Flashback

More about FlashbackTra un quarto di secolo, gli Stati Uniti sono precipitati in una profonda decadenza. Non solo hanno completamente perso lo status di superpotenza e sono ridotti a vassalli di Stati più ricchi, non solo sono devastati da secessioni, criminalità, terrorismo e rivolte interne, ma la quasi totalità della popolazione è ormai dipendente dal flashback, una droga che consente di rivivere a piacere i propri ricordi preferiti. Proprio a causa del flashback, che usa di continuo per far rivivere il ricordo della moglie Dara, uccisa in un incidente stradale, Nick Bottom è stato cacciato dalla polizia e ha abbandonato il figlio adolescente. Quando però un ricco magnate giapponese, il cui figlio è stato assassinato sei anni prima, gli offre una forte somma per riaprire l’indagine rimasta senza colpevoli, Nick accetta di malavoglia l’incarico.

Soltanto un paio di mesi fa avevo scritto che, finché Dan Simmons avesse continuato a scrivere libri eccezionali come Drood, delle sue opinioni politiche mi sarebbe importato poco. Purtroppo però quelle opinioni hanno finito col tracimare anche nei suoi libri, e il risultato è qualcosa che definire impresentabile è ancora poco.
Ma andiamo con ordine: in primo luogo dimenticatevi le fantasmagoriche invenzioni di romanzi come Hyperion: Flashback è un thriller ambientato in un futuro molto vicino al nostro presente. La fattura è professionale, e la trama è avvincente a sufficienza da volerlo leggere fino in fondo, ma come romanzo di indagine non spicca particolarmente, anche a causa dei personaggi piuttosto stereotipati. Il protagonista è un ex-poliziotto che usa la droga per rivivere il ricordo della moglie morta, e al suo fianco c’è un giapponese tutto di un pezzo che ha giurato di fare seppuku in caso di fallimento della missione: non è roba particolarmente originale, e a volte si ha l’impressione di leggere una specie di cocktail tra Strange Days e Black Rain (del resto i riferimenti cinematografici hanno una parte importante nel romanzo). Certo, in quasi 600 pagine si trova qualche buona idea (ho apprezzato particolarmente le magliette animate da intelligenze artificiali, come pure il riferimento shakespeariano che Simmons riesce a innestare sul suo protagonista), ma certamente non al livello cui l’autore ci ha abituato.
La parte “interessante” del romanzo non dovrebbe però essere l’indagine, ma lo sfondo, l’ambientazione in una versione decaduta degli Stati Uniti. Ed è qui che nascono i problemi. Perché Simmons ci ha riversato una visione politica talmente rozza, estremista e reazionaria da far apparire tutti i candidati repubblicani alle ultime primarie come dei timidi moderati.
Il Male in Flashback è rappresentato dall’Islam, che non solo ha unificato tutto il Medio Oriente, il Nordafrica e parte dell’Asia in un unico Califfato, con triplice capitale a Teheran, Riad e Damasco (evidentemente le eterne rivalità tra sunniti e sciiti sono state miracolosamente accantonate), ma si è anche mangiato buona parte dell’Europa, avvolgendola in una cappa oscurantista. E già qui si potrebbe dire perlomeno che Simmons non è stato molto originale: tanto per fare un esempio, molti dei racconti dell’antologia italiana Sul Filo del Rasoio si svolgono in scenari simili, e sarebbe legittimo aspettarsi da uno dei massimi autori statunitensi qualcosa di più innovativo dello spauracchio che da anni viene agitato dall’ultradestra USA. Ma al di là di questo, va detto che l’Islam viene descritto da Simmons con toni che sfiorano (e forse raggiungono) il razzismo, e che sarebbero più adatti alla terra di Mordor che non a una delle principali religioni del pianeta. L’Islam di Simmons sembra perseguire l’odio e il Male al di là di qualunque logica politica. Nel romanzo il Califfato è la principale superpotenza mondiale e gli Stati Uniti ne sono diventati succubi al punto da permettere che si costruisca una moschea su Ground Zero e vi si festeggi ogni giorno l’anniversario dell’11 settembre, ma gli islamici non sono comunque soddisfatti e lanciano attentati suicidi sugli USA con cadenza praticamente giornaliera. E, nonostante Israele sia stato abbandonato dagli USA, cosa che dovrebbe averlo reso inerme o quasi di fronte alla superpotenza islamica, il Califfato ha preferito distruggerlo con 11 bombe atomiche, rendendolo inabitabile e facendo piovere radiazioni anche sui palestinesi (se questa visione non vi sembra abbastanza faziosa, aggiungo che gli israeliani, con lo spirito pacifista che li ha sempre contraddistinti, nel romanzo hanno rinunciato spontaneamente alla rappresaglia nucleare che avevano il potere di scatenare). Nessun personaggio del libro prende mai le difese dell’Islam, e persino le nazioni dell’Estremo Oriente che non hanno mai avuto attriti con la religione di Maometto pensano che si tratti di una minaccia gravissima. Per usare le parole di uno dei personaggi, l’Islam è

una barbarica religione del deserto intenzionata a dominare la Terra e a trattare le religioni conquistate come schiavi meno che umani.

Non mi metto neppure a elencare i motivi per cui affermazioni simili siano del tutto prive di basi storiche o politiche e andrebbero semplicemente rifiutate da qualunque persona sensata (d’accordo, lo dice un personaggio, non lo dice Simmons, però nulla lascia pensare che l’autore possa non condividere la sostanza di questo pensiero).
Fosse solo questo, si tratterebbe soltanto di un caso di isterismo islamofobo abbastanza comune negli USA post-11-settembre. Purtroppo c’è anche dell’altro. Simmons, sempre per bocca dei suoi personaggi e senza esporre alcun punto di vista contrario, nel corso del romanzo ci spiega perché gli USA sono caduti in decadenza e sono impotenti di fronte all’avanzata dell’Islam. E la colpa è degli intellettuali terzomondisti, che si sono stupidamente interrogati sulle colpe dell’America aprendo le porte ai nuovi Hitler; dei pacifisti, che hanno perseguito un’assurda politica di disarmo mentre il nemico si armava; degli ecologisti, che hanno reso l’America dipendente da tecnologie costose e destinate al fallimento (sì, perché nel mondo degradato descritto da Simmons ci sono migliaia di pale eoliche inutilizzate per mancanza di manutenzione, mentre le centrali nucleari, chissà perché, funzionano benissimo; il riscaldamento globale, invece, è solo una ciarlataneria priva di fondamento scientifico); dei programmi a favore delle minoranze, che hanno dato il potere a incapaci e corrotti invece che a chi lo meritava veramente; e infine di Barack Obama, che con i suoi costosi progetti di equità sociale ha portato il Paese alla bancarotta.
Contro Obama Simmons ha il dente particolarmente avvelenato: per lui le timidissime riforme dell’attuale presidente, credeteci o no, stanno trasformando gli USA in un Paese socialista. E si va ancora oltre: Simmons non spiega in modo molto chiaro cosa sia avvenuto (forse un po’ di pudore ce l’ha anche lui), ma nel mondo che descrive i Repubblicani non esistono più, e il loro pensiero si può ascoltare solo su radio clandestine. Ebbene sì: nel paese del maccartismo, per Dan Simmons è sufficiente che un presidente voglia dare l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini per evocare il partito unico e la dittatura del proletariato.
Devo aggiungere altro? Mi sembra che il quadro sia chiaro. Flashback è un fanta-thriller scritto con una buona tecnica (e per questo nella mia rubrica su XL si prenderà una risicata sufficienza), ma è anche un libro becero, razzista e, sì, anche profondamente ignorante. Come un letterato del livello di Simmons possa esprimersi politicamente in questo modo, per me resterà un mistero, ed è forse un sintomo di quell’incombente decadenza degli USA che con questo libro l’autore intenderebbe contrastare.
La cosa più triste è proprio che, come metafora, il libro funziona comunque nel rappresentare il popolo statunitense come perso in un artificiale sogno di glorie passate mentre il suo Paese va in pezzi. Simmons crede di aver descritto i propri compatrioti, ma in realtà ha descritto se stesso: un uomo che pensa che negando tutti i problemi, cercando un nemico esterno e mandandogli contro i ranger del Texas a cavallo tutto si risolverà. Esca dal sogno, mister Simmons.

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BitCity Magazine

BitCity Magazine - numero 0
Ciao a tutti!
Contrariamente a quanto avevo promesso (ma sono sicuro che ve lo aspettavate), ultimamente ho latitato un po’ dal blog. Il motivo è, ne più ne meno, il sovraccarico di lavoro.
Una delle cose che mi hanno portato via molto tempo è una nuova rivista che è uscita pochi giorni fa. Si chiama BitCity Magazine, ed è un periodico dedicato alla tecnologia. Al momento è previsto che esca una volta al mese, e solo in formato elettronico: potete leggerla sul sito, scaricarla in formato PDF per leggerla offline e, prossimamente, anche installare sul vostro smartphone o tablet apposite app per la lettura, in formato iOS o Android.
È ovviamente un parere di parte, ma sono convinto che la rivista sia ben fatta, con una bella grafica e articoli non banali. Soprattutto, è completamente gratuita. Potete leggerla o scaricarla senza pagare un centesimo, e così sarà anche per i prossimi numeri.
Di conseguenza, mi fareste un grande piacere se la scaricaste e leggeste. Ancora più grande sarebbe il piacere se faceste sapere a tutti i vostri contatti, amici e conoscenti che la rivista esiste.
Mi piacerebbe inoltre mi diceste che cosa vi piace della rivista, cosa invece non va, e cosa vorreste vedere sui numeri futuri. E sarebbe ancora meglio se, invece che farlo commentando qui o scrivendomi in privato, lo faceste su Facebook, su Twitter o su Google+.
Grazie e buona lettura!

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I bit della memoria

Anche se l’ipotesi che la mente sia un “software” è ancora molto controversa, viene comunque spontaneo paragonare il cervello a un computer, che usa i vari organi del corpo come periferiche ed elabora i dati che da essi riceve. Tuttavia, anche se questa idea è molto ben radicata, in realtà siamo parecchio lontani dall’aver capito in che modo il cervello opera sui dati. Se fosse simile a un computer, dovrebbe avere l’equivalente di una RAM per la memoria a breve trmine, e di un disco rigido (o SSD, se vogliamo fare i moderni) per quella a lungo termine. finora non sapevamo quali fossero gli equivalenti cerebrali di questi componenti; non sapevamo, cioè, come il cervello “fissa” i ricordi.  Gli esperimenti passati portano a ritenere che il formarsi di un ricordo equivalga al rafforzarsi di una determinata connessione tra alcuni neuroni del cervello, che li porta a scambiarsi impulsi elettrici secondo uno schema fisso. Queste connessioni, tuttavia, decadono in un tempo abbastanza breve, mentre i nostri ricordi possono rimanere per una vita intera. Ci deve essere quindi un meccanismo con cui il cervello “salva” queste connessioni per poi poterle ricreare quando servono.
Ora un gruppo di scienziati ha ipotizzato un meccanismo con cui questo processo può avvenire. Si tratta di una proteina, indicata col simbolo CaMKII, che viene prodotta durante il processo di creazione delle connessioni sinaptiche e va poi a legarsi con l’interno dei neuroni. In tale proteina rimane memorizzata la forma della connessione che l’ha generata.
La cosa più interessante è che le informazioni che vengono salvate nella proteina sono in forma binaria, come quelle dei computer: la proteina è di forma esagonale, e a ogni vertice può esserci o meno un gruppo fosfato. La presenza o assenza di questi gruppi equivale a un bit di informazione (0 o 1). La differenza rispetto ai computer è che, essendo gli elementi di proteina esagonali, un “byte” è composto da 6 bit invece che da 8.
Naturalmente il fatto che abbiamo scoperto la natura di questi bir non significa che siamo pronti a leggere i ricordi del cervello… ma il traguardo si è avvicinato un po’.
Maggiori informazioni sull’argomento nell’articolo che ho pubblicato su Nòva 24 di domenica scorsa, che potete leggere facendo clic qui sotto:

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Le insidie del pesce-bufalo

Pesce-bufalaCiao a tutti.
Mi rendo conto solo ora che sono più di tre settimane che non pubblico alcun post. Non era mia intenzione fermarmi per tanto tempo. In questi giorni sono presissimo con molti progetti, di molti dei quali non posso ancora parlare ma che sicuramente emergeranno presto anche su questo blog.
In ogni caso, da questo momento riprendono più o meno regolarmente le pubblicazioni. E volevo cominciare raccontandovi una cosa che mi è successa ieri.
Tutto è cominciato da un tweet di William Gibson che rimandava a un articolo sugli scacchi. Ho deciso di fare clic perché l’accoppiata Gibson/scacchi sembrava interessante. E sono arrivato a un’interessante intervista pubblicata in inglese da un sito specializzato tedesco, in cui Vasik Rajlich, autore di un apprezzato software per il gioco degli scacchi, descriveva il modo in cui aveva utilizzato molti mesi di tempo macchina su un supercomputer a 30 core per analizzare completamente la più comune apertura, il gambitto di re, e verificare la correttezza dell’analisi compiuta a suo tempo da Bobby Fischer su di essa. In pratica aveva computato ogni possibile partita giocabile dopo quell’apertura, per verificare, assumendo che ambedue i giocatori giocassero nel modo migliore possibile, quali risposte risultavano vincenti e quali perdenti. Il programmatore proseguiva spiegando come alla base di questo risultato ci fosse un algoritmo in grado di eliminare le partite “sicuramente perse” senza calcolarle fino in fondo, riducendo così di molto la quantità di calcoli da fare. Infine spiegava come l’analisi compiuta da Fischer fosse sostanzialmente corretta, ma non del tutto: alcune contromosse apparentemente perdenti risultavano invece vincenti, e viceversa.
Appena terminata la lettura dell’intervista, mi sono detto: questo è un risultato di portata storica. Considerato che all’inizio di una partita il bianco ha solo 20 possibili mosse per aprire, è evidente che basta impiegare una potenza di calcolo di un solo ordine di grandezza superiore per analizzare l’intero gioco degli scacchi. Era l’argomento ideale per un articolo: di sicuro interesse scientifico, ma anche pieno di spunti interessanti per “l’uomo della strada”. Il pezzo mi si stava già scrivendo in testa da solo: avrei cominciato citando la famosa leggenda sull’origine degli scacchi, in cui l’inventore del gioco chiede in cambio un chicco di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza e così via, giungendo a un numero esorbitante, per dare al lettore l’idea di quante possibili partite esistano e di quanto fosse straordinario l’essere riusciti ad analizzarle tutte in blocco. Dovevo solo decidere a quale testata l’argomento interessasse di più.
A quel punto è arivato un secondo tweet di William Gibson, in realtà un retweet di un suo follower che lo informava che si era trattato di un pesce d’aprile. Gli stessi autori dello scherzo spiegano che la potenza di calcolo necessaria per fare una cosa del genere è superiore di 25 ordini di grandezza rispetto a quella oggi disponibile.
A quanto pare ci ero cascato completamente. La mia unica consolazione è quella di essere in buona compagnia. Non solo prima di me ci era cascato William Gibson, ma pare che gli autori siano stati tempestati di richieste di interviste da giornali e televisioni di tutto il mondo!
Credo che questo episodio mi abbia impartito una sana lezione di giornalismo. Mi piace pensare che, se avessi veramente dovuto scrivere un articolo su questo argomento, avrei comunque scoperto lo scherzo prima di arrivare alla pubblicazione. Ma cosa sarebbe successo se, invece che scrivere per settimanali e mensili, io fossi stato il redattore di un quotidiano? Molto probabilmente avrei buttato dentro la notizia senza troppe verifiche per evitare che ci arrivasse prima qualcun altro. Ed è così che nascono le bufale.
Credo sia necessario tenere presenti le seguenti regole:

  • Mai fidarsi ciecamente dell’autorità. William Gibson è una persona informatissima sugli argomenti più disparati e all’avanguardia, ma nemmeno lui è infallibile: infatti in questo caso ha diffuso una notizia falsa credendola vera. Non bisogna mai dare per scontato che qualcuno abbia già controllato la veridicità della notizia prima di noi.
  • Se è plausibile, non vuol dire che sia vero. Se mi avessero detto semplicemente che un supercomputer era riuscito a calcolare tutte le possibili partite a scacchi, avrei risposto senza esitare che era impossibile. Ma questo pesce d’aprile ha minato il mio scetticismo descrivendo una tecnica per diminuire l’ordine di grandezza dei calcoli necessari. Una spiegazione del tutto plausibile, se non fosse che la riduzione non è sufficiente. Anche le affermazioni plausibili vanno verificate.
  • Attenzione agli argomenti che non si conoscono abbastanza. Io so giocare a scacchi, ma non sono certamente un esperto. L’articolo-pesce era pieno di indizi che suggerivano la sua vera natura. Un esperto di scacchi avrebbe trovato incredibili le conclusioni cui giungeva l’analisi, e si sarebbe insospettito, mentre io non ci trovavo niente di strano. È facilissimo prendere cantonate negli argomenti di cui si ha solo un’infarinatura.

Ovviamente queste regole non sono facili da applicare. La verità è che, se io scrivessi solo di argomenti che conosco assolutamente alla perfezione, e solo dopo aver verificato ogni singola affermazione contenuta nell’articolo, probabilmente non scriverei più nulla. Tuttavia oggi i tempi del giornalismo sono diventati talmente rapidi che diventa obbligatorio non abbassare mai la guardia. Non si sa mai quando il pesce-bufalo potrà colpire.

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