I film che ho visto al Trieste Science+Fiction Festival

È tantissimo tempo che non scrivo su questo blog, e ho deciso, volendo ricominciare, valeva la pena di farlo con un long form. E quale migliore occasione della mia visita al Trieste Science+Fiction Festival?

Per la cronaca, ci sono andato non con lo spirito del critico ma del turista: ero lì per divertirmi e vedere amici, non sono rimasto per tutta la durata del festival e ho visto solo i film che mi era comodo vedere, senza fare una selezione ragionata. Nondimeno l’esperienza è stata molto positiva, e quindi ora vi racconto quello che ho visto.

I film che mi sono piaciuti molto:

Mars Express

di Jérémie Périn, Francia

Anno 2200, i robot sono molto diffusi, sia come entità autonome sia come “sostituti”per umani che non dispongono più del proprio corpo. I robot sono incapaci di fare del male agli esseri umani, ma ci sono attivisti che praticano su di loro un jailbreaking per dare loro la totale libertà, cosa che ha provocato rivolte e un’atmosfera di sospetto e ostilità. Aline è una detective della città di Noctis su Marte, cui viene chiesto di indagare sulla sparizione di una studentessa. Mentre i cadaveri si accumulano, gradatamente l’indagine porta alla luce un complotto che coinvolge l’intera popolazione robotica.

Mars Express ha fatto man bassa: ha vinto il premio Asteroide assegnato ai film di registi emergenti, il premio della critica, il premio della trasmissione Wonderland; in pratica, quasi tutto quello che poteva vincere. Meritatamente, perché da tanto tempo non mi capitava di rimanere tanto coinvolto da un film di fantascienza (e parlo in generale, non solo di film di animazione).

La cifra di Mars Express è l’essenzialità: uno stile di animazione che non ricerca gli effetti fini a se stessi ma si mette al servizio della storia. Una storia intricata e nera degna dei migliori polar francesi, con personaggi pieni di ombre che possono vivere momenti di travolgente umorismo ma un attimo dopo finiscono ammazzati senza che ci si soffermi un secondo a compiangerli. Una vicenda complessa e coerente, che ci lancia senza spiegazioni in un mondo alieno come solo la migliore fantascienza sa fare, e che solo negli ultimi dieci minuti si concede di volare alto uscendo dai bassifondi ed evocando scenari grandiosi.

Ho trovato la sceneggiatura di Mars Express molto più convincente di quella di molti recenti blockbuster hollywoodiani. Spero tanto che possa trovare una distribuzione in Italia.

La guerra del Tiburtino III

di Luna Gualano, Italia

Una popolazione aliena, piccoli vermi in grado di penetrare attraverso le narici nel cervello degli esseri umani prendendo il controllo delle loro azioni, sta invadendo il pianeta Terra cominciando dal quartiere Tiburtino III di Roma. A scoprire gli invasori e a mettere i bastoni tra le ruote del loro piano di conquista sarà un’improbabile squadra formata da un piccolo spacciatore, un suo squinternato amico, la sua barista di fiducia e una influencer modaiola capitata nel quartiere in cerca di visibilità.

Il cinema italiano non sta vivendo il suo momento migliore, ma per fortuna ogni tanto capita ancora di incontrare un film italiano fatto bene, e capita sempre più spesso che sia un film di genere. È sicuramente il caso di questa commedia fantascientifica in salsa romana, che ho iniziato a guardare senza aspettarmi nulla e che ho trovato davvero simpatica e divertente.

La guerra del Tiburtino III mi è piaciuto per come riesce a prendere sul serio la sua bizzarra trama. Se l’idea iniziale è demenziale e i suoi sviluppi pure, nondimeno i personaggi sono credibili e ben cesellati, con grande cura dei dettagli e senza eccessi o sbavature, e la storia viene portata avanti rimanendo coerente con le sue assurde premesse (ed è proprio questo che la rende così divertente). Non mancano gli spunti di satira politica e di costume, azzeccati ma senza mai prendere il sopravvento sulla trama (ed è un bene).

Se il film funziona così bene è anche merito di un casting molto azzeccato, con tutti gli attori perfettamente in parte. Chi ha amato Boris sarà felice di ritrovare alcuni interpreti della serie: se Francesco Pannofino si limita a una comparsata, troviamo Carolina Crescentini nella parte della madre del protagonista, ma soprattutto Paolo “Biascica” Calabrese, azzeccatissimo come regina aliena incarnata in un borgataro romano, che rigurgita uova dalla bocca intonando maledizioni sprezzanti nei confronti dei “mammiferi”. Impagabile.

La guerra del Tiburtino III merita di arrivare al grande pubblico, spero che i distributori trovino il coraggio di proporlo fuori dalle porte di Roma.

Gli altri film che ho visto in questa edizione:

Creep box

di Patrick Biesemans, USA

Una tecnologia innovativa permette di ricreare temporaneamente la personalità di persone defunte, che possono esprimersi a voce attraverso quelli che vengono definiti “sussurri”. Il dottor Caul ne è il principale esperto, ma deve affrontare numerosi problemi: le dubbie implicazioni etiche, i finanziatori che spingono sull’aspetto commerciale trascurando quello scientifico, e il desiderio di usare lui stesso i sussurri per comunicare con la moglie morta suicida.

Creep Box nasce dall’acclamato cortometraggio con lo stesso titolo uscito l’anno precedente, che nei suoi primi minuti riproduce molto da vicino (con alcuni attori cambiati). Ma, se il corto era estremamente efficace, la trasformazione in lungometraggio non è riuscita alla perfezione.

Il film riesce piuttosto bene a creare un’atmosfera di suspense, con l’evocazione delle personalità dei defunti che sembra la versione ipertecnologica di una seduta spiritica (con parole chiave scandite a mò di formule magiche per favorire la connessione), e mette sul tavolo una serie di problematiche interessanti: le voci sono solo simulazioni, o sono veramente persone? Quanto ci si può fidare di quello che dicono? Fa davvero bene ai loro cari poterci parlare? Grazie anche alla solida interpretazione del protagonista Geoffrey Cantor nei panni del cupo e tormentato professor Caul, si rimane catturati dalla storia nonostante l’assenza di scene d’azione o effetti speciali. Purtroppo però il regista non sa sfruttare adeguatamente l’ottimo materiale, e cade nel finale, dove tutto si fa confuso e non si risponde ad alcuna delle domande poste. Peccato.

Pandemonium

Di Quarxx, Francia

Dopo un incidente stradale, Nathan scopre di essere morto e destinato all’Inferno. In attesa di sapere quale sarà la sua pena, assiste alle storie di altri dannati: una bambina che ha sterminato l’intera famiglia, e una madre che ha causato il suicidio della figlia ignorando le sue richieste di aiuto.

Mi riesce difficile emettere un giudizio su questo film, perché da ogni scena emerge chiaramente una interessante personalità di autore, e tuttavia non mi è del tutto chiaro dove il regista volesse andare a parare.

Il prologo di Pandemonium è forse la sua parte migliore: il dialogo tra i due personaggi appena morti e che gradatamente si rendono conto di dover andare uno all’Inferno e l’altro in Paradiso (ma ci sarà una sorpresa) ha i toni di un efficacissima commedia nera. L’episodio dedicato alla bambina assassina ha invece la forma di una farsa gotica e inquietante (con una protagonista tredicenne di eccezionale bravura), mentre il successivo, con la madre che per tutto il tempo continua a parlare al cadavere della figlia senza voler accettare il suo suicidio, è di un’angoscia davvero lancinante. Nel finale si ritorna al Nathan della parte iniziale, con un ulteriore sorpresa: il diavolo a cui è stato affidato se lo lascia scappare, e viene spedito sulla Terra per riprenderselo. Potrebbe essere l’inizio di un film bizzarro e divertente, ma invece arrivano i titoli di coda.

Nel presentare il film, Quarxx ha dichiarato che la sua intenzione iniziale era di girare nove episodi, uno per ciascun girone dell’Inferno, e di essere stato dissuaso dalle difficoltà tecniche dell’impresa. Forse se davvero avesse girato più episodi sarebbe più facile dare un senso al film, mentre così la totale diversità delle tre storie presentate rende difficoltoso tirare le somme. Forse il tema potrebbe essere quello della negazione: tutti i personaggi del film in qualche modo non accettano la propria dannazione. Nathan contesta che il proprio peccato meriti l’Inferno, la bambina attribuisce i propri delitti a un immaginario mostro-servitore che fa impiccare al proprio posto, mentre la madre non vuole vedere il suicidio della figlia. A questa negazione fa da contraltare una logica spietata: nonostante nessuno dei personaggi ci sembri davvero meritare l’Inferno (anche la malvagità della bambina è quella inconsapevole di chi non sa valutare la gravità dei propri atti), tutti vengono dannati. Meritiamo tutti l’Inferno, sembra dire il regista, e non lo vogliamo vedere.

A Million Days

di Mitch Jenkins, UK

Con la Terra devastata dal cambiamento climatico, l’umanità affida le sue speranze a un’astronave costruita per fondare una colonia sulla Luna. Tuttavia un esame delle simulazioni condotte da un’intelligenza artificiale fa sorgere il sospetto che quest’ultima stia manipolando la missione per fini ignoti, mentre emergono collegamenti con un incidente che ha causato la morte di un’astronauta cinque anni prima…

A Million Days inizia con alcune scene ambientate in orbita, facendo pensare a un’avventura spaziale, ma è solo un contentino dato allo spettatore: tutto il resto del film ha un impianto strettamente teatrale, un lungo dialogo tra personaggi in cui gli eventi vengono solo evocati senza mai essere mostrati. Un impianto di questo tipo per reggersi avrebbe bisogno di una logica ferrea, mentre purtroppo la trama imbastita dagli sceneggiatori è piena di vaghezze e approssimazioni. Il cambiamento climatico evocato in apertura non è che un macguffin, dato che gli scopi della missione salvifica non vengono mai definiti con precisione. L’idea di fondo (un’intelligenza artificiale che si ribella ai suoi creatori per meglio perseguire gli obiettivi che le sono stati affidati) non è certamente nuova, risale perlomeno a 2001: Odissea nello spazio, più di mezzo secolo fa! La sceneggiatura cerca di accumulare colpi di scena attribuendo sempre nuove mirabolanti capacità all’intelligenza artificiale, ma in questo modo rende sempre più difficile la sospensione dell’incredulità: se può fare tutte queste cose, non si capisce perché abbia dovuto ricorrere a un piano così contorto per ottenere quello che vuole.

In conclusione, un film che mantiene molto meno di quello che promette.

Herd

di Steven Pierce, USA

Una coppia lesbica in crisi cerca di ritrovare la concordia attraverso una settimana di campeggio, ignara che nella zona è scoppiata un’epidemia che trasforma le persone in mostri aggressivi. Ma forse ancora più pericolose dell’epidemia sono le milizie armate che si sono formate per combatterla, ignorando gli appelli alla calma del governo statunitense.

Herd si potrebbe definire un film di zombie revisionista. Sì, perché, anche se quelli mostrati dal film si chiamano “hep” e il regista non vorrebbe fossero chiamati zombie, è inutile negare l’evidenza: siamo di fronte a un film di zombie che mette in scena tutti i cliché del genere, anche se poi ne capovolge il senso: a mano a mano si scopre infatti che gli zombie non sono poi così pericolosi, e che la vera minaccia sono invece le bande armate che sorgono per rimediare alla supposta inerzia del governo, e che finiscono per incrementare la violenza combattendosi tra loro. È trasparente l’atto d’accusa contro l’America rurale, insofferente di ogni regola e autorità e pronta a usare la violenza contro ogni diverso, che siano zombie od omosessuali.

Va sicuramente elogiato il tentativo di rinnovare un genere ormai abusato applicandogli un nuovo sottotesto politico. Detto questo, però, il film non convince del tutto: il messaggio risulta troppo trasparente e a volte eccessivamente retorico, mentre per il resto la regia non si distacca dalla routine del genere. Sufficiente ma niente di più.

The Moon

di Kim Yong-Hwa, Corea del Sud

Non posso in buona fede recensire questo film perché ne ho visto solo un terzo, e poi sono uscito dalla sala per andare alla presentazione di un libro. Posso dire che quello che ho visto non mi ha entusiasmato: il solito film con l’astronauta perduto nello spazio, solo in salsa coreana. Abbiamo già dato.

Bonus: i film dell’anno scorso

Al Trieste Science + Fiction Festival sono andato anche l’anno scorso, a presentare Fanta-Scienza 2, e nell’occasione sono riuscito a vedere un paio di film, che avrei voluto recensire qui ma non ho trovato il tempo. Quindi li recupero ora!

LOLA

di Andrew Legge, U.K.

Negli anni ’30 due geniali sorelle orfane che vivono sole in una villa nella campagna britannica inventano una macchina in grado di captare le trasmissioni televisive del futuro. Per un po’ si limitano ad ammirare le popstar come David Bowie ma, quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale, non resistono alla tentazione di usare la macchina per scoprire in anticipo dove cadranno le bombe tedesche. Le conseguenze saranno dirompenti.

Davvero un piccolo capolavoro questo film che si è meritato il premio Méliès d’argent (riservato ai lungometraggi di produzione europea) e anche il premio di Wonderland. Essendo passato un anno dalla sua uscita potete addirittura guardarvelo a costo zero su RaiPlay, e vi consiglio caldamente di farlo!

Il merito di LOLA non è nell’idea in sé, che in fondo è una classica storia di paradossi temporali affine a tante altre viste in precedenza. Quello per cui si distingue è sono lo stile e il rigore con cui la mette in scena. LOLA è interamente realizzato con la tecnica del found footage, come se fosse stato girato (in un magnifico bianco e nero) con una cinepresa dell’epoca per documentare eventi reali (e il motivo per cui questo filmato è presente nel nostro universo verrà spiegato nel finale).

Con due interpreti bravissime e carismatiche che si rubano la scena a vicenda, il film riesce a porre importanti domande sul senso della nostra presenza nella storia, senza mai cessare di essere avvincente. Per me il migliore dei film che ho visto a Trieste.

The Breach

di Rodrigo Gudiño, Canada

Quando un cadavere con inspiegabili ferite e deformità viene trovato sulle rive di un lago, lo sceriffo locale non può esimersi dall’andare a ispezionare il luogo da cui sembra provenire, in un’area praticamente disabitata. Lo accompagnano un amico e l’ex fidanzata.

Può essere che agli appassionati di horror questo film dica qualcosa, ma io l’ho trovato davvero pessimo. La trama di base è una delle più vecchie e scontate del genere (sappiamo fin da principio che nella casa sperduta in mezzo al nulla troveremo uno scienziato pazzo che ha oltrepassato limiti che l’uomo non dovrebbe valicare), e i tentativi di renderla interessante sono confusi e contraddittori, e hanno sempre meno senso a mano a mano che si procede. Non sembra esserci un sottotesto, a meno che non lo si voglia vedere nel personaggio interpretato dal chitarrista dei Rush, Alex Lifeson, che sembra l’evidente parodia di un complottista (però alla fine ha ragione lui, quindi… dove si va a parare?). Vedibile solo se ci si accontenta di un po’ di avventura e suspense senza altro dietro.

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Film: La passione

NOTA: La rifondazione del blog sta ovviamente impiegando più tempo del previsto. intanto riprendo a scrivere qui, così mi tengo in allenamento.

La passioneGianni Dubois è un regista in disarmo, che non fa più film da cinque anni e temporeggia con produttori e attori attendendo un’idea che non arriva mai. A causa di un incidente condominiale è costretto a recarsi di corsa nel paesino toscano dove ha la seconda casa, e dove la sindaca gli pone un ultimatum: dovrà pagare un monte di danni e affrontare uno scandalo, se non accetterà di dirigere la sacra rappresentazione della Passione del Venerdì Santo. Gianni è costretto ad accettare l’incarico, che presto va a rotoli di pari passo con le sue prospettive di lavoro…
La passione è un film che si lascia vedere volentieri e strappa anche qualche risata. Merito di una coppia di attori tra i più bravi e simpatici del nostro cinema, Silvio Orlando e Giuseppe Battiston, ai quali aggiungo volentieri Corrado Guzzanti (che al cinema è sempre troppo sopra le righe, ma qui, visto che interpreta un attore pessimo e istrionico, ci sta benissimo). E anche di un soggetto abbastanza originale, che rappresenta l’Italia e il mondo del cinema con caustica ironia: in certi momenti sembra quasi di vedere una puntata di Boris. Purtroppo però il film non decolla mai veramente. Colpa di una sceneggiatura troppo disinvolta nel far succedere cose senza spiegazioni (difetto di tantissimi film italiani, e di quelli di Mazzacurati in particolare), e che moltiplica le macchiette (spesso neppure divertenti, come la padrona di casa infoiata) senza sviluppare davvero i personaggi che contano. Ma soprattutto è il finale che delude: blando, incerto e poco convincente proprio come i soggetti creati dal protagonista, invece di dare un senso al film glielo toglie. Peccato, perché le buone intenzioni c’erano. Ma, come troppo spesso avviene nel cinema italiano, sono rimaste tali.

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Film anteprima: Il Mondo dei Replicanti




In un futuro non troppo lontano, il mondo è stato rivoluzionato dall’introduzione dei “surrogati”, robot umanoidi che possono essere controllati a distanza da un essere umano comodamente seduto in una poltrona in casa propria. Usare un surrogato significa esplorare il mondo con una versione più forte e più bella di se stessi, e in più poterlo fare senza correre alcun rischio, dato che la cosa più grave che può accadere è la distruzione del surrogato. La cosa è così attraente che ormai le strade sono popolate solo di surrogati, mentre gli esseri umani stanno rintanati in casa a vivere le loro vite per procura.  Soltanto un ristretto numero di dissidenti vive in riserve dove l’uso dei surrogati è vietato. Ma questo stato di cose rischia di precipitare rapidamente quando qualcuno comincia a usare una pistola che non solo uccide i surrogati, ma contemporaneamente anche le persone a loro collegate…

È evidente che nel girare questo film ispirato a un graphic novel, il regista Jonathan Mostow (già autore del dimenticabile Terminator 3) aveva intenzione di ispirarsi a modelli elevati, come il celeberrimo Blade Runner, esplicitamente citato in alcune scene (e anche nel titolo italiano, mentre quello originale è Surrogates). E in effetti questo non è il “solito” film fracassone pieno solo di sparatorie ed effetti speciali (che pure non mancano), ma riesce a costruire immagini di un mondo che risulta credibile pur essendo totalmente straniante. Un mondo in cui tutte le persone sembrano stelle del cinema (ma hanno a casa un alter ego trasandato e invecchiato), in cui le “persone” assistono con curiosità alle sparatorie, non temendo di essere uccise, o in cui lo stesso corpo meccanico può essere usato in sequenza da più persone diverse. Tuttavia gran parte dello sforzo registico viene vanificato da una sceneggiatura semplicistica, in cui la tecnologia viene descritta in modo inverosimile (un hacker operando da un singolo computer in una qualsiasi stazione di polizia può infettare tutti i surrogati del mondo contemporaneamente…), e usata per veicolare una morale trita (la tecnologia porta le persona a straniarsi e ignorare i propri veri sentimenti) che, nell’era di Internet e di Facebook, suona davvero improponibile. Peccato, perché alcuni spunti del film avrebbero meritato uno sviluppo migliore. Bruce Willis, pur penalizzato dal trucco da bambolotto del suo alter ego meccanico, regge comunque bene il ruolo di protagonista.

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Film: Moon

MoonUna base spaziale sul lato nascosto della Luna, dove si estrae dalle rocce lunari l’elio-3 necessario agli impianti a fusione terrestri, è abitata da un uomo solo, Sam, in attesa che il suo contratto triennale scada e gli consenta di fare ritorno sulla Terra. Un giorno Sam ha un incidente che gli fa perdere conoscenza. Quando rinviene, non ricorda bene cosa gli è successo, e comincia a notare delle incongruenze. Ben presto si accorgerà che la sua situazione è completamente diversa da quella che immaginava…
Moon era un film estremamente atteso. Non solo perché si tratta del debutto alla regia di Duncan Jones, noto per essere il figlio di David Bowie. Ma soprattutto perché è quello che gli appassionati attendevano con sempre maggiore impazienza: un film di fantascienza una volta tanto basato su una sceneggiatura autenticamente fantascientifica nelle situazioni e nei personaggi, e non su un pretesto per sfoderare effetti speciali e battaglie. Dopo averlo visto, posso dire che l’attesa era giustificata solo in parte. In effetti, Moon è davvero un film di fantascienza vecchio stile. Guardandolo è difficile non pensare a 2001: Odissea nello Spazio, Dark Star, 2002 la Seconda Odissea, Atmosfera Zero, Spazio: 1999 e non so più quanti altri film e telefilm di fantascienza del passato. Con questo non intendo dire che si tratti di un film nostalgico o citazionista, ma semplicemente che prende a modello un certo cinema in cui a essere protagonista non era l’azione vertiginosa, ma lo sottile angoscia di trovarsi nell’ambiente ostile e alieno dello spazio. Da questo punto di vista Moon riesce benissimo nell’intento, e chi, come me, aveva nostalgia di questo tipo di cinema non può che rallegrarsene.
Al di là di questo, però, Moon è un film riuscito solo a metà. La prima parte funziona benissimo, e costruisce abilmente la suspence utilzzando elementi classici in maniera originale e inconsueta. Quando però il mistero viene svelato, il film si affloscia un po’. Se da un lato vengono coraggiosamente evitate le soluzioni più ovvie, dall’altro però il potenziale drammatico di molte situazioni viene sfruttato solo in parte, e talvolta svilito da scappatoie che appaiono un po’ troppo facili. Anche il finale appare un po’ troppo semplicistico e positivo rispetto alla materia trattata.
In ogni caso guardare Moon mi ha fatto molto piacere e mi ha riportato a un tipo di cinema che credevo ormai scomparso. Un appassionato di fantascienza semplicemente non può perderselo (tenendo conto che anche a Milano per vederlo bisogna andare in un cinemino d’essai, immagino altrove le difficoltà!).

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Film: Baarìa

Ba'ariaIspirato alla vera storia del padre del regista, Ba’aria (dialettale per Bagheria) racconta la storia di Peppino che, nato in un umilissima famiglia siciliana, riuscirà a trovare l’amore, a costruirsi una famiglia e arriverà a candidarsi al Parlamento con il Partito Comunista, alternando trionfi ad amarezze e delusioni.
Spiace parlar male di un film come Baarìa, perché la sua qualità produttiva è talmente elevata che non sembra neppure un film italiano. La qualità della ricostruzione storica della Sicilia è semplicemente eccelsa, e gli attori vanno tutti da bravo a bravissimo anche nelle più piccole parti (beh, va bene, la Bellucci si limita a farsivedere seminuda e avvinghiata a un muratore; ma che pretendiamo di meglio? )..
Al di là di questo, però, si stenta a trovare un senso al film. Tornatore procede affastellando episodi su episodi, spesso azzeccando gag divertenti che alleggeriscono la lunghissima durata del film (quasi tre ore), ma che spesso ricadono nell’oleografico, nel macchiettistico o nel semplicistico, e ai quali manca comunque uuna direzione generale che porti il film da qualche parte. Accompagnato da una colonna sonora incessante e roboante di Morricone, Ba’aria spesso perde completamente il senso della misura, con insistite autocitazioni e pesanti metafore e simbologie che nulla aggiungono all’insieme. Peccato.

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Film: Crossing Over

Crossing overUn poliziotto che dà la caccia agli immigrati si impietosisce di fronte alle suppliche di un’operaia clandestina messicana, e si interessa della sorte del suo figlioletto perduto. Una modella australiana rischia di essere espulsa dagli USA per un disguido, e viene ricattata da un losco funzionario. Una quindicenne bengalese, per avere espresso un’opinione politica, viene arrestata e minacciata. Il figlio di un immigrato coreano subisce il fascino delle bande di gangster. Un musicista inglese deve fingere interesse per la religione ebraica per poter continuare a lavorare negli USA…
Queste e altre storie si intrecciano nel film di Wayne Kramer Crossing Over, il cui modello ispiratore è, in tutta evidenza, Crash di Paul Haggis, con cui ha inc omune ambientazione (Los Angeles), tema (i conflitti razziali) e struttura a storie intrecciate. Rispetto all’originale, Crossing Over risulta notevolmente inferiore a livello di sceneggiatura. Se in Crash le storie si intrecciavano veramente in modo imprevedibile influenzandosi a vicenda, qui i legami tra i vari fili narrativi appaiono piuttosto pretestuosi. Inoltre alcune storie appaiono meno significative rispetto ad altre, e sarebbe stato preferibile fossero in numero inferiore, ma più approfondite a livello psicologico (come accadeva in un altro bel film sull’immigrazione, L’Ospite Inatteso di Thomas McCarthy). In ogni caso, il film non è privo di momenti alti, forse anche perché il regista, immigrato egli stesso negli USA dal Sudafrica, riesce a trasmettere parte della sua esperienza personale. Gli interpreti famosi, a partire da un cupo e malinconico Harrison Ford, fanno il loro dovere, pur in modo non memorabile. Ma sono alcuni degli attori più sconosciuti a emozionare di più.

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Film: Star Trek


Una colossale astronave romulana, uscita dal nulla, attacca una nave terrestre distruggendola, per poi scomparire. Venticinque anni dopo la nave riappare attaccando il pianeta Vulcano. Ad affrontarla arriva l’Enterprise, con a bordo anche uno scapestrato cadetto, James Kirk, figlio del comandante della nave distrutta…
Fino a poco tempo fa, pareva certo che di Star Trek non si sarebbe più sentito parlare. Dopo quarantacinque anni, cinque serie televisive e dieci film, di qualità declinante fino all’imbarazzo, si poteva tranquillamente pensare il potenziale dell’universo trekkie fosse definitivamente esaurito. Invece J. J. Abrams (la mente dietro alla serie televisiva Lost, se qualcuno non lo conoscesse) ha compiuto un piccolo miracolo, grazie a un’idea forse persino scontata, ma riuscitissima: un paradosso temporale. Nel corso del film veniamo infatti a scoprire che, a causa di un viaggio nel tempo, la storia è stata cambiata. Possiamo quindi goderci il meglio di entrambi i mondi: da un lato i personaggi sono gli stessi che amiamo da oltre quarant’anni, con i loro tic, i loro modi di dire e di fare, e anche numerosi elementi della loro storia. Dall’altro però le loro vite sono state differenti da quelle che conosciamo, e quindi possono essere diversi quel tanto che basta da poterli aggiornare senza ledere la continuità storica e logica della serie. Così vediamo i membri dell’equipaggio dell’Enterprise amare e fare sesso, in modi che prima avevamo potuto solo intuire. Vediamo i loro caratteri estremizzati, e li vediamo immersi in un atmosfera fa film d’azione del XXI secolo che con il vecchio Star Trek ha poco a che vedere. Il risultato è essenzialmente un film divertente, che manda in brodo di giuggiole il trekkie veterano che ritrova i suoi beniamini aggiornati al Duemila, ma che risulta digeribile anche a chi della saga conosce ben poco. Il che non signficica che il film sia privo di difetti. In particolare il cattivo di turno è del tutto monodimensionale, e le sue semplicistiche motivazioni mal si accordano con le sue azioni arzigogolate e sproporzionate. Ma, in fin dei conti, anche molti episodi passati della saga avevano difetti del genere, e non ci avevano impedito di goderceli. Rispetto al film d’azione medio, questo Star Trek risulta molto curato, con un buon equilibrio tra scene d’azione e cura dei personaggi, e soprattutto con alcuni tocchi umoristici che gli impediscono di risultare troppo pesante. Giudizio positivo, quindi, e speriamo che negli inevitabili seguiti la qualità venga mantenuta. Certo, se poi ogni tanto uscisse un film di fantascienza veramente innovativo, invece che basato su una serie del secolo scorso…

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FIlm: Come Dio comanda

Dal romanzo di Niccolò Ammaniti. Rino Zena è un operaio disoccupato, seguace di una mistica nazista e violenta, ma a modo suo integerrimo, che si prende cura, oltre che del proprio figlio tredicenne Cristiano, anche di un povero ritardato, soprannominato Quattro Formaggi. Rino vive nel terrore che gli assistenti sociali gli possano portare via Cristiano. Durante una notte di tempesta, una serie di eventi drammatici cambierà la vita dei tre personaggi…
Gabriele Salvatores aveva già trasportato sullos chermo con successo un altro romanzo di Ammaniti, Io non ho paura. Ma lì l’impresa era facile, dato che il libro era breve e seguiva un’unica vicenda, e sembrava fatto apposta per finire sullo schermo. Un libro come Come Dio comanda, lungo intricato e pieno di deviazioni, presenta ben altre difficoltà. Era inevitabile "asciugare" la storia eliminando dei personaggi, e probabilmente Salvatores ha fatto l’unica scelta possibile eliminando dalla trama Danilo e tutta la storia della rapina che lui e Rino nel romanzo tentano disastrosamente di organizzare. E tuttavia non si può fare a meno di notare che, riducendo in questo modo la storia, buona parte del contenuto del libro va perduta. Il ritratto spietato del Nordest in cui sono solo i soldi che contano viene affidato solo alla discutibile retorica nazista di Rino. E anche il tema principale evocato dal titolo, che è quiello per cui tutti i personaggi chiamano continuamente in causa un Dio sfuggente (ma reso presente dalla colossale tempesta), risulta parecchio indebolito. Alla fine tutto il romanzo risulta ridotto a un rapporto tormentato ma solido tra padre e figlio. E ci si chiede: possibile che il cinema italiano debba ridurre qualunque tema a una questione di rapporti familiari?
Per il resto, che Salvatores sia un regista tecnicamente dotato non èin discussione, e infatti il film ha un ottimo casting, delle location perfette, sonoro e fotografia di qualità (splendide le scene notturne sotto la pioggia), suspence da vendere. Un buon prodotto, insomma, cui manca però la scintilla che ne farebbe veramente un film d’autore.

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Film: "Pranzo di Ferragosto"

Gianni, che vive insieme all’anziana madre e non riesce a sbarcare il lunario, si trova costretto ad accettare la proposta dell’amministratore del condominio, che gli coprirà parte delle spese se ospiterà la propria madre per Ferragosto. Ma al momento cruciale l’uomo gli affida non una sola vecchietta, ma due. E anche il medico di fiducia, che lo cura gratis, in cambio gli chiede di ospitarne una quarta…
Pranzo di Ferragosto è il film di cui tutti in questo momento parlano bene. Devo dire però che, anche se il film si lascia vedere con piacere, arrivato ai titoli di coda mi sono trovato a chiedermi il perché di tutto questo entusiasmo. È vero che Gianni Di Gregorio, regista e protagonista, è bravo e simpatico. È vero che le quattro vecchiette, non professioniste, se la cavano meglio di attrici navigate. È vero che il film emana quasi sempre una sensazione di assoluto realismo, come se le scene fossero state improvvisate sul momento (e probabilmente è proprio così, come dimostrano spesso anche le inquadrature disordinate el a fotografia sgranata). Ed è vero che il ritratto della vecchiaia che emerge dalle immagini è veritiero e incisivo senza mai scadere nel patetico o nella macchietta. E però, a mio avviso, questi dovrebbero essere solo gli ottimi elementi di partenza di un film, che poi li dovrebbe utilizzare per farci qualcosa. Invece, dopo appena un’ora e un quarto, una volta che tutte e vecchiette ci sono diventate familiari, il film finisce (con un finale che alcuni definiscono spiazzante, ma che a me è parso abbastanza prevedibile) e scorrono i titoli di coda. Non so, a me pare un po’ poco. Anche nei più strampalati e improvviati film di Jim Jarmusch non ci si limitava a presentare i personaggi e a farli interagire, ma c’era anche qualche spunto di sceneggiatura. Qui invece ci si accontenta di un risultato che carino è carino, figuriamoci, e lo è anche in un senso diverso e migliore del classico film italiano "carino". Però da quello che viene spacciato per film-rivelazione mi aspettavo di più.

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Film: Kung-Fu Panda

Il maestro di una scuola di Kung-Fu deve scegliere quale degli allievi è destinato a diventare il guerriero-drago, e a ricevere la pergamena che gli consentirà di assumere un enorme potere guerresco. Ma, inopinatamente, i segni del destino indicano Po, un panda grasso e inetto che sembra del tutto inadatto a diventare un temibile guerriero. La situazione si complica quando un feroce ex-allievo della scuola fugge di prigione e si prepara a compiere la sua vendetta sugli abitanti del villaggio…
Non sono mai stato un grande appassionato delle animazioni Dreamworks, sempre più occupate ad ammiccare al mondo adulto e contemporaneo che a raccontare una bella storia (persino l’osannata serie di Shrek si macchia, a mio avviso, di questo peccato). Ma, finalmente, ecco l’eccezione: Kung-Fu Panda è un cartone animato godibilissimo che, proprio perché non si fa carico di ambizioni eccessive, coglie perfettamente nel segno. La storia, semplice, lineare e risaputa, potrebbe essere quella di un qualsiasi film di arti marziali di Hong Kong. Gli autori si sono limitati a lavorare sulla caratterizzazione dei personaggi, e hanno fatto un lavoro splendido. Gli si potrebbe rimproverare che soltanto Po e il suo maestro Shifu sono personaggi davvero sviluppati, ma questo è uno dei pregi del film: l’avere evitato complicazioni eccessive. La trama scorre piacevolmente alternando momenti drammatici e comici, e si ride per le situazioni più che per le singole gag. La regia parodizza argutamente gli eccessi della filmografia di Hong Kong, inclusi rallentatori e fermi immagine, ma senza appesantire con troppe citazioni. Persino la morale "Zen" della faccenda viene illustrata in modo poetico e senza eccessi di retorica (un plus assoluto del film: la totale assenza di numeri cantati!). Insomma un gioiellino da vedere senz’altro, per tutte le età.

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