È terminata da qualche settimana sulla rete televisiva statunitense HBO la prima stagione di Game of Thrones, serie televisiva tratta dalla saga A Song of Ice and Fire di George R. R. Martin. Per la precisione, questi primi episodi sono tratti dal primo libro della serie, A Game of Thrones (uscito in Italia sdoppiato in due titoli, Il trono di spade e Il grande inverno). A settembre gli episodi usciranno doppiati su Sky, ma io ho preferito guardarmeli subito in originale.
Vi dico subito che sono un fan sfegatato della serie libraria. È vero, Martin non ha inventato nulla di particolarmente nuovo, né dal punto di vista narrativo né da quello dell’invenzione fantastica. Però gli è riuscita un’impresa che moltissimi avevano tentato ma praticamente nessuno aveva portato a termine: emulare Tolkien nel creare un universo immaginario talmente coerente e dettagliato da prendere vita. E, per giunta, lo ha fatto non imitando pedissequamente il maestro, ma facendo tutto il contrario: a differenza della Terra di Mezzo, Westeros non è un luogo in cui si affrontano un Bene e un Male rigidamente definiti. Nell’universo di Martin gli dei sono presenze evanescenti, e persino la magia è in buona parte emarginata ai confini del mondo: al centro della scena ci sono gli uomini, con le loro debolezze e contraddizioni, con storie contrapposte in cui la ragione spesso sta da ambedue le parti o da nessuna. E che sono vittima dei capricci del caso, e muoiono in modi che non hanno nulla di eroico né di necessario. Un fantasy moderno, che non è fatto per mettere a tacere i dubbi, ma per suscitarne.
Sinceramente pensavo che rendere A Song of Ice and Fire in modo soddisfacente in un serial televisivo fosse quasi impossibile, ma mi sono dovuto ricredere in modo completo. Questa prima stagione, probabilmente anche grazie alla collaborazione dell’autore (che ha una lunga esperienza di sceneggiatore TV), ha una fedeltà assoluta alla lettera ma soprattutto allo spirito dell’originale.
Uno degli elementi maggiormente riusciti è stato il casting. Praticamente tutti i personaggi sono stati affidati ad attori molto bravi, molto somiglianti e molto ben calati nella parte. Anche gli attori-ragazzini, che sono spesso il punto debole di queste produzioni, funzionano benissimo (particolarmente bravi quelli nelle parti di Arya e Joffrey), ma in particolare due interpreti giganteggiano: Sean Bean, che è un Eddard Stark solenne e schiacciato dal peso delle responsabilità; e Peter Dinklage che incarna Tyrion Lannister. O meglio, il secondo non giganteggia, visto che è un nano, ma è riuscito nella difficilissima impresa di rendere Tyrion in tutte le sue sfumature, al tempo stesso carismatico e vulnerabile (senza ricadere nella sindrome del “nano comico” che aveva piagato, purtroppo, il Gimli de Il signore degli anelli di Peter Jackson).
Più in generale, la complicatissima trama è resa molto bene, tagliando grandi quantità di dialoghi ma senza eliminare elementi importanti, anzi, riuscendo nonostante tutto a trasmettere ogni singolo dettaglio che forma la storia. Insomma, difficile immaginare che la serie potesse essere fatta meglio e il successo che le ha arriso ne è la prova.
Certo, bisognerà vedere cosa succederà nelle prossime stagioni. I dubbi sono molteplici: riuscirà la serie a mantenere un’audience sufficiente per gli almeno sette anni (ma probabilmente di più) necessari per portare la storia alla sua conclusione? Riuscirà George R. R. Martin a scrivere i due volumi che ancora gli mancano per arrivare al termine prima che la serie TV lo raggiunga? Riusciranno i produttori a ottenere i finanziamenti per tutte quelle scene costose (battaglie campali e navali, draghi, giganteschi metalupi e così via) che nei libri successivi diventano indispensabili alla trama? E come affronteranno il fatto che i numerosi interpreti-ragazzini cresceranno molto più rapidamente dei loro personaggi? Staremo a vedere. Certo, se riusciranno a mantenersi coerenti con le premesse, Game of Thrones rimarrà nella storia della televisione.
Ci sono altre due cose che vi voglio dire su questo argomento. La prima è che da oggi è finalmente disponibile per tutti (e non solo per gli utenti premium) il numero 6 di Players, che contiene anche un articolo del sottoscritto sulla suddetta serie. Non posso linkarvi direttamente l’articolo, ma lo trovate a pagina 44.
La seconda dovreste poterla osservare qui di lato: mi è arrivato qualche giorno fa il colossale tomo (più di 1000 pagine) di A Dance with Dragons, quinto volume di A Song of Ice and Fire, e me lo sto leggendo avidamente. Ci vorrà un po’, ma appena avrò finito saprete il mio parere. Per il momento posso dirvi che sono piuttosto confuso, dato che le vicende si ricollegano non al quarto volume, ma al terzo, che ho finito di leggere una decina di anni fa. Per giunta, poiché le storie corrono parallele a quelle del quarto libro, ci sono anche dei raccordi in cui vengono presentate scene già viste ma con gli occhi di un altro personaggio, per cui mi capita di avere sensazioni di deja vu e di non capire se sto rileggendo una scena già vista oppure no… insomma, con questa storia di dividere i libri in senso geografico e non temporale ha provocato un bel pasticcio, secondo me… comunque vi saprò dire presto.