Da quando il Politecnico di Milano ha deciso che terrà i propri corsi esclusivamente in lingua inglese, è sorta una polemica infinita tra i sostenitori e gli oppositori di questa decisione, sfociata anche in una battaglia legale approdata addirittura alla Corte Costituzionale.
Le motivazioni che hanno spinto il Politecnico a fare questa scelta sono sicuramente ragionevoli. È vero che oggi l’inglese è la lingua della scienza e della tecnologia, e pertanto non si può pensare che qualcuno si laurei in ingegneria senza conoscerla bene. Ed è probabilmente vero che l’insegnamento in inglese aiuterebbe ad attirare studenti stranieri, il che sarebbe positivo non solo per l’ateneo ma per tutto il Paese.
Ho sentito alcuni paventare che costringere i professori a esprimersi in inglese farebbe scadere la qualità dell’insegnamento. Ammetto che, pensando ad alcuni professori che ho avuto io, mi è venuto lo stesso dubbio. Ma credo che sia un problema superabile. Di recente mi è capitato di assistere a un convegno scientifico a Verona in cui la lingua ufficiale era l’inglese. Uno dei partecipanti espose una slide con la scritta “si ricorda che la lingua ufficiale di questo convegno è il Bad English!”. Però, battute a parte, la qualità dell’inglese parlato risultò accettabile, forse sconsigliabile a chi volesse prenderla come base per lo studio della grammatica, ma più che comprensibile.
Nonostante tutto questo, però, io continuo a considerare con un po’ di apprensione l’idea di un’Università in Italia dove si studi solo in inglese, anche se si tratta di una facoltà scientifica o tecnologica. Io mi sono laureato in ingegneria aeronautica proprio al Politecnico di Milano. Pur non avendolo studiato a scuola, quando ero matricola conoscevo già discretamente l’inglese, avendolo appreso da canzoni, videogiochi, giochi di ruolo, qualche lezione privata e un mese di soggiorno all’estero. Ma durante la mia permanenza all’università la mia conoscenza della lingua migliorò molto, in buona parte per la necessità continua di utilizzarlo. Dopo il biennio non c’era praticamente corso i cui testi principali non fossero in inglese, per non parlare degli gli articoli che mi servirono per la tesi di laurea. Quindi a mio avviso, anche senza lezioni in lingua straniera, l’inglese lo si impara comunque.
D’altra parte, al Politecnico ho imparato anche un bel po’ di gergo specialistico italiano. Ho appreso, per esempio, che la componente della forza aerodinamica perpendicolare al vento relativo, e che perciò tiene l’aereo in volo (in inglese lift), in italiano si chiama portanza. Ho imparato che un veicolo che sfrutta la portanza per volare viene detto velivolo, un termine che in inglese neppure ha il corrispondente, e che è stato inventato nientemeno che da Gabriele D’Annunzio. Ho scoperto che l’azione di un corpo che gira su se stesso poggiando su un unico punto, come fa una trottola, si chiama prillare (in inglese to spin), una parola che al di fuori dei testi tecnici ho trovato solo nel Pasticciaccio di Gadda (che non a caso al Politecnico aveva studiato).
Potrei andare avanti a lungo. Certo, bisogna notare che si tratta di un gergo ottocentesco o del primo Novecento. Oggi l’evoluzione di scienza e tecnologia è talmente rapida, e le comunicazioni talmente immediate, che quasi mai la traduzione italiana di un neologismo inglese riesce ad imporsi. Oggi usiamo il computer, nonostante sia sempre esistito l’analogo italiano calcolatore. Nessuno ha mai pensato di usare un topo al posto del mouse, e anche nei rarissimi casi in cui si adotta una parola italiana, diventa subito obsoleta: chi mai oggigiorno usa più un masterizzatore? E tuttavia quel gergo scientifico di base della lingua italiana non è inutile: permette di parlare di scienza e di tecnologia in una lingua che è ancora la nostra. È quello che permette a me, che di mestiere scrivo di tecnologia e di scienza, di farmi capire. Ed è evidente che, se lo studio della scienza avverrà solo in inglese, nel giro di un paio di generazioni quel gergo sparirà del tutto.
Non voglio fare il catastrofista. Sono convinto che le modifiche della lingua siano ineluttabili, e che dove qualcosa va perso qualcos’altro viene guadagnato. La lingua italiana che oggi tanto amiamo è il risultato di una corruzione del latino da parte di barbari e ignoranti. Se una parola sparisce vuol dire che ha perduto la sua funzione, ed è inutile piangerci sopra. E tuttavia la prospettiva non mi rallegra. Ho sempre pensato che uno dei grossi problemi del nostro Paese risiedesse nel fatto che le persone cosiddette di cultura considerano spesso la scienza come una cosa estranea o superflua. È una frattura che tuttora si fa molta fatica a colmare. E sarà ancora più difficile colmarla se per parlare di scienza occorrerà abbandonare l’italiano.