniere all’interno del suo territorio).
Le conseguenze sono evidenti: disparità di trattamento per i cittadini a seconda del luogo in cui risiedono, facilità di brogli,tutto per eleggere dei parlamentari che, non avendo particolari responsabilità verso i loro elettori, possono prestarsi come manovalanza per manovre politiche (Pallaro docet). Approvare queste legge è stato un errore che andrebbe corretto. Ma ormai gli italiani all’estero hanno i loro rappresentanti in Parlamento, sufficientemente numerosi e corteggiati da rendere pressoché certo che la legge rimarrà in vigore per sempre. Un’altra di quelle entità inutili e dannose che si sostentano a danno del Paese, mostri che l’eterno sonno dell’Italia partorisce a getto continuo.

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Sostegno morale

GianoVeltroniWalter Weltroni ha dichiarato che, pur essendo totalmente a favore del referendum sulla legge elettorale, non lo firmerà, in quanto candidato alla guida di un partito nel quale "convivono idee diverse". Un bizantinismo degno del peggior doroteo: logica vorrebbe che chi si candida a una carica sostenesse con convinzione le sue posizioni, e non le annacquasse per un malinteso rispetto per le posizioni opposte.
Purtroppo, immagino che questa sia un’anteprima di quello che dobbiamo aspettarci dal futuro PD: un’entusiastica adesione ai principi della laicità e della sinistra… a parole. Perché poi, nella pratica, c’è chi ha idee diverse.

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