Concerto: Sting

StingEbbene sì, anch’io ero tra i tanti che sabato scorso in piazza Duomo a Milano hanno assistito al concerto di Sting offerto dal Cornetto Algida. Bisogna dire che non erano certo le condizioni ideali per ascoltare un concerto: in una piazza dall’acustica discutibile, lontanissimo dal palco, la cui visibilità mi era in parte preclusa dal monumento a Vittorio Emanuele II. Per giunta anche gli schermi giganti servivano a poco, visto che dovevano avere assoldato un regista di telenovelas: per la quasi totalità del tempo ha inquadrato il faccione di Sting in primissimo piano. Persino durante gli assoli di Dominic Miller preferiva inquadrare la faccia di quest’ultimo invece della chitarra. Davvero pessimo.
Nonostante tutto questo, devo dire che il concerto mi è molto piaciuto e sono contento di esserci stato. Sting si è presentato con una formazione ridotta all’osso: solo due chitarristi e un batterista, mentre lui si è tenuto il basso. Già questo lasciava presagire un ritorno al rock, dopo tanti anni di arrangiamenti jazzati che, dopo il fenomenale esordio di The Dream of the Blue Turtles, erano da tempo diventati maniera. Ma non avrei mai osato sperare che Sting facesse un concerto interamente basato sui brani dei Police e dei suoi primi album solisti, tralasciando totalmente la parte più recente e noiosa della sua carriera.
E qui devo aggiungere una nota personale. Io considero Sting uno dei più grandi autori di canzoni del secolo scorso. I Police sono stati il primo gruppo autenticamente rock che abbia mai seguito (ero alle medie!). E ricordo ancora quando acquistai The Dream of the Blue Turtles, e lo scetticismo per la prima prova solista di Sting si trasformò gradatamente in sconfinata ammirazione per un disco splendido. Tutto questo durò, più o meno, fino a Ten Summoner’s Tales. Poi l’incantesimo si ruppe bruscamente: Mercury Falling è un disco che a tutt’oggi non sono mai riuscito ad ascoltare per intero, da quanto è noioso. E Brand New Day e Sacred Love hanno seguito più o meno la stessa sorte: dischi inutili, tanto levigati e curati quanto assolutamente privi di idee. Mi sono detto: peccato, Sting ha finito le energie creative, succede. Però nel fondo del cervello mi era rimasto il dubbio: forse sono io che non so apprezzare questi dischi meno immediati, me li scarco da Internet o me li faccio masterizzare dagli amici, li ascolto due  volte e poi li metto via. I dischi degli anni Ottanta dovevo risparmiare un mese prima di comprarli, per questo li ascoltavo religiosamente e ne captavo ogni sfumatura. Beh, ora è stato proprio Sting in persona a togliermi ogni dubbio: se persino lui ha ritenuto opportuno presentare un solo brano dei suoi ultimi dieci anni di carriera, vuol dire che quei dischi sono delle merde, da dimenticare senza appello, e stop.
Per il resto, il concerto è stato quello che ci si poteva aspettare da Sting: lui canta ancora passabilmente bene e regge perfettamente il palco, la band era molto professionale, e soprattutto lui riesce a ogni tour a rinnovare i propri brani riarrangiandoli in modo non scontato. In questo concerto la trasformazione più riuscita è stata quella di When the World Is Running Down You Make the Best of What’s Still Around, che da semplice canzoncina è diventata una cavalcata rock-psichedelica alla Cream. La meno riuscita, invece, quella di If You Love Somebody Set Them Free, che rallentata perde la sua ragione d’essere.
In definitiva, si potrà anche dire che Sting è un musicista al tramonto, visto che le canzoni che ha presentato, eccettuata
Desert Rose, hanno tutte più di dodici anni di età. Però uno che come se niente fosse ti suona venti brani come questi (e volendo ne avrebbe ancora in serbo parecchi: pensate a Don’t Stand So Close to Me, Invisible Sun, Tea in the Sahara…) merita profondo rispetto.

Questa la scaletta (dell’identità dei brani sono sicuro, non altrettanto dell’ordine):

Message in a Bottle

Synchronicity II

Walking on the Moon

If I Ever Lose My Faith in You

Englishman in New York (sull’arpeggio di Mad about You)

Spirits in the Material World

Shape of My Heart

Driven to Tears

Every Little Thing She Does Is Magic

Why Should I Cry for You?

Fields of Gold

A Day in the Life

If You Love Somebody Set Them Free

When the World Is Running Down You Make the Best of What’s Still Around (con un accenno di Voices Inside My Head)

Roxanne (con un accenno di So Lonely)

Desert Rose

Next to You

Every Breath You Take

Fragile

Share Button

Attenzione, pericolo!

PericoloL’affluenza al referendum è più elevata del previsto. Vorrei poter dire che è una buona cosa. Purtroppo l’alta affluenza è concentrata soprattutto nelle regioni più belusconiane. C’è il fondato timore che si tratti di voti per il sì. Gente che non ha capito a cosa andiamo incontro se questa riforma della Costituzione dovesse passare, e che crede ci sia solo in ballo la riduzione del numero dei parlamentari, o un voto pro o contro il governo. La veritàè che, se la riforma andrà in porto, saremo al disastro. Avremo un Parlamento paralizzato in rissa permanente. Un Presidente del Consiglio che può fregarsene del Parlamento, che potrà mandare a casa quando gli pare. Un Presidente della Repubblica che conterà come il due di picche. E un aumento colossale della spesa corrente per alimentare nuove burocrazie regionali. Insomma, se passa è la fine, non avremo altre possibilità. Perciò, se per qualsiasi motivo non avete votato, pensateci bene!!! Siete ancora in tempo fino ad oggi alle 15.

Share Button

NO!

NO!Mi ero ripromesso di fare un lungo post per elencare i numerosi motivi per cui è importantissimo, direi essenziale, votare no alla riforma della Costituzione proposta dalla precedente maggioranza. Purtroppo non ho fatto in tempo. Mi chiedo anche se sarebbe utile: conoscendo i frequentatori di questo blog, sarebbe un po’ come predicare ai convertiti. Magari rimedierà comunque stasera. In ogni caso, cercate di ricordarvi di andare a votare no: il rischio che corriamo nel vedere approvato il pasticcio contraddittorio che ci spacciano come riforma è veramente troppo grande.

Share Button

Libro: La porta di Tolomeo

Questo romanzo è il terzo di una trilogia fantasy, detta di Bartimeus, dal nome del genio-demone che ne costituisce uno dei principali punti di vista (i tomi precedenti sono L’amuleto di Samarcanda e L’occhio del golem). Gli altri due personaggi principali sono un mago-bambino (che diventa adolescente nel corso della serie) e,a partire dal secondo libro, una ragazza sua coetanea. Detto così, sareste autorizzati a credere che questo sia l’ennesimo, maldestro tentativo di lucrare sul successo di Harry Potter creando un prodotto simile. Ma sbagliereste. Perché la trilogia scritta da Jonathan Stroud ha personalità da vendere e ben poco di derivativo; anzi, è una delle cose più originali che mi è capitato di leggere in campo fantasy.

Ciò che più colpisce in questa serie è la totale assenza di un Bene da difendere. I maghi dominano il mondo, ma sono una genìa avida e arrogante che fa un pessimo uso del proprio potere. E il mago-bambino Nathaniel, lungi dall’essere un eroe, entra in scena motivato dalla vendetta, e si trasforma col tempo in un ragazzo davvero sgradevole, tanto che al suo confronto il mostruoso e alieno Bartimeus appare un personaggio positivo. Insomma, nessuna leziosaggine: spesso risulta difficile distinguere tra i protagonisti della storia e i loro avversari, e se ci si appassiona al loro destino è per una scrittura di ottima qualità, che costruisce attentamente la suspense e dosa alla perfezione azione e umorismo. Oltretutto i romanzi si mantengono entro dimensioni accettabili, e non lasciano cliffhanger in sospeso, anche se è fortemente consigliato leggerli in successione corretta.

In questo terzo romanzo ritroviamo Nathaniel diciassettenne e ministro dell’informazione, e cioè propagandista per una guerra inutile e sanguinosa ai margini dell’impero. Kitty vive nascosta a Londra, alla ricerca di un piano per infrangere il potere dei maghi. Quanto a Bartimeus, schiavo perenne di Nathaniel che lo teme troppo per lasciarlo libero, è ormai indebolito e ridotto all’ombra di se stesso. I tre si ritroveranno loro malgrado insieme a fronteggiare un complotto, e per risolvere la situazione diventerà estremamente importante ciò che avvenne a Bartimeus duemila anni prima, ad Alessandria d’Egitto. La porta di Tolomeo non deluderà certamente il lettore; al contrario, credo sia il miglior libro della serie. L’umorismo di Bartimeus procura alcuni momenti di grande ilarità, ma il clima generale è ancora più cupo di quello dei tomi precedenti, fino a sfociare in un oscuro finale ambientato in una Londra devastata e piena di cadaveri, che non stonerebbe in un romanzo di Stephen King. E Stroud conferma ancora una volta la sua originalità e il suo coraggio, con una conclusione amara che dribbla tutte le ovvietà. Per intenditori.

 

(Questa recensione appare anche su Il Leggio).

Share Button

Le parole sono importanti

Le parole sono importantiUna delle cose che mi piacciono meno del giornalismo italiano è la faciloneria con cui termini dal significato ben preciso vengono impiegati per indicare tutt’altro, sulla base di somiglianze vaghe o addirittura inesistenti. E, una volta che il termine è stato introdotto, la totalità della stampa lo adotta pedissequamente, anche per decenni, senza che mai qualcuno si ponga il problema di sostituirlo con uno più sensato, e magari più creativo.
Esempi? Più di trent’anni fa ci fu lo scandalo Watergate, in cui il presidente americano Nixon fu accusato di aver spiato illegalmente i suoi avversari. Da allora, per molto tempo, ogni scandalo italiano che avesse a che fare con intercettazioni (e spesso anche ogni scandalo tout-court) ha avuto buone probabilità di essere battezzato con il suffisso "-gate". Parola inglese che letteralmente vuol dire "cancello, porta", e che non ha alcun significato scandalistico. Ammetto che parlare di "Irpiniagate" può avere una sua efficacia e implicare anche una certa ironia. Ma usarlo a tanti anni dai fatti che lo hanno originato mi pare semplicemente un sintomo di pigrizia, oltre che un utilizzo gergale che potrebbe anche non essere compreso dai lettori (quanti, oggi, ricordano cosa fu il Watergate?).
Purtroppo si fa anche di peggio: dopo la celebre inchiesta di Tangentopoli, ogni inchiesta su fatti di corruzione viene immediatamente battezzata con il suffisso "-poli". Che in italiano vuol dire "città", ed è forzato e improprio voler associare alla corruzione. Ma non c’è niente da fare: a quattordici anni dall’arresto di Mario Chiesa, lo scandalo delle designazioni degli arbitri è stato puntualmente ribattezzato "Calciopoli" dalla stampa (senza alcuna eccezione, credo; se me ne sono persa qualcuna, segnalatemela!). Non ditemi che non c’erano alternative a una simile sciatteria linguistica.
Ma il caso peggiore, a mio parere, è quello del bombarolo misterioso che imperversa nelle Venezie, e che ormai è stato battezzato a forza col nome di "Unabomber". Si tratta di una sigla che significa "University and Airline Bomber", "bombarolo delle linee aeree e delle università". Fu creata dall’FBI per designare un terrorista che spediva pacchi-bomba a casa di funzionari di università scientifiche e linee aeree, in funzione di un programma politico che voleva opporsi alla società tecnologica. Il bombarolo nostrano, invece, lascia le bombe nei supermercati, colpisce gente a caso, non sembra avere alcun programma politico. In altre parole: non c’entra un cazzo con Unabomber. L’unica cosa che ha in comune con lui è il fatto di costruire bombe, somiglianza che appare un filino esile. Io non so chi sia stato l’intelligentone che ha voluto farsi bello chiamandolo così. Sta di fatto che ora tutti lo chiamano Unabomber. E probabilmente molti ormai lo fanno senza neppure sapere chi fosse l’Unabomber originale.
Anche da Palombella Rossa, purtroppo, sono passati diciassette anni, invano.

Share Button

Teatro: Anplagghed

AnplagghedComplice la munificità di Samsung, mercoledì scorso ho avuto occasione di vedere Anplagghed, il nuovo spettacolo di Aldo, Giovanni & Giacomo. Ne sono uscito divertito, ma non esaltato.
Lo spettacolo è una collezione di scenette dal filo conduttore ancora più esile del solito. La messinscena del regista Arturo Brachetti è sontuosa, e sfrutta in modo spettacolare e azzeccato inserti filmati ed effetti speciali. Gli sketch,  però, sono sempre quelli, con giusto una lieve rinfrescatina. C’è sempre Giacomo che fa il vecchietto rompiscatole. C’è sempre Aldo che fa il teppista furbo (solo che, invece che con Giovanni controllore, si scontra con Giacomo vigile). C’è lo sketch già visto della consegna degli Oscar… insomma, variazioni sul tema (con l’eccezione della scenetta ambientata nel museo d’arte moderna, probabilmente la più azzeccata), e niente più.
Quello che salva lo spettacolo sono loro, che sono indubbiamente bravissimi, e anche simpatici. Soprattutto, si divertono: nonostante lo spettacolo sia in giro già da mesi, sono stati costretti a interrompersi perché una battuta improvvisata da Aldo ha fatto morire dal ridere gli altri due! Anche la comprimaria Silvana Fallisi se la cava discretamente (trovo allucinante il fatto che non abbia neppure il nome in cartellone; e sì che nella vita è la moglie di Aldo!).
In conclusione, mi sono divertito, ma se avessi dovuto spendere i soldi del biglietto credo che mi sarei pentito di non avere atteso il passaggio in TV o in DVD.

Share Button