Come costruire un alieno

Questo è uno di quei libri che ho deciso di leggere nell’istante stesso in cui ne ho appreso l’esistenza. Come occasionale autore di fantascienza, infatti, mi sono sempre posto il problema di come creare degli alieni che non fossero i soliti “umanoidi un po’ strani” che si incontrano spesso nelle space opera, ma che dessero veramente un effetto di alienità, pur essendo credibili dal punto di vista fantascientifico.

Da questo punto di vista il contenuto mantiene solo in parte quanto promette il titolo. Anche se l’autore appare ferratissimo nel campo della fantascienza (sono decine i titoli di libri e film, famosi e oscuri, recenti o d’epoca, citati a proposito), ha deciso di rimanere fermamente ancorato a ciò che conosciamo davvero, e cioè la vita sulla Terra, senza seguire ipotesi più fantasiose. Non si parla quindi, se non per accenni, di forme di vita con basi diverse dal carbonio, tantomeno di idee più eterodosse come forme di vita basate su pura energia.

Quello che il libro fa, invece, è esaminare quello che sappiamo di come si è evoluta la vita sulla Terra e analizzare quale sarebbe potuto essere il risultato se le cose fossero state diverse in qualche momento dell’evoluzione. Un approccio forse meno utile all’autore di fantascienza (non del tutto inutile, comunque, anzi: nel corso della lettura mi sono venute in mente diverse razze aliene davvero bizzarre), ma non meno interessante.

Consiglio quindi Come costruire un alieno a chiunque abbia voglia di rinfrescare e aggiornare le sue conoscenze su biologia, evoluzione, etologia, nonché scoprire molte delle tante stranezze che il corso dell’evoluzione ha prodotto sul nostro pianeta. Di particolare interesse la bibliografia, che offre molti modi per approfondire i temi che nel testo forzatamente vengono solo accennati. Il testo è accessibile anche ai non addetti ai lavori; tuttavia, anche se il tono è colloquiale, l’approccio è rigoroso, e richiede quindi una certa attitudine a letture scientifiche complesse.

Volendo fare una critica, direi che il più grave difetto di Come costruire un alieno è la completa assenza di illustrazioni. Viene citata ogni sorta di strana creatura, e sapere che aspetto hanno un desulfovibrio audaxviator o un eterocefalo glabro senza dover googlare avrebbe sicuramente facilitato l’immersione nella lettura.

Disclaimer: libro ricevuto in visione, su mia richiesta, da Codice Edizioni

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Film anteprima: Il Mondo dei Replicanti




In un futuro non troppo lontano, il mondo è stato rivoluzionato dall’introduzione dei “surrogati”, robot umanoidi che possono essere controllati a distanza da un essere umano comodamente seduto in una poltrona in casa propria. Usare un surrogato significa esplorare il mondo con una versione più forte e più bella di se stessi, e in più poterlo fare senza correre alcun rischio, dato che la cosa più grave che può accadere è la distruzione del surrogato. La cosa è così attraente che ormai le strade sono popolate solo di surrogati, mentre gli esseri umani stanno rintanati in casa a vivere le loro vite per procura.  Soltanto un ristretto numero di dissidenti vive in riserve dove l’uso dei surrogati è vietato. Ma questo stato di cose rischia di precipitare rapidamente quando qualcuno comincia a usare una pistola che non solo uccide i surrogati, ma contemporaneamente anche le persone a loro collegate…

È evidente che nel girare questo film ispirato a un graphic novel, il regista Jonathan Mostow (già autore del dimenticabile Terminator 3) aveva intenzione di ispirarsi a modelli elevati, come il celeberrimo Blade Runner, esplicitamente citato in alcune scene (e anche nel titolo italiano, mentre quello originale è Surrogates). E in effetti questo non è il “solito” film fracassone pieno solo di sparatorie ed effetti speciali (che pure non mancano), ma riesce a costruire immagini di un mondo che risulta credibile pur essendo totalmente straniante. Un mondo in cui tutte le persone sembrano stelle del cinema (ma hanno a casa un alter ego trasandato e invecchiato), in cui le “persone” assistono con curiosità alle sparatorie, non temendo di essere uccise, o in cui lo stesso corpo meccanico può essere usato in sequenza da più persone diverse. Tuttavia gran parte dello sforzo registico viene vanificato da una sceneggiatura semplicistica, in cui la tecnologia viene descritta in modo inverosimile (un hacker operando da un singolo computer in una qualsiasi stazione di polizia può infettare tutti i surrogati del mondo contemporaneamente…), e usata per veicolare una morale trita (la tecnologia porta le persona a straniarsi e ignorare i propri veri sentimenti) che, nell’era di Internet e di Facebook, suona davvero improponibile. Peccato, perché alcuni spunti del film avrebbero meritato uno sviluppo migliore. Bruce Willis, pur penalizzato dal trucco da bambolotto del suo alter ego meccanico, regge comunque bene il ruolo di protagonista.

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Film: Moon

MoonUna base spaziale sul lato nascosto della Luna, dove si estrae dalle rocce lunari l’elio-3 necessario agli impianti a fusione terrestri, è abitata da un uomo solo, Sam, in attesa che il suo contratto triennale scada e gli consenta di fare ritorno sulla Terra. Un giorno Sam ha un incidente che gli fa perdere conoscenza. Quando rinviene, non ricorda bene cosa gli è successo, e comincia a notare delle incongruenze. Ben presto si accorgerà che la sua situazione è completamente diversa da quella che immaginava…
Moon era un film estremamente atteso. Non solo perché si tratta del debutto alla regia di Duncan Jones, noto per essere il figlio di David Bowie. Ma soprattutto perché è quello che gli appassionati attendevano con sempre maggiore impazienza: un film di fantascienza una volta tanto basato su una sceneggiatura autenticamente fantascientifica nelle situazioni e nei personaggi, e non su un pretesto per sfoderare effetti speciali e battaglie. Dopo averlo visto, posso dire che l’attesa era giustificata solo in parte. In effetti, Moon è davvero un film di fantascienza vecchio stile. Guardandolo è difficile non pensare a 2001: Odissea nello Spazio, Dark Star, 2002 la Seconda Odissea, Atmosfera Zero, Spazio: 1999 e non so più quanti altri film e telefilm di fantascienza del passato. Con questo non intendo dire che si tratti di un film nostalgico o citazionista, ma semplicemente che prende a modello un certo cinema in cui a essere protagonista non era l’azione vertiginosa, ma lo sottile angoscia di trovarsi nell’ambiente ostile e alieno dello spazio. Da questo punto di vista Moon riesce benissimo nell’intento, e chi, come me, aveva nostalgia di questo tipo di cinema non può che rallegrarsene.
Al di là di questo, però, Moon è un film riuscito solo a metà. La prima parte funziona benissimo, e costruisce abilmente la suspence utilzzando elementi classici in maniera originale e inconsueta. Quando però il mistero viene svelato, il film si affloscia un po’. Se da un lato vengono coraggiosamente evitate le soluzioni più ovvie, dall’altro però il potenziale drammatico di molte situazioni viene sfruttato solo in parte, e talvolta svilito da scappatoie che appaiono un po’ troppo facili. Anche il finale appare un po’ troppo semplicistico e positivo rispetto alla materia trattata.
In ogni caso guardare Moon mi ha fatto molto piacere e mi ha riportato a un tipo di cinema che credevo ormai scomparso. Un appassionato di fantascienza semplicemente non può perderselo (tenendo conto che anche a Milano per vederlo bisogna andare in un cinemino d’essai, immagino altrove le difficoltà!).

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Film: Star Trek


Una colossale astronave romulana, uscita dal nulla, attacca una nave terrestre distruggendola, per poi scomparire. Venticinque anni dopo la nave riappare attaccando il pianeta Vulcano. Ad affrontarla arriva l’Enterprise, con a bordo anche uno scapestrato cadetto, James Kirk, figlio del comandante della nave distrutta…
Fino a poco tempo fa, pareva certo che di Star Trek non si sarebbe più sentito parlare. Dopo quarantacinque anni, cinque serie televisive e dieci film, di qualità declinante fino all’imbarazzo, si poteva tranquillamente pensare il potenziale dell’universo trekkie fosse definitivamente esaurito. Invece J. J. Abrams (la mente dietro alla serie televisiva Lost, se qualcuno non lo conoscesse) ha compiuto un piccolo miracolo, grazie a un’idea forse persino scontata, ma riuscitissima: un paradosso temporale. Nel corso del film veniamo infatti a scoprire che, a causa di un viaggio nel tempo, la storia è stata cambiata. Possiamo quindi goderci il meglio di entrambi i mondi: da un lato i personaggi sono gli stessi che amiamo da oltre quarant’anni, con i loro tic, i loro modi di dire e di fare, e anche numerosi elementi della loro storia. Dall’altro però le loro vite sono state differenti da quelle che conosciamo, e quindi possono essere diversi quel tanto che basta da poterli aggiornare senza ledere la continuità storica e logica della serie. Così vediamo i membri dell’equipaggio dell’Enterprise amare e fare sesso, in modi che prima avevamo potuto solo intuire. Vediamo i loro caratteri estremizzati, e li vediamo immersi in un atmosfera fa film d’azione del XXI secolo che con il vecchio Star Trek ha poco a che vedere. Il risultato è essenzialmente un film divertente, che manda in brodo di giuggiole il trekkie veterano che ritrova i suoi beniamini aggiornati al Duemila, ma che risulta digeribile anche a chi della saga conosce ben poco. Il che non signficica che il film sia privo di difetti. In particolare il cattivo di turno è del tutto monodimensionale, e le sue semplicistiche motivazioni mal si accordano con le sue azioni arzigogolate e sproporzionate. Ma, in fin dei conti, anche molti episodi passati della saga avevano difetti del genere, e non ci avevano impedito di goderceli. Rispetto al film d’azione medio, questo Star Trek risulta molto curato, con un buon equilibrio tra scene d’azione e cura dei personaggi, e soprattutto con alcuni tocchi umoristici che gli impediscono di risultare troppo pesante. Giudizio positivo, quindi, e speriamo che negli inevitabili seguiti la qualità venga mantenuta. Certo, se poi ogni tanto uscisse un film di fantascienza veramente innovativo, invece che basato su una serie del secolo scorso…

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Un futuro di delitti

Vi segnalo che su Delos è apparso un mio articolo sui noir fantascientifici. Non è articolato ed esauriente come avrei voluto, perché purtroppo è stato scritto in un periodo di totale ingorgo lavorativo. Ma spero che possa comunque risultare interessante.

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Libro: Guida Galattica dei Gourmet

GGGQuesta, più che una recensione, è una segnalazione: non sarebbe infatti corretto recensire un libro di cui sono tra gli autori. In effetti un mio raccontio, Missione diplomatica, appare tra le sue pagine.
L’occasione per l’uscita dell’antologia è stato il decennalle di Memorie di un cuoco d’astronave di Massimo Mongai. Ricordo che all’epoca il libro non mi entusiasmò: mi parve sì, divertente, simpatico, piacevole, ma anche di un umorismo un po’ troppo semplice, scontato, per meritare il premio Urania. Col senno di poi, però, devo correggere il mio giudizio, perché Mongai è indubbiamente riuscito a creare un personaggio in grado di rimanere nella testa della gente, una specie di archetipo come il capitano Kirk, in grado di veicolare i contenuti più vari. E in effetti la cosa più divertente di questa raccolta di racconti è vedere come il personaggio del cuoco spaziale Rudy Turturro sia stato preso in mano da ben 19 autori rimanendo sempre essenzialmente se stesso, nonostante la grande varietà di stili e di situazioni.
Forse il mio giudizio è distorto dal fatot di essere stato tra i prescelti, ma devo lodare l’opera dei curatori, che sono riusciti a mettere insieme un gran numero di racconti, alcuni buoni (il mio preferito è quello di Francesco Grasso) altri un po’ meno, ma senza i terribili sbalzi di qualità che si trovano spesso in opere di questo genere.
Il libro sembra distribuito molto bene (perlomeno, a Mlano si trova ovunque), se qualcuno dovesse acquistarlo e leggere il mio racconto mi faccia sapere il suo giudizio.

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Tu prostata nella polvere

In questi giorni, per tenermi in esercizio e per vedere cosa produce la fantascienza tedesca,  sto leggendo un romanzo in tedesco: Das Cusanus-Spiel di Wolfgang Jeschke. Sono ancora troppo indietro per parlarvi del libro in sé (lo farò a tempo debito), ma una cosa mi ha colpito fin dalle prime pagine. L’autore ha ambientato il romanzo a Roma, città che deve conoscere personalmente, visto che si lancia in riferimenti topografici piuttosto precisi. Purtroppo però più spesso che no ci va di mezzo l’ortografia italiana. Una buona metà della toponomastica citata è sbagliata (piazza Triluzza, piazza dei Colosseo, ponte San Fabricio, isola Tibertina, per non parlare delle automobili marca Fiat Lux o della esilarante citazione dell’Aida che dà il titolo a questo post. Che ci sarebbe voluto a dare una controllatina ai nomi stranieri nel testo? Pare che la sciatteria editoriale in Germania sia allo stesso livello che in ITalia. Non so se ci sia da compiacersene…

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Ritorno a Delos

Ho finalmente ripreso, dopo aver rimandato per tanto tempo, la mia collaborazione con Delos.
Il mio primo articolo, sulla fantascienza tedesca, lo trovate qui.

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Libro: Sorpresi dalle Tenebre

Sorpresi dalle TenebreIn un mondo in cui quasi tutti sono lupi mannari, i pochi esseri umani che non si trasformano al sorgere della luna piena sono obbligati a servire in una sorta di servizio d’ordine, per evitare che i trasformati provochino danni. Lola Galley è una di loro, ed entra in crisi quando un suo collega viene assassinato. Per ucciderlo hanno usato una delle pallottole d’argento che si usano per difendersi dai mannari. E’ forse un simbolo?
Quando ho letto il risvolto di copertina di questo libro, ho deciso di procurarmelo immediatamente: mi è sembrata un’idea troppo buona! Mi aspettavo qualcosa di simile allo splendido Cacciatori delle tenebre di Barbara Hambly (in cui un essere umano viene assunto dai vampiri per indagare di giorno, quando loro non possono agire). Purtroppo devo dire, a conti fatti, che il libro non ha mantenuto la sua promessa e mi ha lasciato parecchio deluso. Questo a causa del fatto che l’autrice non ha saputo costruire bene il mondo in cui ha ambientato la vicenda.
Per cominciare, un delitto capitale: in un mondo popolato da lupi mannari, non viene chiarito a sufficienza cosa significhi essere uno di loro. Da un lato i mannari vengono descritti come orgogliosi di essere tali, al punto che non rinuncerebbero mai al fatto di trasformarsi, e che provano una istintiva diffidenza e repulsione verso chi non si trasforma. Dall’altro però i mannari non ricordano quasi nulla di ciò che fanno quando sono in forma di lupo, e hanno costruito una società identica alla nostra, che tiene conto solo del loro lato umano, e che li obbliga a rinchiudersi in casa ogni volta che si trasformano. A me pare una grossa contraddizione, che rende molto nebuloso quello che dovrebbe essere uno degli aspetti fondamentali del libro.
Non è chiaro nemmeno il perché i lupi mannari abbiano sentito la necessità di rinchiudersi e di affidare ai non-licantropi, che pure odiano, il compito di catturare coloro che non rispettano il divieto. Ci viene detto più volte che l’opera di controllo dei non-licantropi è l’unica cosa che salvi il mondo dal caos e dalla carneficina, però i lupi mannari non ci vengono mai mostrati nell’atto di aggredire un loro simile (al contrario, sembrano andare perfettamente d’accordo tra loro) o di provocare danni. Gli unici morti e feriti che si vedono sono tra i non-licantropi che cercano di catturarli. Viene da pensare che, se fossero questi ultimi a rimanere rinchiusi durante la luna piena, non accadrebbe nulla.
Infine, è totalmente assurda e contradditoria la descrizione dei poteri che vengono attribuiti ai non-licantropi. Da un lato, viene descritto come siano obbligati a non fare alcun male ai mannari che catturano, e come questo li obblighi a correre gravissimi rischi, con la costante minaccia di provvedimenti disciplinari e risarcimenti danni se non seguono le pericolose procedure. Dall’altro però, se stanno indagando su un reato commesso da un mannaro in forma di lupo, i loro poteri sono pressoché illimitati: possono prelevare persone all’insaputa di tutti, tenerle per settimane rinchiuse in celle medioevali senza rendere conto a nessuno, e persino torturarle impunemente. È evidente che queste due situazioni non possono coesistere. Quasi tutte le istituzioni dei non-licantropi appaiono costruite in modo forzato, senza che ci sia una reale motivazione perché le cose vadano così. Per esempio, viene detto che i non-licantropi subiscono spesso molestie sessuali da ragazzi, in quanto sono obbligati a passare ogni notte di luna piena nei rifugi, in condizione di promiscuità. E non si può fare a meno di chiedersi quale difficoltà abbia impedito loro di creare rifugi meno promiscui: la motivazione della mancanza di personale appare piuttosto inconsistente.
Insomma, il mondo in cui si svolge Sorpresi dalle tenebre difetta totalmente di logica. Ed è un peccato, perché l’autrice saprebbe scrivere molto bene. Lola Galley è un gran bel personaggio, col suo miscuglio di fragilità e aggressività, e la sua evoluzione viene descritta con grande finezza psicologica. Anche la trama gialla funziona piuttosto bene, e conduce a un gran bel finale. Ed è particolarmente riuscito il modo in cui l’autrice sfrutta l’inversione per cui sono i non-licantropi a sentirsi dei "mostri", al punto di desiderare di avere figli mannari. Insomma, questo romanzo è un po’ come una Ferrari cui hanno versato nafta nel serbatoio: possiamo ammirarne la linea, decantare le doti del motore… ma non partirà mai. Che occasione sprecata!

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Film: Sunshine

SunshineL’astronave Icarus 2 è in viaggio verso il Sole, con l’incarico di sganciare una bomba di eccezionale potenza che dovrebbe riattivarne le funzioni; la nostra stella, infatti, è in declino e sta lasciando la Terra in preda al gelo. La missione è gravata da una terribile responsabilità: già un precedente tentativo è fallito, e non sarà più possibile costruire altre bombe. Per giunta nel momento cruciale gli uomini saranno abbandonati a se stessi, visto che le radiazioni solari impediranno le comunicazioni con la Terra.
Dopo aver affrontato l’horror in 28 giorni dopo, questa volta Danny Boyle si cimenta con la fantascienza, sempre prendendo a prestito modelli del cinema preesistenti per adattarli al suo personalissimo stile. Qui il modello dominante è inarrivabile, visto che la Icarus 2 è evidentemente figlia della Discovery di 2001: Odissea nello spazio, film di cui Sunshine cita in modo letterale alcuni episodi (per esempio il salto senza tuta da un’astronave all’altra). Altre fonti evidenti sono le serre spaziali di 2002: La seconda odissea e i videomessaggi di Dark Star. Ma identificarle tutte è un gioco che potrebbe andare avanti all’infinito.
Alcune delle premesse scientifiche di base del film lasciano molto a desiderare. Per cominciare, è del tutto inverosimile che una bomba a fissione, persino se contenesse tutto l’uranio della Terra, potrebbe avere effetti percettibile sul Sole, le cui energie sono di un ordine di grandezza decisamente superiore. Inoltre la sceneggiatura del film sembra assumere che si possa arrivare a 20 milioni di chilometri dal sole, entrare in orbita facendo una piccola correzione di rotta, e rimanere lì indefinitamente. Non è così: salvo motori estremamente potenti (e una decelerazione violentissima che causerebbe seri problemi ai passeggeri), qualunque cosa arrivi così vicino al Sole è destinata o a caderci dentro, oppure a sfiorarlo per poi allontanarsi rapidamente (come fanno le comete). In effetti, con queste premesse, mi aspettavo un film raffazzonato basato sulla pura azione. Invece, niente di tutto questo. Sunshine si fa rapidamente perdonare questi peccati con l’idea dell’astronave che deve rimanere nascosta dietro uno schermo per evitare di essere bruciata dal Sole, cinematograficamente molto originale e resa con rigore e realismo.
L’ambientazione fantascientifica non modifica lo stile di Boyle, che qui resta vicinissimo al suo primo film, Piccoli omicidi tra amici. Personaggi tratteggiati in modo stilizzatissimo ma efficace, dialoghi secchi senza nessuno spazio per lunghe spiegazioni o tirate retoriche, ritmo che inizia con una certa lentezza e continua a salire senza mai fare un passo indietro, prendendo lo spettatore nel vortice della tensione. Posto al bivio tra la realizzazione di un film d’azione e uno filosofico, il regista inglese sceglie di fare entrambe le cose. Da un lato, basando tutta la costruzione del film sulla suspence, come se fosse una nuova puntata di Alien. Dall’altro, non trattenendosi dall’introdurre tematiche importanti e continuando a sottolinearle anche a livello visivo.
Il tema centrale è quello della fascinazione per il Sole, che dà la vita ma può anche distruggerla, da cui discende il dualismo del rapporto degli uomini con la Natura, segnato dal desiderio di dominarla tramite la scienza, ma anche dalla pulsione ad arrendersi ai suoi ritmi. Boyle non esita ad abbondare con le simbologie, dall’osservatorio solare realizzato come un tempio ai corpi degli uomini che ritornano cenere.
Operazione riuscita? Solo a metà. Se il regista fosse riuscito a creare un film d’azione avvincente e contemporaneamente ad affrontare temi così elevati, avrebbe creato un capolavoro della fantascienza. Nel finale, invece, qualche nodo viene al pettine: dal punto di vista dell’azione, il montaggio diventa talmente concitato che negli ultimi minuti si ha qualche difficoltà a seguire la vicenda. Mentre dal punto di vista simbolico il messaggio risulta a volte non sufficientemente approfondito (cosa rappresenterà, per esempio, la piantina che si ostina a crescere nel giardino distrutto da un incendio?).
In ogni caso, con tutti i suoi difetti, Sunshine risulta uno dei migliori film di fantascienza “pura” dell’ultimo decennio. Molto più coinvolgente di tanti altri, e con ambizioni che, seppure non totalmente realizzate, meritano una visione. Lo aiutano un cast di attori non-divi (tranne la sottoutilizzata Michelle Yeoh) ma bene in parte, e un’evocativa colonna sonora degli Underworld, efficacissimo contrappunto alle immagini. Ce ne fossero, di film così.

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