Highwayman

Recensione del fumetto “Highwayman” di Koren Shadmi.

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Avevo già apprezzato moltissimo Koren Shadmi per Abaddon, inquietante variazione sul tema dell’Inferno. Molto meno mi era piaciuto Rise of the Dungeon Master, biografia a fumetti di Gary Gygax in cui il disegno di Shadmi veniva banalizzato dalla poco efficace sceneggiatura di David Kushner. Ora arriva questo Highwayman, dove l’autore di origine israeliana torna a curare anche la sceneggiatura e arriva di nuovo ai massimi livelli con una storia puramente fantascientifica, diventata immediatamente la mia preferita nella sua produzione.

Siamo sempre dalle parti dell’Inferno, anche se in questo caso è un Inferno in terra. Il protagonista è un uomo senza qualità colpito dalla maledizione dell’immortalità: quando muore resuscita poco dopo, guarito e pronto a riprendere il cammino. Nei sei episodi che compongono la storia (più un settimo collocato al penultimo posto, che in un flashback ambientato nell’America dei primi pionieri ci fa conoscere l’origine del suo tormento) l’uomo vaga alla ricerca della Fonte, obiettivo che dovrebbe spiegargli il perché della sua situazione e dargli finalmente la pace. A ogni episodio corrisponde un forte salto temporale, dal periodo tra le due guerre fino a un futuro lontanissimo, e il viaggiatore si trova a testimoniare della progressiva distruzione della vita sul nostro pianeta e della terribile decadenza della civiltà umana, incontrando nel frattempo altri che condividono, sempre senza comprenderlo, il suo destino di immortale.

Quello di Highwayman non è uno spunto particolarmente originale, ma la sua forza è nella solidità della realizzazione. Una serie di personaggi credibili e memorabili, e una serie di sprazzi vertiginosi che permettono alla mente del lettore di riempire gli spazi lasciati vuoti e disegnare una visione inquietante del futuro dell’umanità. Il tratto di Shadmi è essenziale, non sfrutta grandi effetti ma minuscoli dettagli significativi che vanno a colpire l’immaginazione.

Quello che ho apprezzato di più è l’assenza totale di misticismo e finalismo nel punto di vista dall’autore. La spiegazione finale arriva ed è amara, banale e priva di vero senso come tutto il resto. Il protagonista rifiuta granitico ogni tentativo di giustificare la sofferenza con un fine più grande, ma rimane tenacemente attaccato alla propria umanità, alla propria condizione di testimone dell’Universo che è l’unica cosa che dia un senso al tutto.

Da leggere.

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Come costruire un alieno

Questo è uno di quei libri che ho deciso di leggere nell’istante stesso in cui ne ho appreso l’esistenza. Come occasionale autore di fantascienza, infatti, mi sono sempre posto il problema di come creare degli alieni che non fossero i soliti “umanoidi un po’ strani” che si incontrano spesso nelle space opera, ma che dessero veramente un effetto di alienità, pur essendo credibili dal punto di vista fantascientifico.

Da questo punto di vista il contenuto mantiene solo in parte quanto promette il titolo. Anche se l’autore appare ferratissimo nel campo della fantascienza (sono decine i titoli di libri e film, famosi e oscuri, recenti o d’epoca, citati a proposito), ha deciso di rimanere fermamente ancorato a ciò che conosciamo davvero, e cioè la vita sulla Terra, senza seguire ipotesi più fantasiose. Non si parla quindi, se non per accenni, di forme di vita con basi diverse dal carbonio, tantomeno di idee più eterodosse come forme di vita basate su pura energia.

Quello che il libro fa, invece, è esaminare quello che sappiamo di come si è evoluta la vita sulla Terra e analizzare quale sarebbe potuto essere il risultato se le cose fossero state diverse in qualche momento dell’evoluzione. Un approccio forse meno utile all’autore di fantascienza (non del tutto inutile, comunque, anzi: nel corso della lettura mi sono venute in mente diverse razze aliene davvero bizzarre), ma non meno interessante.

Consiglio quindi Come costruire un alieno a chiunque abbia voglia di rinfrescare e aggiornare le sue conoscenze su biologia, evoluzione, etologia, nonché scoprire molte delle tante stranezze che il corso dell’evoluzione ha prodotto sul nostro pianeta. Di particolare interesse la bibliografia, che offre molti modi per approfondire i temi che nel testo forzatamente vengono solo accennati. Il testo è accessibile anche ai non addetti ai lavori; tuttavia, anche se il tono è colloquiale, l’approccio è rigoroso, e richiede quindi una certa attitudine a letture scientifiche complesse.

Volendo fare una critica, direi che il più grave difetto di Come costruire un alieno è la completa assenza di illustrazioni. Viene citata ogni sorta di strana creatura, e sapere che aspetto hanno un desulfovibrio audaxviator o un eterocefalo glabro senza dover googlare avrebbe sicuramente facilitato l’immersione nella lettura.

Disclaimer: libro ricevuto in visione, su mia richiesta, da Codice Edizioni

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Metamorfosi della mente

È uscita l’antologia di fantascienza Metamorfosi della mente a cura di Gian Filippo Pizzo per l’editore Tabula Fati.

Contiene anche un mio racconto inedito intitolato Money Talks!

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Space Opera

Dopo una guerra che ha quasi distrutto la Galassia, i tanti popoli alieni hanno deciso di seguire una regola: quando una specie si evolve a sufficienza da poter diventare un pericolo, bisogna decidere se può essere considerata o meno senziente. Se la risposta è sì, verrà accolta pacificamente nel consesso delle altre civiltà galattiche. Altrimenti verrà sterminata senza pietà e cancellata dall’universo. Il criterio è semplice: per essere riconosciuta senziente, la specie sotto esame deve partecipare all’annuale concorso canoro interplanetario e riuscire a non arrivare all’ultimo posto. È arrivato il momento dei terrestri. Il problema è che, secondo gli alieni, l’unica band della Terra che ha qualche possibilità di incontrare il gusto galattico è un gruppo scalcinato, dimenticato e sciolto dopo la morte della batterista: Decibel Jones & the Absolute Zeros…

È stata davvero una piacevole sorpresa l’uscita di questo libro per i tipi della neonata casa editrice 21lettere. Negli ultimi anni l’Italia è rimasta tagliata fuori dalla stragrande maggioranza delle novità editoriali in campo fantascientifico. Il fatto che il romanzo di un’autrice da noi ancora sconosciuta arrivi nelle librerie appena un anno dopo la sua uscita è quindi decisamente insolito. Se poi aggiungiamo che si tratta di un libro molto particolare, e anche difficile da tradurre, l’evento ha quasi del miracoloso.

L’autrice Catherynne M. Valente (è uno pseudonimo, un po’ autolesionista, data la quasi impossibilità di azzeccare lo spelling giusto al primo tentativo) è statunitense, ha già pubblicato un buon numero di romanzi fantascientifici e fantastici, ha vinto il premio Tiptree ed è stata candidata allo Hugo (anche con questo libro), al World Fantasy, al Locus e chi più ne ha più ne metta. Questa volta ha deciso di scrivere un romanzo dichiaratamente ispirato alla Guida Galattica per Autostoppisti di Douglas Adams, mettendoci dentro la sua grande passione per l’Eurovision Song Contest.

A favore del libro ci sono molti argomenti. In primo luogo, l’idea di base è veramente grandiosa. Non appena ho saputo che si parlava di legare il destino della Terra a una gara canora interplanetaria, mi è immediatamente venuta una gran voglia di leggerlo. Con un’idea così, ho pensato, praticamente il libro si scrive da solo.

In secondo luogo, l’evocazione di Douglas Adams non è campata in aria. Si potrebbe ritenere un po’ presuntuoso voler seguire le orme di uno degli autori più venduti e più amati della storia della fantascienza, ma è innegabile che Valente indossi piuttosto bene questi ingombranti panni, riuscendo a evocare in ogni pagina la scrittura di Adams senza mai sembrare una pedissequa imitazione, anzi, mantenendo sempre la propria individualità.

In terzo luogo, Valente è riuscita in un’impresa notevole: dar vita a un repertorio di ben diciotto razze aliene, tutte ugualmente bizzarre, assurde e ben caratterizzate, dipingendo un quadro molto solido e dettagliato dei loro reciproci rapporti. Un lavoro notevole, forse persino un po’ sprecato per questo contesto (al confronto l’universo di Adams appare volutamente molto più casuale, un luogo in cui qualunque cosa può accadere in qualsiasi momento), ma comunque non alla portata di tutti .

Infine, il pregio maggiore: nelle pagine di Space Opera Valente riesce anche a infilare con estrema naturalezza una serie di stoccate al modo di vivere di noi esseri umani. Che era anche uno dei pregi di Adams, e che non era affatto scontato trovare in una sua epigona: non è affatto facile riuscire a essere profondi con leggerezza.

Vi sto dicendo che Space Opera è un capolavoro, o perlomeno un libro che non può assolutamente non piacervi? Ebbene no. Perché purtroppo il libro ha anche dei difetti. Grossi difetti. Che purtroppo riescono a vanificare gran parte di ciò che ho appena detto.

Il problema più grande di Space Opera è la quasi completa assenza di una trama. Il libro comincia ex abrupto con l’arrivo degli alieni sulla Terra, cui seguono l’annuncio del concorso e la partenza di Decibel Jones per lo spazio. A questo punto ci si aspetterebbe, sulla falsariga della Guida Galattica, un ottovolante di avventure assurde e mirabolanti che mettano in pericolo la vita e la salute mentale dei protagonisti fino all’ultima pagina. Invece non succede più niente. Le successive duecento e passa pagine sono occupate da quello che sostanzialmente è un colossale spiegone: mentre Jones e il suo compare viaggiano verso la meta tentando di comporre una canzone, un narratore onnisciente ci racconta tutto quello che è necessario sapere, e anche buona parte di quello che sarebbe superfluo sapere, sulla biografia della band, sulle diciotto razze senzienti che popolano la Galassia, sulle varie edizioni passate del concorso canoro, e così via.

Mi direte: è proprio necessaria una trama in un libro del genere? A mio avviso, eccome! Tanto più il contenuto vira verso il bizzarro e l’insensato, tanto più è utile che ci sia una vicenda intorno alla quale il lettore possa organizzare le informazioni. Se andiamo a guardare il romanzo ispiratore di Valente, la Guida Galattica, vediamo che al povero Arthur Dent capitano cose dal principio alla fine. Cose che, oltre a essere divertenti di per loro, offrono un comodo aggancio per le bizzarre dissertazioni dell’autore. Se assistiamo alla distruzione della Terra e alla cattura del protagonista da parte degli orribili vogon, saremo curiosi di leggere la spiegazione su chi siano questi alieni, molto più che se l’autore ce lo dicesse di punto in bianco prima ancora di averli fatti agire.

In Space Opera, purtroppo, questo non succede. Troppe informazioni vengono passate al lettore ben prima che sia stata stimolata la sua curiosità in proposito. Io non sono un fanatico a oltranza dello show, don’t tell, ma in questo libro è davvero tutto tell e niente show: persino la presentazione dei personaggi viene lasciata quasi interamente a lunghe dissertazioni invece che a dialoghi e azione. Ed è un peccato, anche e soprattutto perché l’autrice avrebbe tutte le capacità necessarie per fare diversamente. Lo vediamo nelle ultime 120 pagine del romanzo, quando finalmente gli Absolute Zeros sono arrivati sul pianeta Litost per cantare e suonare, e allora improvvisamente succedono cose, si pronunciano dialoghi e tutto diventa estremamente più appassionante e divertente. E allora perché non farlo prima?!

Altro problema, strettamente collegato col precedente, è quello dello stile. Perché le suddette dissertazioni sono scritte inanellando frasi lunghissime, piene di subordinate, infarcite di citazioni, allusioni, espressioni gergali, similitudini bislacche e chi più ne ha più ne metta. Ne leggi una, e rimani ammirato. Leggi un intero capitolo composto quasi esclusivamente da frasi del genere, e fai fatica. Ti capita di arrivare in fondo a una frase ed esserti dimenticato di cosa stava parlando. Ricominci daccapo, e quando arrivi di nuovo in fondo ancora non sei sicuro, e torni all’inizio del paragrafo. Anche apprezzando l’attenzione per lo stile, il rischio è che il ritmo e l’ironia vadano perduti.

Le cose ovviamente peggiorano leggendo il romanzo in traduzione. Non per criticare Alice Zanzottera, che ha affrontato con impegno e fantasia un compito difficilissimo, però la struttura sintattica dell’italiano appesantisce ulteriormente frasi già complicate. Forse sarebbe stato necessario spezzare qualche frase, anche a costo di allontanarsi dall’originale.

Insomma, questo libro lo dovete leggere o no? Secondo me vale comunque la pena, perché è insolito, originale e pieno di idee. Se però, come la promozione fatta dall’editore suggerirebbe, vi aspettate qualcosa in stile Guida Galattica, sappiate che qui incontrerete parecchie difficoltà in più.

Disclaimer: il libro mi è stato inviato gratuitamente, non sollecitato, dalla casa editrice.

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Mooncop

Uno come me, da sempre in bilico tra il proprio lato “umanistico” e quello “scientifico”, e impegnato a convincere gli altri che non c’è contraddizione tra i due, non può non provare una sfrenata ammirazione per Tom Gauld. Uno che riesce, mantenendo esattamente lo stesso stile, a disegnare vignette sia per il New Scientist che per le pagine letterarie del Guardian e del New Yorker. Uno il cui tumblr si chiama You’re Just Jealous of My Jetpack, cioè “siete solo gelosi del mio zaino-razzo”, frase che fa pronunciare al personaggio di un romanzo fantascientifico di fronte allo snobismo di altri personaggi che si considerano più “letterari”.

Ero leggermente dubbioso di fronte alla prospettiva di una storia “lunga” di Gauld: mi sembrava che il suo stile , già così rarefatto nelle sue vignette e strisce brevi, mal si prestasse a una forma più lunga. Sono felice di ammettere che mi sbagliavo: non solo Mooncop è una piacevolissima lettura, ma è una storia che solo nello stile minimalista di Gauld poteva essere espressa.

Il titolo significa “poliziotto lunare”, ma non aspettatevi scene d’azione. Il protagonista è un tutore della legge il cui coefficiente di risoluzione dei casi è pari al 100%… ma solo perché non ci sono mai casi da risolvere! La Luna è un luogo semideserto e in via di progressivo abbandono da parte degli esseri umani che, dopo averla colonizzata, non sembrano trovare alcun vero motivo per restarci. L’unico che sembra apprezzarla ancora è il nostro poliziotto, che dopo una serie di poetici e bizzarri incontri troverà (forse?), contemplando la Terra nel cielo, un motivo per restare. Una storia che si legge in un baleno, e che fa capire perché Gauld è un convincente interprete della realtà di oggi: per la sua capacità di esprimere la malinconia di un mondo dove il meraviglioso e il banale, il futuribile e il vetusto si accostano e si mescolano senza soluzione di continuità.

L’edizione italiana è di ottima qualità, il (poco) testo è tradotto da una scrittrice sulla cresta dell’onda, Claudia Durastanti.

Disclaimer: recensione scritta sulla base di copia ricevuta in omaggio, non sollecitata.

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Carnivori

uppercover-1 John, anche se il nome è maschile, è una donna, soldata e biologa, creata in vitro per servire lo Stato, e finita in galera per non essersi prestata a ricerche poco etiche. Ora ha l’occasione di ottenere la libertà in anticipo, a condizione di partecipare a una bizzarra indagine richiesta da Enebra, l’intelligenza artificiale: il suo compito è verificare se il mulk, l’onnipresente cibo di origine vegetale che permette a quasi tutti di nutrirsi in modo etico, non abbia in realtà un’origine extraterrestre…
A un romanzo di fantascienza chiedo tre cose: che sia avvincente e ben costruito, con una trama priva di lungaggini; che sia originale e non interamente basato su stereotipi; e che abbia qualcosa di interessante da dire sul presente e sul futuro. Ultimata la lettura di Carnivori di Franci Conforti, posso  dire di non essere rimasto deluso su nessuno dei tre fronti.
È la fortissima attualità del tema di fondo la forza principale del romanzo. Credo si possa dire che uno dei segni distintivi del XXI secolo sia il diffondersi di stili di vita che si pongono come “etici” e hanno l’obiettivo di far vivere l’uomo minimizzando l’impatto ambientale e le sofferenze per gli altri esseri viventi. E tuttavia ognuna di queste filosofie di vita deve prima o poi confrontarsi col fatto che la vita stessa si basa su una catena in cui la nascita e la crescita di ogni essere si basa sulla morte di qualcun altro. Conforti ha la capacità, ben rara in un autore al suo primo romanzo, di prendere un tema così ricco di implicazioni e svilupparlo fino alle estreme conseguenze, senza alcun didascalismo, ma con un equilibrio che suscita continue domande al lettore.
Il tutto attraverso una trama solida che svela a poco a poco le sue carte, passando senza scossoni da uno scenario ristretto a quello di una catastrofe planetaria, mantenendo desta l’attenzione fino alla fine; e attraverso un’ambientazione futuribile coerente e credibile sia dal punto di vista scientifico e tecnologico che da quello politico. Conforti usa una tecnica che apprezzo molto, quella di mettere in primo piano un personaggio tutto sommato minore per parlare della vicenda molto più grande che si svolge sullo sfondo. Tuttavia, se una critica si può fare al romanzo, è l’unicità del personaggio cui è affidato questo punto di vista. John Smith è una militare addestrata a mettere gli ordini al di sopra dei sentimenti, e nel corso della vicenda ha contatti quasi esclusivamente con persone come lei. Questo rende l’opera un po’ “monocromatica”: l’utilizzo, anche episodico, di qualche punto di vista differente, a mio avviso, l’avrebbe resa più definita, avrebbe chiarito meglio alcuni passaggi, e avrebbe permesso al lettore di immergersi di più nell’ambientazione.
Nondimeno un’opera riuscita, che mostra come le nuove leve della fantascienza italiana possano puntare molto in alto.
P.S.: Nota di merito per Kipple per aver dato alle stampe un’opera così interessante, ma nota di demerito per averlo fatto con un numero del tutto inaccettabile di refusi. Kremo, trovati un correttore di bozze in gamba!

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L'ultima colonia

Dopo gli eventi visti in Morire per Vivere e Le Brigate Fantasma, John e Jane si sono sposati, hanno avuto nuovi corpi più adatti alla vita civile, e vivono una pacifica vita da agricoltori insieme alla figlia Zoe. Ma l’Esercito ha ancora qualcosa in serbo per loro, e li convince a guidare una spedizione per colonizzare il pianeta Roanoke. Presto si renderanno conto che le cose non stanno esattamente come gli è stato detto, e che i civili loro affidati vengono usati come pedine in una partita diplomatica dove potrebbero tranquillamente essere sacrificati…

Questo è il terzo volume della serie Old Man’s War, per ora l’ultimo pubblicato in Italia, mentre negli USA sono già usciti anche Zoe’s Tale, che racconta gli stessi eventi di questo romanzo ma dal punto di vista di Zoe, e il successivo The Human Division, e sta per uscire The End of All Things.
Recensendo i due volumi precedenti avevo espresso le mie forti riserve verso l’impostazione politica dei romanzi di Scalzi, totalmente orientata verso un acritico militarismo. Tuttavia, nel corso di un’intervista che mi aveva rilasciato per Players, lo stesso autore mi aveva ammonito a non scambiare le posizioni dei personaggi per le sue, e a prendere in considerazione l’intera serie prima di giudicare. Devo riconoscere che in questo terzo episodio l’Esercito perde la sua immagine di istituzione totalmente positiva e viene descritto come fallibile, accentratore e manipolatore. Una brusca correzione di rotta (che peraltro non inficia le mie critiche agli episodi precedenti). Questa apertura progressista non è però bastata a farmi piacere il romanzo, che a mio avviso fa fare alla serie un passo indietro.
Attenzione: parlo seguendo i miei gusti personali. Dal punto di vista tecnico, L’Ultima Colonia è scritto piuttosto bene, con una trama piena di ritmo e di colpi di scena, personaggi ben caratterizzati, e continue variazioni di atmosfera che permettono di arrivare fino in fondo senza annoiarsi. E l’intreccio politico-diplomatico-militare è ben studiato.
Tuttavia io non riesco proprio ad appassionarmi alla visione retrò della fantascienza di Scalzi. Perlomeno nei due volumi precedenti c’era una tecnologia militare interessante, originale e moderna. Ma quando si esce dall’ambito strettamente guerresco l’autore perde tutta la sua inventiva. La società che descrive non solo non è futuribile, ma nemmeno contemporanea, e sembra essere stata concepita negli anni Cinquanta. Si direbbe che l’unico motivo per cui i personaggi colonizzano pianeti è trovare nuovi territori dove piantare patate e allevare maiali, e che il principale obiettivo strategico sia quello di moltiplicare la consistenza della propria popolazione. Concezioni decisamente fuori dal tempo.
Il punto più debole di tutta l’opera è però quello che sarebbe dovuto essere il suo centro, e cioè il pianeta Roanoke. Data la sua importanza nell’economia del romanzo mi sarei aspettato un buon livello di dettaglio e di originalità. Invece, tutto quello Scalzi ci dice di Roanoke si può riassumere in due righe: ci sono roditori simili a topi con quattro occhi, predatori simili a lupi con quattro occhi, abitanti primitivi ma intelligenti che somigliano a lupi mannari, e bellissimi tramonti, ma l’atmosfera puzza di ascelle. Stop. Un fondale di cartapesta sarebbe stato più interessante.
Mi sono reso conto che una fascia importante, e forse addirittura maggioritaria del pubblico della fantascienza ama molto i romanzi avventurosi, senza eccessive complicazioni scientifiche e ispirati a opere del passato. Per costoro L’Ultima Colonia contiene tutto quello che serve, confezionato in modo professionalmente valido. A me però è sembrato affrettato e privo di vero interesse.

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Distopie

DistopieCome dicevo qualche tempo fa, ultimamente ho preso l’abitudine di leggere anche testi di narrativa autopubblicati, che in precedenza ignoravo. Questo dopo aver constatato che la crisi spinge a ricorrere all’autopubblicazione anche autori validissimi che però non trovano spazio in un mercato librario nazionale sempre più asfittico e, di conseguenza, pavido e miope.
Tra questi autori c’è anche Stefano Massaron, scrittore pubblicato da Einaudi e dal cui ultimo libro è stato tratto anche un film, ma che ha scelto, a titolo di esperimento, di pubblicare in proprio una serie di ebook intitolata I racconti dell’Ernesto.
Confesso di non sentirmi imparziale nel giudicare la raccolta in questione. Non solo Stefano è un amico, ma è stato proprio a casa mia, durante una cena, che il comune amico Ernesto gli ha estorto la promessa di non limitarsi a scrivere romanzi, ma anche qualche racconto. Questo secondo volume della serie si intitola Distopie ed è dedicato alla fantascienza, anzi, alla particolare branca della fantascienza nota come distopia. Impossibile perciò evitare di parlarne qui (colpevolmente, a un anno dalla sua uscita).
Il pezzo forte di Distopie è il romanzo breve Lo schianto delle caramelle. Ambientato nella più classica delle distopie, uno stato di polizia con fortissime differenze sociali, parla di due sorelle clandestine che affrontano un pericoloso pellegrinaggio per consultare un oracolo, che per divinare il futuro usa uno strumento antichissimo: una copia del videogioco Candy Crush.
Sulla carta Lo schianto delle caramelle non sembra avere molti elementi che lo rendano interessante; ed ha pure l’aggravante di utilizzare come principale motore della trama i poteri mentali, un cliché che ha ancora cittadinanza nel cinema e nel fumetto, ma che dalla fantascienza scritta è quasi scomparso. E tuttavia basta iniziare a leggere per ricredersi completamente ed essere trascinati nella storia. Perché la buona fantascienza è fatta di dettagli, e qui sono tutti al posto giusto: personaggi credibili e che è impossibile non amare o odiare, tecnologie sorprendenti ma plausibili, e soprattutto una realistica ambientazione in un suk in cui si parla un bizzarro linguaggio italo turco. Alla fine spiace soltanto che l’avventura finisca troppo presto. Stefano nella postfazione promette di espanderla in un romanzo vero e proprio. Io, se fossi un editore, correrei a prenotarlo. Ma si sa, siamo in Italia.
Completano l’ebook due racconti inquietanti e dai temi fortemente simbolici. Mi è piaciuto molto Il vetro, tutto condotto sul filo della canzone di Lou Reed Magic and Loss, in cui Milano è cinta da una soffocante barriera trasparente che allude alle barriere meno tangibili, ma altrettanto difficili da valicare, tra le persone. Un po’ più convenzionale Fallen Feather, in cui Stefano accentua il suo lato più romantico contrastandolo con un’ambientazione violenta e sanguinosa.
Nel complesso, ottima fantascienza, più riuscita e originale di molta di quella che si trova in giro. La mia speranza è che Stefano continui a battere queste strade.

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La volta che Tullio Regge dialogò con Primo Levi

copj170.aspIeri è purtroppo scomparso, a 83 anni, il grande fisico italiano Tullio Regge. È stato uno scienziato di livello mondiale, i cui contributi (tra cui la teoria di Regge sulle interazioni tra particelle ad alta energia, e il metodo di calcolo di Regge per trovare soluzioni approssimate alle equazioni della relatività generale) sono stati mattoni importanti della costruzione della fisica moderna. Vorrei ricordarlo qui parlando di quello che forse è il suo libro più noto, il Dialogo scritto a quattro mani con Primo Levi.

Si tratta di un agile volume (un’ottantina di pagine tutto compreso) davvero insolito: non è che la trascrizione di una conversazione a ruota libera svoltasi nel giugno 1984, senza temi prefissati, tra Tullio Regge e Primo Levi (che sarebbe morto tre anni dopo). Sarebbe dovuta essere una semplice intervista per una serie in cui varie persone spiegavano in cosa consisteva il loro lavoro. Regge propose di avere come interlocutore Primo Levi, che accettò. E il risultato fu un testo (curato da Ernesto Ferrero) che trascende l’attualità, e viene ancora ripubblicato dopo trent’anni.
In Dialogo i due parlano davvero del più e del meno, ma come possono farlo due persone di eccezionale cultura: toccano perciò argomenti come la propria storia familiare, la scuola italiana, la fantascienza, la musica, l’ebraico, la teoria delle stringhe, la colonizzazione dello spazio, la morte termica dell’Universo, e così via, in un vertiginoso incrociarsi di collegamenti. E leggerlo è un po’ come entrare nell’intimità di due menti eccelse.
La scheda del libro (tuttora in catalogo presso Einaudi) dice che si tratta di “Uno dei rari momenti in cui la cultura scientifica e quella umanistica si ritrovano per dare vita a uno straordinario percorso di conoscenza”. Chi la legge potrebbe erroneamente pensare che si tratti di un confronto tra un umanista (Levi) e uno scienziato (Regge). Ma non è così. Perché Levi era prima di tutto un uomo di scienza, un chimico, e ciò ha segnato profondamente la sua narrativa, da Il sistema periodico a La chiave a stella. Mentre Regge era anche un uomo di lettere, alfiere della divulgazione scientifica, collaboratore di Le Scienze e La Stampa e anche autore di fantascienza con i racconti di Non abbiate paura. Ed è proprio questo che mi piacque tanto quando lessi Dialogo per la prima volta: il modo in cui le famose due culture, in Italia da sempre separatissime, si intrecciavano e si mescolavano senza sforzo apparente, e con risultati spettacolari. Per questo mi piacerebbe che fosse letto anche oggi: come esempio di una possibile unificazione culturale che, 30 anni dopo, non sembra essere minimamente più vicina, e semmai si è ulteriormente allontanata.

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What If?

xkcdxkcd è una delle migliori dimostrazioni del fatto che le normali regole editoriali non si applicano sul Web. Si tratta di un fumetto disegnato in modo approssimativo, senza dei personaggi veri e propri, il cui umorismo si basa in parti più o meno uguali su complesse questioni di scienza e tecnologia e sulla sottocultura nerd, e il cui titolo è un insieme di lettere privo di significato. Qualcosa vagamente nella direzione di The Big Bang Theory, ma molto, molto più di nicchia. Anche io a volte non capisco le battute e devo andare a cercare spiegazioni in giro per la Rete.
Sembra la descrizione da manuale della negazione del successo, eppure è diventato uno dei fumetti più popolari del Web, al punto che il suo autore, Randall Munroe, è uno dei pochissimi fumettisti online a potersi mantenere solo con l’indotto della propria creazione (nonostante il fumetto in sé sia pubblicato gratuitamente con licenza Creative Commons, e gli introiti dei libri vengano versati in beneficienza).
Potrei parlarvi a lungo dei motivi per cui dovreste leggere (se già non lo fate) xkcd: l’umorismo paradossale, lo sperimentalismo che gli ha permesso di mettere in pratica radicali innovazioni nel linguaggio del fumetto, la spaventosa quantità di informazioni che si assorbe leggendolo, e così via. Ma non lo farò, perché oggi voglio parlarvi di un suo spin-off, che si intitola What If?.
What If? è un progetto collaterale, in cui Munroe risponde alle domande dei suoi lettori, testualmente ma con l’aiuto di illustrazioni in stile xkcd. Lo spirito dell’iniziativa è ben descritto nella definizione: “risposte scientifiche serie ad assurde domande ipotetiche”. In pratica Munroe (che ha un passato di ricercatore roboticista per la NASA) si diverte a prestare la sua competenza scientifica per soddisfare le curiosità più infantili o bizzarre. “Cosa succederebbe se lanciassi una palla da baseball a una velocità prossima a quella della luce?” “Cosa troverei se andassi indietro nel tempo di un milione di anni nel luogo dove ora si trova Times Square?” “Cosa mi succederebbe se per un microsecondo mi trovassi sulla superficie del Sole?” “Cosa accadrebbe se una persona possedesse tutto il denaro del mondo?”
What If?, come xkcd, è una lettura interessante è divertente. Ma io trovo che sia anche qualcosa di più. Penso che sia un fantastico esempio di educazione alla scienza. La maggior parte dei libri di divulgazione scientifica ha uno spirito irrimediabilmente didattico: si sforza di insegnare al lettore le nozioni che ritiene importanti, rendendole più digeribili attraverso un linguaggio semplificato o una presentazione accattivante. Munroe, invece, fa tutt’altro: nessuna delle nozioni che apprenderete dalla lettura di What If? potrà esservi utile a qualcosa, se non a soddisfare il vostro senso del bizzarro. Tuttavia, così facendo, trasmette qualcosa di molto più importante: un metodo.
Ogni sua risposta è infatti corredata anche della spiegazione di come ci sia arrivato: da quali ipotesi è partito, quali arrotondamenti ha fatto e perché, da dove ha preso i dati, e così via. In questo modo insegna come, applicando correttamente il metodo scientifico, sia possibile arrivare a soddisfare la propria curiosità. Non per qualche nobile scopo, ma semplicemente perché è divertente e dà soddisfazione. Mi pare un messaggio di una potenza straordinaria. Se fossi un professore di materie scientifiche farei di tutto per far conoscere What If? ai miei studenti.
Ora What If? è diventato anche un libro, che raccoglie il meglio delle risposte pubblicate sul Web, più molte altre di nuove. Inutile dirvi che la lettura non delude: finora ne ho letto solo un terzo, ma ho già incontrato un sacco di spunti interessanti e mi sono fatto delle gran risate. Il libro ha toccato il primo posto della classifica dei bestseller del New York Times per la saggistica (in questo momento è al terzo posto), ed sono previste edizioni tradotte in Russia, Cina, Giappone, Brasile, Corea e in quasi tutti gli Stati d’Europa, dalla Germania alla Grecia. Uno dei pochi Paesi in cui ancora non è prevista una traduzione è, guarda caso, l’Italia. Nel mondo editoriale nostrano ho captato interesse per il libro, ma misto a una buona dose di scetticismo: da noi, sembrano pensare tutti, un libro così venderebbe poco. Probabilmente hanno ragione. Ciò non toglie che è proprio in un Paese poco scientifico come l’Italia che questo tipo di letture sarebbe più necessario.
2014-10-09 23.41.51

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