Le parole sono importanti

Le parole sono importantiUna delle cose che mi piacciono meno del giornalismo italiano è la faciloneria con cui termini dal significato ben preciso vengono impiegati per indicare tutt’altro, sulla base di somiglianze vaghe o addirittura inesistenti. E, una volta che il termine è stato introdotto, la totalità della stampa lo adotta pedissequamente, anche per decenni, senza che mai qualcuno si ponga il problema di sostituirlo con uno più sensato, e magari più creativo.
Esempi? Più di trent’anni fa ci fu lo scandalo Watergate, in cui il presidente americano Nixon fu accusato di aver spiato illegalmente i suoi avversari. Da allora, per molto tempo, ogni scandalo italiano che avesse a che fare con intercettazioni (e spesso anche ogni scandalo tout-court) ha avuto buone probabilità di essere battezzato con il suffisso "-gate". Parola inglese che letteralmente vuol dire "cancello, porta", e che non ha alcun significato scandalistico. Ammetto che parlare di "Irpiniagate" può avere una sua efficacia e implicare anche una certa ironia. Ma usarlo a tanti anni dai fatti che lo hanno originato mi pare semplicemente un sintomo di pigrizia, oltre che un utilizzo gergale che potrebbe anche non essere compreso dai lettori (quanti, oggi, ricordano cosa fu il Watergate?).
Purtroppo si fa anche di peggio: dopo la celebre inchiesta di Tangentopoli, ogni inchiesta su fatti di corruzione viene immediatamente battezzata con il suffisso "-poli". Che in italiano vuol dire "città", ed è forzato e improprio voler associare alla corruzione. Ma non c’è niente da fare: a quattordici anni dall’arresto di Mario Chiesa, lo scandalo delle designazioni degli arbitri è stato puntualmente ribattezzato "Calciopoli" dalla stampa (senza alcuna eccezione, credo; se me ne sono persa qualcuna, segnalatemela!). Non ditemi che non c’erano alternative a una simile sciatteria linguistica.
Ma il caso peggiore, a mio parere, è quello del bombarolo misterioso che imperversa nelle Venezie, e che ormai è stato battezzato a forza col nome di "Unabomber". Si tratta di una sigla che significa "University and Airline Bomber", "bombarolo delle linee aeree e delle università". Fu creata dall’FBI per designare un terrorista che spediva pacchi-bomba a casa di funzionari di università scientifiche e linee aeree, in funzione di un programma politico che voleva opporsi alla società tecnologica. Il bombarolo nostrano, invece, lascia le bombe nei supermercati, colpisce gente a caso, non sembra avere alcun programma politico. In altre parole: non c’entra un cazzo con Unabomber. L’unica cosa che ha in comune con lui è il fatto di costruire bombe, somiglianza che appare un filino esile. Io non so chi sia stato l’intelligentone che ha voluto farsi bello chiamandolo così. Sta di fatto che ora tutti lo chiamano Unabomber. E probabilmente molti ormai lo fanno senza neppure sapere chi fosse l’Unabomber originale.
Anche da Palombella Rossa, purtroppo, sono passati diciassette anni, invano.

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