Una nuova propulsione per i viaggi spaziali?

Queste, per inciso, sono astronavi tratte da "Spazio: 1999", episodio "Il ritorno del Voyager"
Queste, per inciso, sono astronavi tratte da “Spazio: 1999”, episodio “Il ritorno del Voyager”

In questi giorni è corsa voce che la NASA abbia collaudato con successo un motore che sfrutta una forma ritenuta “impossibile” di propulsione, che potrebbe rivoluzionare i viaggi spaziali. Cosa c’è di vero? Provo a spiegarvelo qui.
Un’idea eterodossa
Il motore in questione non è una novità: si chiame EmDrive, e il suo creatore, l’ingegnere britannico Robert Shawyer, lo ha reso noto già otto anni fa, e lo ha descritto con abbondanza di dettagli in un sito dedicato. L’EmDrive somiglia molto a un forno a microonde: è una cavità chiusa in cui un magnetron diffonde radiazione elettromagnetica. A differenza di un forno, però, l’EmDrive non è squadrato, ma somiglia piuttosto a un imbuto chiuso alle estremità. La lunghezza del tubo è calibrata in modo da essere risonante rispetto alle microonde diffuse, che perciò vengono amplificate.
È noto da oltre un secolo che la radiazione elettromagnetica che colpisce una superficie esercita una pressione, piccola ma misurabile. La forza risultante della pressione di radiazione all’interno di una cavità chiusa dovrebbe essere nulla, allo stesso modo in cui la pressione dell’acqua all’interno di uno scaldabagno non può farlo spostare. Tuttavia Shawyer sostiene che nel caso delle radiazioni la questione è differente: il fatto di muoversi alla velocità della luce farebbe sì che entri in gioco la teoria della Relatività Speciale e che il tutto si comporti come un sistema aperto e non chiuso. La forma svasata della cavità darebbe così una forza risultante non nulla, in grado di “spingere” il motore nonostante non ne esca alcunché.
fig01Un motore senza reazione
Se l’EmDrive fosse realizzabile, risolverebbe uno dei più grossi problemi del viaggio spaziale, cioè la necessità del propellente. Il principio di Azione e Reazione, descritto da Newton, dice che a ogni forza corrisponde una forza di reazione uguale e contraria. Quando camminiamo, riusciamo a spostarci perché attraverso le nostre gambe esercitiamo una forza contro la Terra, e la forza di reazione ci spinge in avanti (mentre la Terra viene spinta nella direzione opposta ma, essendo la sua massa enorme rispetto a noi, la cosa non ha conseguenze pratiche). Allo stesso modo, un aereo si muove in avanti perché con le sue eliche, o con i suoi motori detti appunto a reazione, spinge l’aria in direzione opposta.
Nello spazio questo non può avvenire, perché non c’è nulla da spingere, né terra né aria. Per poterci muovere dobbiamo portare con noi del propellente, di solito un gas, che espelliamo nella direzione opposta a quella verso cui ci vogliamo muovere. Questo causa due problemi. In primo luogo, aumenta di molto il peso che dobbiamo portare con noi. In secondo luogo, la nostra possibilità di accelerare dura solo finché il propellente non finisce. L’EmDrive, invece, non avrebbe bisogno di propellente, ma solo di elettricità, che dei pannelli solari potrebbero fornirgli a volontà, perlomeno se ci si mantiene nelle vicinanze del Sole.
Perché un motore del genere sarebbe rivoluzionario
Se l’EmDrive fosse realizzato, permetterebbe per prima cosa di prolungare di molto la vita dei satelliti. Quelli di oggi, una volta finite le riserve di propellente, non possono più effettuare correzioni all’orbita e vanno rapidamente perduti. Un satellite dotato di EmDrive potrebbe invece durare indefinitamente, o perlomeno fino a quando non si guasta.
In prospettiva, però si potrebbe fare molto di più. Razzi vettori ibridi dotati di EmDrive riuscirebbero a sollevare nello spazio carichi più grandi rispetto a quelli provvisti solo di motori chimici. Inoltre l’EmDrive potrebbe fornire a un’astronave una spinta anche piccola ma per un lungo periodo di tempo, consentendole così di raggiungere velocità relativistiche, rendendo possibili i viaggi interstellari.
Infine, ipotizzando di riuscire a costruire EmDrive sufficientemente potenti, li si potrebbe applicare anche ai veicoli terrestri, permettendogli di rimanere sollevati a mezz’aria e di muoversi senza dover vincere l’attrito, come si vede in molti film di fantascienza.
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Questo sapete benissimo che film è.

Perché è un motore “impossibile”
L’invenzione di Shawyer è stata accolta con grande scetticismo, perché presenta un problema non indifferente: sembra violare la legge della conservazione della quantità di moto. E non è cosa da poco, perché si tratta di una legge fondamentale della meccanica, che ha ricevuto innumerevoli conferme.
La legge dice che la somma dei prodotti di tutte le masse per la loro velocità deve essere costante. La sfruttano i pattinatori per regolare la velocità delle loro piroette: allargando le braccia rallentano, stringendole al corpo accelerano, poiché la quantità di moto si conserva.
Con l’EmDrive, invece, questo palesemente non avviene: abbiamo un veicolo che, perlomeno in teoria, aumenta la sua quantità di moto senza che nulla lo equilibri.
Secondo Shawyer, questo non sarebbe un problema: la differenza di quantità di moto sarebbe in qualche modo trasferita alle microonde prodotte. I suoi seguaci hanno espresso questo concetto in modo più ardito: la quantità di moto mancante verrebbe trasferita al “plasma del vuoto quantistico”, il che sembra un riferimento al fatto che secondo la fisica moderna lo spazio non è un vero vuoto, ma un caos in cui particelle virtuali continuano ad apparire e scomparire. L’EmDrive, quindi, farebbe in qualche modo “presa” sullo spazio stesso.
Va fatto notare che Shawyer non è mai riuscito a pubblicare le proprie teorie su una rivista scientifica, in quanto gli scienziati cui sono state sottoposte per la revisione prima della pubblicazione hanno sempre ritenuto insufficienti queste spiegazioni.
XKCD ironizza sulla vaghezza dell’espressione “plasma del vuoto quantistico”.

Cosa c’entra la NASA?
L’EmDrive è risultato produrre una spinta sia negli esperimenti condotti dallo stesso Shawyer, sia nel corso di un esperimento condotto in Cina nel 2008. La cosa però non ha destato grande scalpore. Tuttavia nei giorni scorsi alcuni ricercatori del centro spaziale Johnson della NASA hanno presentato un articolo scientifico (di cui è disponibile l’abstract) diplomaticamente intitolato Produzione anomala di spinta da parte di un motore sperimentale a radiofrequenza misurata su un pendolo di torsione a bassa spinta. In pratica, si è trattato di un collaudo di un motore che utilizza gli stessi principi alla base dell’EmDrive, anche se di produzione statunitense (il Cannae Drive). L’articolo non si addentra nella teoria del funzionamento del motore, si limita a dire che è stato sottoposto a un esperimento e dalle misure è effettivamente risultato che produce una piccola spinta (dell’ordine dei microgrammi).
Il fatto che l’esperimento sia stato svolto in un laboratorio della NASA ha dato al risultato una visibilità molto maggiore, anche se in realtà si è trattato di un’attività molto marginale da parte di un piccolo gruppo di persone.
Non ci sono foto dell’esperimento compiuto dalla NASA. Questa è una foto degli esperimenti di Shawyer.

Allora è vero? Il motore funziona?
Tutto è possibile. Tuttavia, considerando i dati a disposizione, io sarei ancora molto scettico prima di ritenere che siamo di fronte a una rivoluzione nella tecnologia del volo spaziale.
Cominciamo col sottolineare che la maggior parte degli scienziati ritiene molto dubbia la validità delle teorie di Shawyer. Confesso di non conoscere l’elettromagnetismo e la relatività in modo sufficientemente approfondito da poter giudicare se i calcoli riportati nel suo breve prospetto teorico sono corretti o meno. Tuttavia una persona che di scienza se ne intende come lo scrittore Greg Egan ha affermato pubblicamente che si tratta di stupidaggini del tutto prive di fondamento, e altri si sono espressi in modo simile.
E i risultati dell’esperimento, allora? Teniamo conto che:

  • La spinta misurata è piccolissima, estremamente inferiore a quella che dovrebbe essere prodotta in teoria. Valori così bassi potrebbero essere dovuti semplicemente a un errore di misura. Cose del genere capitano di continuo. Ricordiamo il recente caso dei neutrini più veloci della luce, che sembrava preludere a chissà quale rivoluzione nella fisica e invece era soltanto il prodotto di un cavo avariato.
  • Il resoconto del Johnson Space Center specifica che la stessa spinta è stata misurata anche per un motore modificato in modo tale per cui, secondo la teoria, non avrebbe dovuto produrne. Quindi i casi sono due: o il motore funziona, ma la teoria su cui si basa ha qualcosa che non va, oppure la spinta misurata non dipende dal funzionamento del motore ed è dovuta ad altre cause (cosa vi sembra più probabile?).
  • Il motore non è stato provato nel vuoto, ma in una camera a pressione atmosferica. Molti fanno notare che la presenza di aria potrebbe aver falsato i risultati, dato che le microonde potrebbero avere ionizzato o scaldato l’aria in modo da produrre microspinte la cui presenza è sfuggita ai ricercatori.

In conclusione: per il momento non è il caso di avere grandi aspettative. È piuttosto probabile che ulteriori test, per esempio compiuti nel vuoto, rivelino che in realtà l’EmDrive è solamente un sogno. È bello però immaginare che possa non essere così.

Jacovitti
Questo, ovviamente, è Jacovitti

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Heaven & Earth

Yes - Heaven & EarthEbbene sì: con 46 anni di carriera alle spalle, gli Yes hanno prodotto un nuovo album in studio (il ventunesimo, più o meno, a seconda di come li vogliamo contare). E io sono qui a recensirlo per voi, o perlomeno per quei pochi cui l’evento può ancora interessare. Nel frattempo la band ha cambiato ancora una volta formazione: il cantante Benoît David, da poco subentrato alla voce storica del gruppo, Jon Anderson, è stato costretto ad abbandonare per problemi di salute. Al suo posto è entrato Jon Davison, già cantante dei Glass Hammer.
Ho avuto la possibilità di vedere questa formazione in concerto lo scorso 18 maggio, al Teatro della Luna di Milano, e l’impressione è stata ottima. Si è trattato di un’esibizione totalmente retrospettiva, con l’esecuzione filologica e per intero di tre album storici: The Yes Album (1971), Close to the Edge (1972) e Going for the One (1977). Forse non l’occasione migliore per poter giudicare la tenuta della band, che con questi capolavori giocava sul sicuro. Tuttavia i quattro “vecchi” (che hanno tutti passato da tempo i 60 anni) mi sono sembrati in gran forma, mentre Davison (che ha la stessa età di The Yes Album!), pur non avendo la voce inimitabile di Jon Anderson, mi è sembrato sicuro e perfettamente a suo agio, molto più di quanto non fosse David. Perciò, quando ho saputo che un nuovo album stava per arrivare, mi sono messo ad attenderlo con curiosità. Anche perché il predecessore Fly from here non mi era affatto dispiaciuto.
I primi dubbi mi sono venuti quando ho ascoltato le anteprime del disco diffuse online. “Sembra un disco degli Asia”, mi sono detto. Il che non dovrebbe poi sorprendere, dato che due membri della formazione originaria degli Asia fanno parte anche degli Yes attuali. Tuttavia, fatta eccezione per il primo disco, ho sempre trovato gli album degli Asia soporiferi, rock AOR all’americana vagamente truccato da prog, roba di livello inferiore anche agli Yes meno ispirati.
Dopodiché hanno cominciato a piovere le recensioni online: una stroncatura senza appello dietro l’altra. Tanto che, quando finalmente il CD mi è arrivato a casa, mi aspettavo talmente poco da sperare che forse mi avrebbe riservato qualche sorpresa in positivo. Purtroppo così non è stato: Heaven & Earth è proprio un disco deludente.
Il primo problema sta nella produzione: il suono di questo disco è molto povero. Basso e batteria sono quasi sempre relegati sullo sfondo, e il mix generale è decisamente troppo “tastieroso” (e se lo dico io che sono un fanatico delle tastiere, potete credermi!). Ci sono a volte momenti di “vuoto”, in cui uno strumento, pur non facendo nulla di virtuosistico o particolamente interessante, rimane da solo o quasi. Tutto il contrario del sound sinfonico degli Yes. È stato probabilmente un errore affidarsi a Roy Thomas Baker, una vecchia gloria (fu il produttore di tanti album dei Queen) che conosce bene la band (lavorò con gli Yes durante le sessioni parigine del 1979 mai portate a a termine) ma che non è esattamente all’avanguardia. Mi chiedo perché non abbiano pensato a Steven Wilson, che sta facendo un lavoro eccellente nel remixare in quadrifonia il catalogo degli Yes.
Ma la colpa non è certamente solo del produttore. Anche la band non sembra all’altezza della sua fama, poco incisiva anche in quello che è sempre stato il suo massimo punto di forza, cioè la qualità degli interventi strumentali (principali colpevoli: Howe e White, svogliati e privi di nerbo). Soprattutto, le composizioni sono deludenti, e soffrono fortemente dei problemi che già cominciavano ad emergere in Fly from here: lunghezza eccessiva, con brani che si prolungano oltre i sei minuti senza contenere idee adeguate a giustificarlo; scarsa omogeneità, con transizioni faticose tra sezioni che sembrano avere poco in comune tra loro; e infine mancanza di grinta, il problema più grave di Heaven & Earth, quasi completamente adagiato su tempi lenti e soporiferi.
Analizzando i singoli brani:

  • Believe Again è composta da Davison e Howe, e porta decisamente il marchio stilistico di quest’ultimo. Comincia molto bene con una bella melodia e un bell’arrangiamento, ma dura troppo, e finisce col perdersi senza un colpo d’ala che le doni nuova energia.
  • The Game, scritta da Davison, Squire e da un collaboratore abituale di quest’ultimo, Gerard Johnson, ha una bella melodia pop, però tira il lungo per quasi sette minuti senza costrutto e significative variazioni. La chitarra di Howe appare davvero poco ispirata.
  • Step Beyond è un altro brano scritto da Howe con Davison, caratterizzato da un semplice e ripetitivo riff di sintetizzatore. Molti l’hanno odiato, ma io lo considero uno dei pezzi migliori del disco: molto pop, lontano dal sound Yes (ricorda semmai i brani scritti da Howe per gli Asia, come One Step Closer, somigliante anche nel titolo), ma perlomeno equilibrato e con un po’ di originalità.
  • To Ascend. Il batterista Alan White collabora raramente alla composizione dei brani della band. Questo zuccherosa ballata scritta con Davison purtroppo non rivela doti nascoste: è uno dei pezzi più insignificanti del disco.
  • In a World of Our Own è uno strano pezzo di Squire/Davison con un ritmo cadenzato e atmosfera retrò da primi anni Settanta. Il momento WTF dell’album: cosa c’entra con tutto il resto?
  • Light of the Ages è composta dal solo Davison, che sembra voler impersonare in tutto e per tutto lo stile di Jon Anderson. Questo tipo di pezzo sdolcinato, però, risultava spesso un po’ stridente anche in passato. La copia sbiadita proposta da Davison non vale l’ascolto.
  • It Was All We Knew ripropone il mistero già incontrato nell’album precedente: perché Steve Howe, che pure nei suoi dischi solisti si dimostra ancora molto creativo, per gli Yes sfodera queste canzoni gradevoli ma in fondo mediocri? Belle armonie vocali, ma non decolla mai.
  • Subway Walls, scritta da Downes e Davison, sembra un tentativo di salvataggio in corner. È il brano più lungo dell’album e l’unico che in qualche modo richiami il vero sound degli Yes. Basso e batteria sono finalmente presenti, e in alcune parti il pezzo funziona molto bene. Ci sono però alcuni momenti confusi che fanno scadere un po’ il tutto. Downes si concede due assoli di tastiere; il primo però utilizza un suono di archi sintetici veramente superato (sembra Revolutions di Jean-Michel Jarre, ma senza le percussioni elettroniche che gli davano un senso), mentre il secondo è un assolo di organo che lascia freddi se paragonato alle prodezze di un Wakeman.

In definitiva, non si capisce bene che cosa avessero in mente gli Yes con questo disco. La sensazione è quella di un gruppo privo di direzione, arrivato in studio senza un’idea precisa e assemblando a casaccio le idee portate dai singoli membri. Che non è quello che ci si si può aspettare da una band con più di 40 anni di storia. Forse l’assenza di Jon Anderson, più che per la voce, pesa per la sua capacità di dare un senso unitario ai contributi dei singoli membri.
Personalmente non ho mai condiviso la posizione, molto diffusa, secondo cui una band dovrebbe sciogliersi dopo che il suo periodo di maggiore creatività è passato, o quando viene a mancare un membro chiave. Nel corso dei decenni ho sempre apprezzato la possibilità di ascoltare nuova musica con lo stile degli Yes: anche se non era all’altezza di Close to the Edge, anche se non tutti i nuovi membri erano bravi quanto i vecchi, valeva la pena di ascoltare il risultato. In questo disco però rischia di non esserci nemmeno un brano degno di essere riascoltato nel tempo. In questi giorni la funzione random dell’autoradio mi ha riproposto un brano tratto da Open Your Eyes, che avevo sempre considerato il disco Yes meno riuscito in assoluto, e mi sono detto: “Rispetto a Heaven & Earth è decisamente meglio, almeno ha più grinta”.
Cari Yes, lasciatevelo dire da un fan che vi segue da decenni: se questo è il massimo che sapete fare oggi, meglio chiuderla qui.

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