Immagino che la maggior parte di voi ritenga che la risposta sia “no”.
Ma ne siete proprio sicuri?
Qualcuno ha voluto verificare se le cose stanno così. F-Secure, l’azienda finlandese di sicurezza informatica, ha piazzato un hot spot Wi-Fi in un locale della City di Londra, e ha fatto in modo che i clienti, per accedere, dovessero accettare delle condizioni di servizio che dicevano tra l’altro:
Nell’usare questo servizio, accettate di cedere il vostro figlio primogenito a F-Secure, se e quando l’azienda lo richiederà. Nel caso in cui non vengano presentati dei figli, al loro posto verrà preso il vostro animale domestico preferito. I termini di questo accordo sono validi per l’eternità.
A quanto pare, nel giro di un’ora e mezza ben sei persone hanno accettato le condizioni. F-Secure ha fatto sapere che:
Non abbiamo ancora fatto valere i nostri diritti come specificati nelle condizioni di utilizzo ma, essendo questo un esperimento, restituiremo i bambini ai loro genitori. Il nostro consulente legale Mark Deem ci ha fatto notare che, anche se le condizioni sono legalmente vincolanti, è contrario alla politica pubblica cedere bambini in cambio di servizi gratuiti, e perciò la clausola non potrebbe essere fatta valere in tribunale.
In un secondo esperimento, F-Secure ha attivato un hot spot in una piazza affollata di Londra (utilizzando un hardware poco costoso e che poteva essere nascosto ovunque). Nel giro di mezz’ora, ben 33 persone si sono collegate all’hot spot e hanno usato la connessione per navigare sul web o spedire e ricevere e-mail, senza rendersi conto che in quel modo le loro comunicazioni potevano essere osservate da un perfetto sconosciuto. 21 di loro si sono lasciate dietro abbastanza dati da poter essere identificate con certezza. I dati completi degli esperimenti sono leggibili qui.
Lo scopo di F-Secure era pubblicizzare un proprio servizio di rete VPN per accedere al Wi-Fi in modo sicuro. Ma il risultato è comunque un ammonimento generale. A quanti di noi è capitato di avere bisogno di una connessione, e di provare a collegarsi alla prima rete non protetta capitata a tiro, senza pensare che poteva essere un esca con cui qualcuno tentava di accedere ai nostri dati? Quanti di noi leggono attentamente le condizioni d’uso di un servizio prima di accettarle? Pensiamoci bene la prossima volta. Altrimenti può capitarci quello che è capitato a Kyle di South Park:
Martedì scorso ho pubblicato su Repubblica Seraun articolo in cui parlavo del progetto Hieroglyph di Neal Stephenson per una fantascienza più ottimista, e riportavo l’opinione in merito di vari autori di fantascienza, italiani e stranieri.
Avevo anche fatto girare la voce che avrei pubblicato qui una versione estesa dell’articolo, dato che lo spazio che ho avuto a disposizione non era sufficiente per riportare interamente i contributi, spesso molto interessanti e articolati, che mi hanno fornito gli scrittori che ho interpellato.
Chiedo scusa a coloro che se la aspettavano per oggi, ma avrò bisogno di un po’ più di tempo per prepararla. Inoltre credo che a questo punto la farò uscire non su queste pagine, ma su quelle di Robot, che mi ha chiesto di poterla pubblicare.
Per intanto, coloro che non sono abbonati e non hanno potuto leggere l’articolo originale possono farlo qui.
Abituato all’Italia, in cui la fantascienza è solitamente vittima di un totale disinteresse sia da parte degli ambienti letterari, sia di quelli scientifici, provo sempre una discreta invidia quando mi accorgo di come altrove sia invece considerata, anche in ambienti serissimi, una valida interlocutrice in grado di dirci qualcosa di importante sul futuro. Un esempio è il progetto Hieroglyph, di cui ho parlato ampiamente altrove, in cui un gruppo di noti scrittori di fantascienza ha provato a convertire in racconti le idee di vari scienziati, sotto l’egida dell’Università dell’Arizona. Oggi però voglio parlarvi invece di IEEE Spectrum, rivista organo dell’associazione internazionale degli ingegneri elettrici ed elettronici, che accanto a ponderosi articoli di microelettronica, robotica o nanotecnologia non disdegna di tanto in tanto di pubblicare articoli di futurologia che confinano con la fantascienza pura. E che, per celebrare i suoi 50 anni, non ha trovato modo migliore che pubblicare un’antologia di fantascienza.
Intitolata Coming Soon Enough (“in arrivo abbastanza presto”), l’antologia è disponibile in ebook e contiene sei racconti di autori noti e meno noti, che avevano come unico vincolo quello di inserire nelle loro storie qualche nuova tecnologia che potrebbe diventare realtà in un futuro non troppo lontano. Queste le opere inserite:
Someone to Watch over Me di Nancy Kress parla di un futuro in cui nascondere una telecamera per spiare qualcuno è facilissimo. Il tema di una tecnologia che dà libero spazio agli sguardi altrui non è certamente nuovo nella fantascienza (basti pensare allo splendido Altri giorni, altri occhi di Bob Shaw, o all’inquietante episodio Ricordi pericolosi della recente serie televisiva britannica Black Mirror), ma il racconto di Kress propone un punto di vista psicopatologico sufficientemente insolito da essere interessante.
A Heart of Power and Oil di Brenda Cooper è il racconto che mi è piaciuto meno. Il tema tecnologico (un drago volante realizzato attraverso la stampa 3D) era potenzialmente molto interessante, ma viene usato solo come sfondo per una prevedibile storia in cui un adulto si riscatta aiutando un ragazzino a trionfare, che avrebbe potuto svolgersi in qualunque epoca.
Incoming di Geoffrey A. Landis affronta un altro tema sfruttatissimo della fantascienza: il Primo Contatto con gli alieni, rivisitato utilizzando i principi scientifici della moderna esoplanetologia. Tipica hard SF: più interessante per le idee che contiene che emozionante in sé.
Grid Princess di Cheryl Rydbom è il racconto che presenta il quadro tecnologico più strutturato: è ambientato in un mondo in cui le persone vivono immerse in un flusso di informazioni continuo di cui l’Internet di oggi è solo una pallida antenata, e per alimentarlo è necessario dedicare enormi porzioni del territorio extraurbano alla raccolta di energia solare. Il tutto però è raccontato in modo intimista e poetico, lasciando la tecnologia sullo sfondo. Forse il mio preferito.
Water over the Dam di Mary Robinette Kowal parla di tecnologie che renderanno possibile ricavare energia in modo molto più localizzato, rendendo obsolete le grandi centrali. Anche in questo caso però la tecnica resta sullo sfondo, mentre la storia di un’ingegnera costretta a lottare contro un capo maschilista avrebbe potuto svolgersi anche ai giorni nostri (anzi: speriamo vivamente che il nostro futuro sia diverso!).
Shadow Flock, il racconto dell’autore più celebre, Greg Egan, è molto più lungo degli altri e si ricollega come tematica alla storia iniziale. Anche in questo caso si parla di privacy messa a rischio dalla tecnologia, con un’ingegnera esperta di droni costretta da una gang di ladri a usare le proprie capacità per carpire informazioni alle vittime di un furto. Egan è un fuoriclasse, e riesce come sempre a descrivere tecnologie future in modo perfettamente credibile. Come in un buon thriller, la tensione sale gradualmente, ed è un peccato che il finale aperto risulti un po’ anticlimactico e “didattico” rispetto alle potenzialità della storia.
Nel complesso, anche se, come quasi sempre accade in questo tipo di antologie tematiche, la qualità dei racconti è disuguale, il livello medio è più che soddisfacente, e tutte le storie offrono spunti interessanti sui nostri possibili futuri. E il prezzo è davvero basso: se sapete l’inglese, potete scaricarla per soli 1,99 $ in versione Kindle o iTunes.
Da oggi apro un nuovo blog “gemello” di questo, incluso tra quelli di Nòva 100 de Il Sole – 24 Ore. L’idea è ovviamente quella di procurarmi un po’ più di visibilità e qualche lettore in più.
Quando ho aperto questo blog ho scelto il sottotitolo e l’immagine della testata in base a quello che doveva esserne il tema prevalente. In pratica però mi sono servito di questo spazio per inserire tutto quello di cui avevo voglia di parlare in pubblico: recensioni di film generici, opinioni politiche, ricette di cucina, segnalazioni di miei articoli, e così via.
L’apertura del nuovo spazio mi dà la possibilità di collaudare un approccio diverso senza rinnegare il precedente. Quindi questo blog continuerà più o meno come prima, mentre l’altro ne riproporrà il contenuto in forma “filtrata”, lasciando solo ciò che riguarda fantascienza, futurologia, scienza, tecnologia, innovazione e temi affini. Potrete seguire l’uno o l’altro a seconda delle vostre preferenze, e mi farò un’idea se per me funzioni meglio l’approccio eclettico o quello tematico.
L’idea sarebbe anche quella di trasformare il blog in un impegno più costante. Sicuramente nei prossimi giorni sarà così. Chi mi segue sa che ho fatto questo proposito svariate volte e mai sono riuscito a mantenerlo a lungo, quindi questa volta non faccio alcuna promessa. Se questa volta ci riuscirò dipenderà anche dal vostro sostegno.
Vi ringrazio per avermi seguito fino a qui. A domani per il primo post del nuovo corso.
Queste, per inciso, sono astronavi tratte da “Spazio: 1999”, episodio “Il ritorno del Voyager”
In questi giorni è corsa voce che la NASA abbia collaudato con successo un motore che sfrutta una forma ritenuta “impossibile” di propulsione, che potrebbe rivoluzionare i viaggi spaziali. Cosa c’è di vero? Provo a spiegarvelo qui. Un’idea eterodossa Il motore in questione non è una novità: si chiame EmDrive, e il suo creatore, l’ingegnere britannico Robert Shawyer, lo ha reso noto già otto anni fa, e lo ha descritto con abbondanza di dettagli in un sito dedicato. L’EmDrive somiglia molto a un forno a microonde: è una cavità chiusa in cui un magnetron diffonde radiazione elettromagnetica. A differenza di un forno, però, l’EmDrive non è squadrato, ma somiglia piuttosto a un imbuto chiuso alle estremità. La lunghezza del tubo è calibrata in modo da essere risonante rispetto alle microonde diffuse, che perciò vengono amplificate.
È noto da oltre un secolo che la radiazione elettromagnetica che colpisce una superficie esercita una pressione, piccola ma misurabile. La forza risultante della pressione di radiazione all’interno di una cavità chiusa dovrebbe essere nulla, allo stesso modo in cui la pressione dell’acqua all’interno di uno scaldabagno non può farlo spostare. Tuttavia Shawyer sostiene che nel caso delle radiazioni la questione è differente: il fatto di muoversi alla velocità della luce farebbe sì che entri in gioco la teoria della Relatività Speciale e che il tutto si comporti come un sistema aperto e non chiuso. La forma svasata della cavità darebbe così una forza risultante non nulla, in grado di “spingere” il motore nonostante non ne esca alcunché. Un motore senza reazione Se l’EmDrive fosse realizzabile, risolverebbe uno dei più grossi problemi del viaggio spaziale, cioè la necessità del propellente. Il principio di Azione e Reazione, descritto da Newton, dice che a ogni forza corrisponde una forza di reazione uguale e contraria. Quando camminiamo, riusciamo a spostarci perché attraverso le nostre gambe esercitiamo una forza contro la Terra, e la forza di reazione ci spinge in avanti (mentre la Terra viene spinta nella direzione opposta ma, essendo la sua massa enorme rispetto a noi, la cosa non ha conseguenze pratiche). Allo stesso modo, un aereo si muove in avanti perché con le sue eliche, o con i suoi motori detti appunto a reazione, spinge l’aria in direzione opposta.
Nello spazio questo non può avvenire, perché non c’è nulla da spingere, né terra né aria. Per poterci muovere dobbiamo portare con noi del propellente, di solito un gas, che espelliamo nella direzione opposta a quella verso cui ci vogliamo muovere. Questo causa due problemi. In primo luogo, aumenta di molto il peso che dobbiamo portare con noi. In secondo luogo, la nostra possibilità di accelerare dura solo finché il propellente non finisce. L’EmDrive, invece, non avrebbe bisogno di propellente, ma solo di elettricità, che dei pannelli solari potrebbero fornirgli a volontà, perlomeno se ci si mantiene nelle vicinanze del Sole. Perché un motore del genere sarebbe rivoluzionario Se l’EmDrive fosse realizzato, permetterebbe per prima cosa di prolungare di molto la vita dei satelliti. Quelli di oggi, una volta finite le riserve di propellente, non possono più effettuare correzioni all’orbita e vanno rapidamente perduti. Un satellite dotato di EmDrive potrebbe invece durare indefinitamente, o perlomeno fino a quando non si guasta.
In prospettiva, però si potrebbe fare molto di più. Razzi vettori ibridi dotati di EmDrive riuscirebbero a sollevare nello spazio carichi più grandi rispetto a quelli provvisti solo di motori chimici. Inoltre l’EmDrive potrebbe fornire a un’astronave una spinta anche piccola ma per un lungo periodo di tempo, consentendole così di raggiungere velocità relativistiche, rendendo possibili i viaggi interstellari.
Infine, ipotizzando di riuscire a costruire EmDrive sufficientemente potenti, li si potrebbe applicare anche ai veicoli terrestri, permettendogli di rimanere sollevati a mezz’aria e di muoversi senza dover vincere l’attrito, come si vede in molti film di fantascienza. Questo sapete benissimo che film è. Perché è un motore “impossibile”
L’invenzione di Shawyer è stata accolta con grande scetticismo, perché presenta un problema non indifferente: sembra violare la legge della conservazione della quantità di moto. E non è cosa da poco, perché si tratta di una legge fondamentale della meccanica, che ha ricevuto innumerevoli conferme.
La legge dice che la somma dei prodotti di tutte le masse per la loro velocità deve essere costante. La sfruttano i pattinatori per regolare la velocità delle loro piroette: allargando le braccia rallentano, stringendole al corpo accelerano, poiché la quantità di moto si conserva.
Con l’EmDrive, invece, questo palesemente non avviene: abbiamo un veicolo che, perlomeno in teoria, aumenta la sua quantità di moto senza che nulla lo equilibri.
Secondo Shawyer, questo non sarebbe un problema: la differenza di quantità di moto sarebbe in qualche modo trasferita alle microonde prodotte. I suoi seguaci hanno espresso questo concetto in modo più ardito: la quantità di moto mancante verrebbe trasferita al “plasma del vuoto quantistico”, il che sembra un riferimento al fatto che secondo la fisica moderna lo spazio non è un vero vuoto, ma un caos in cui particelle virtuali continuano ad apparire e scomparire. L’EmDrive, quindi, farebbe in qualche modo “presa” sullo spazio stesso.
Va fatto notare che Shawyer non è mai riuscito a pubblicare le proprie teorie su una rivista scientifica, in quanto gli scienziati cui sono state sottoposte per la revisione prima della pubblicazione hanno sempre ritenuto insufficienti queste spiegazioni. XKCD ironizza sulla vaghezza dell’espressione “plasma del vuoto quantistico”. Cosa c’entra la NASA?
L’EmDrive è risultato produrre una spinta sia negli esperimenti condotti dallo stesso Shawyer, sia nel corso di un esperimento condotto in Cina nel 2008. La cosa però non ha destato grande scalpore. Tuttavia nei giorni scorsi alcuni ricercatori del centro spaziale Johnson della NASA hanno presentato un articolo scientifico (di cui è disponibile l’abstract) diplomaticamente intitolato Produzione anomala di spinta da parte di un motore sperimentale a radiofrequenza misurata su un pendolo di torsione a bassa spinta. In pratica, si è trattato di un collaudo di un motore che utilizza gli stessi principi alla base dell’EmDrive, anche se di produzione statunitense (il Cannae Drive). L’articolo non si addentra nella teoria del funzionamento del motore, si limita a dire che è stato sottoposto a un esperimento e dalle misure è effettivamente risultato che produce una piccola spinta (dell’ordine dei microgrammi).
Il fatto che l’esperimento sia stato svolto in un laboratorio della NASA ha dato al risultato una visibilità molto maggiore, anche se in realtà si è trattato di un’attività molto marginale da parte di un piccolo gruppo di persone. Non ci sono foto dell’esperimento compiuto dalla NASA. Questa è una foto degli esperimenti di Shawyer. Allora è vero? Il motore funziona?
Tutto è possibile. Tuttavia, considerando i dati a disposizione, io sarei ancora molto scettico prima di ritenere che siamo di fronte a una rivoluzione nella tecnologia del volo spaziale.
Cominciamo col sottolineare che la maggior parte degli scienziati ritiene molto dubbia la validità delle teorie di Shawyer. Confesso di non conoscere l’elettromagnetismo e la relatività in modo sufficientemente approfondito da poter giudicare se i calcoli riportati nel suo breve prospetto teorico sono corretti o meno. Tuttavia una persona che di scienza se ne intende come lo scrittore Greg Egan ha affermato pubblicamente che si tratta di stupidaggini del tutto prive di fondamento, e altri si sono espressi in modo simile.
E i risultati dell’esperimento, allora? Teniamo conto che:
La spinta misurata è piccolissima, estremamente inferiore a quella che dovrebbe essere prodotta in teoria. Valori così bassi potrebbero essere dovuti semplicemente a un errore di misura. Cose del genere capitano di continuo. Ricordiamo il recente caso dei neutrini più veloci della luce, che sembrava preludere a chissà quale rivoluzione nella fisica e invece era soltanto il prodotto di un cavo avariato.
Il resoconto del Johnson Space Center specifica che la stessa spinta è stata misurata anche per un motore modificato in modo tale per cui, secondo la teoria, non avrebbe dovuto produrne. Quindi i casi sono due: o il motore funziona, ma la teoria su cui si basa ha qualcosa che non va, oppure la spinta misurata non dipende dal funzionamento del motore ed è dovuta ad altre cause (cosa vi sembra più probabile?).
Il motore non è stato provato nel vuoto, ma in una camera a pressione atmosferica. Molti fanno notare che la presenza di aria potrebbe aver falsato i risultati, dato che le microonde potrebbero avere ionizzato o scaldato l’aria in modo da produrre microspinte la cui presenza è sfuggita ai ricercatori.
In conclusione: per il momento non è il caso di avere grandi aspettative. È piuttosto probabile che ulteriori test, per esempio compiuti nel vuoto, rivelino che in realtà l’EmDrive è solamente un sogno. È bello però immaginare che possa non essere così. Questo, ovviamente, è Jacovitti
Ebbene sì: con 46 anni di carriera alle spalle, gli Yes hanno prodotto un nuovo album in studio (il ventunesimo, più o meno, a seconda di come li vogliamo contare). E io sono qui a recensirlo per voi, o perlomeno per quei pochi cui l’evento può ancora interessare. Nel frattempo la band ha cambiato ancora una volta formazione: il cantante Benoît David, da poco subentrato alla voce storica del gruppo, Jon Anderson, è stato costretto ad abbandonare per problemi di salute. Al suo posto è entrato Jon Davison, già cantante dei Glass Hammer.
Ho avuto la possibilità di vedere questa formazione in concerto lo scorso 18 maggio, al Teatro della Luna di Milano, e l’impressione è stata ottima. Si è trattato di un’esibizione totalmente retrospettiva, con l’esecuzione filologica e per intero di tre album storici: The Yes Album (1971), Close to the Edge (1972) e Going for the One (1977). Forse non l’occasione migliore per poter giudicare la tenuta della band, che con questi capolavori giocava sul sicuro. Tuttavia i quattro “vecchi” (che hanno tutti passato da tempo i 60 anni) mi sono sembrati in gran forma, mentre Davison (che ha la stessa età di The Yes Album!), pur non avendo la voce inimitabile di Jon Anderson, mi è sembrato sicuro e perfettamente a suo agio, molto più di quanto non fosse David. Perciò, quando ho saputo che un nuovo album stava per arrivare, mi sono messo ad attenderlo con curiosità. Anche perché il predecessore Fly from here non mi era affatto dispiaciuto.
I primi dubbi mi sono venuti quando ho ascoltato le anteprime del disco diffuse online. “Sembra un disco degli Asia”, mi sono detto. Il che non dovrebbe poi sorprendere, dato che due membri della formazione originaria degli Asia fanno parte anche degli Yes attuali. Tuttavia, fatta eccezione per il primo disco, ho sempre trovato gli album degli Asia soporiferi, rock AOR all’americana vagamente truccato da prog, roba di livello inferiore anche agli Yes meno ispirati.
Dopodiché hanno cominciato a piovere le recensioni online: una stroncatura senza appello dietro l’altra. Tanto che, quando finalmente il CD mi è arrivato a casa, mi aspettavo talmente poco da sperare che forse mi avrebbe riservato qualche sorpresa in positivo. Purtroppo così non è stato: Heaven & Earth è proprio un disco deludente.
Il primo problema sta nella produzione: il suono di questo disco è molto povero. Basso e batteria sono quasi sempre relegati sullo sfondo, e il mix generale è decisamente troppo “tastieroso” (e se lo dico io che sono un fanatico delle tastiere, potete credermi!). Ci sono a volte momenti di “vuoto”, in cui uno strumento, pur non facendo nulla di virtuosistico o particolamente interessante, rimane da solo o quasi. Tutto il contrario del sound sinfonico degli Yes. È stato probabilmente un errore affidarsi a Roy Thomas Baker, una vecchia gloria (fu il produttore di tanti album dei Queen) che conosce bene la band (lavorò con gli Yes durante le sessioni parigine del 1979 mai portate a a termine) ma che non è esattamente all’avanguardia. Mi chiedo perché non abbiano pensato a Steven Wilson, che sta facendo un lavoro eccellente nel remixare in quadrifonia il catalogo degli Yes.
Ma la colpa non è certamente solo del produttore. Anche la band non sembra all’altezza della sua fama, poco incisiva anche in quello che è sempre stato il suo massimo punto di forza, cioè la qualità degli interventi strumentali (principali colpevoli: Howe e White, svogliati e privi di nerbo). Soprattutto, le composizioni sono deludenti, e soffrono fortemente dei problemi che già cominciavano ad emergere in Fly from here: lunghezza eccessiva, con brani che si prolungano oltre i sei minuti senza contenere idee adeguate a giustificarlo; scarsa omogeneità, con transizioni faticose tra sezioni che sembrano avere poco in comune tra loro; e infine mancanza di grinta, il problema più grave di Heaven & Earth, quasi completamente adagiato su tempi lenti e soporiferi.
Analizzando i singoli brani:
Believe Again è composta da Davison e Howe, e porta decisamente il marchio stilistico di quest’ultimo. Comincia molto bene con una bella melodia e un bell’arrangiamento, ma dura troppo, e finisce col perdersi senza un colpo d’ala che le doni nuova energia.
The Game, scritta da Davison, Squire e da un collaboratore abituale di quest’ultimo, Gerard Johnson, ha una bella melodia pop, però tira il lungo per quasi sette minuti senza costrutto e significative variazioni. La chitarra di Howe appare davvero poco ispirata.
Step Beyond è un altro brano scritto da Howe con Davison, caratterizzato da un semplice e ripetitivo riff di sintetizzatore. Molti l’hanno odiato, ma io lo considero uno dei pezzi migliori del disco: molto pop, lontano dal sound Yes (ricorda semmai i brani scritti da Howe per gli Asia, come One Step Closer, somigliante anche nel titolo), ma perlomeno equilibrato e con un po’ di originalità.
To Ascend. Il batterista Alan White collabora raramente alla composizione dei brani della band. Questo zuccherosa ballata scritta con Davison purtroppo non rivela doti nascoste: è uno dei pezzi più insignificanti del disco.
In a World of Our Own è uno strano pezzo di Squire/Davison con un ritmo cadenzato e atmosfera retrò da primi anni Settanta. Il momento WTF dell’album: cosa c’entra con tutto il resto?
Light of the Ages è composta dal solo Davison, che sembra voler impersonare in tutto e per tutto lo stile di Jon Anderson. Questo tipo di pezzo sdolcinato, però, risultava spesso un po’ stridente anche in passato. La copia sbiadita proposta da Davison non vale l’ascolto.
It Was All We Knew ripropone il mistero già incontrato nell’album precedente: perché Steve Howe, che pure nei suoi dischi solisti si dimostra ancora molto creativo, per gli Yes sfodera queste canzoni gradevoli ma in fondo mediocri? Belle armonie vocali, ma non decolla mai.
Subway Walls, scritta da Downes e Davison, sembra un tentativo di salvataggio in corner. È il brano più lungo dell’album e l’unico che in qualche modo richiami il vero sound degli Yes. Basso e batteria sono finalmente presenti, e in alcune parti il pezzo funziona molto bene. Ci sono però alcuni momenti confusi che fanno scadere un po’ il tutto. Downes si concede due assoli di tastiere; il primo però utilizza un suono di archi sintetici veramente superato (sembra Revolutions di Jean-Michel Jarre, ma senza le percussioni elettroniche che gli davano un senso), mentre il secondo è un assolo di organo che lascia freddi se paragonato alle prodezze di un Wakeman.
In definitiva, non si capisce bene che cosa avessero in mente gli Yes con questo disco. La sensazione è quella di un gruppo privo di direzione, arrivato in studio senza un’idea precisa e assemblando a casaccio le idee portate dai singoli membri. Che non è quello che ci si si può aspettare da una band con più di 40 anni di storia. Forse l’assenza di Jon Anderson, più che per la voce, pesa per la sua capacità di dare un senso unitario ai contributi dei singoli membri.
Personalmente non ho mai condiviso la posizione, molto diffusa, secondo cui una band dovrebbe sciogliersi dopo che il suo periodo di maggiore creatività è passato, o quando viene a mancare un membro chiave. Nel corso dei decenni ho sempre apprezzato la possibilità di ascoltare nuova musica con lo stile degli Yes: anche se non era all’altezza di Close to the Edge, anche se non tutti i nuovi membri erano bravi quanto i vecchi, valeva la pena di ascoltare il risultato. In questo disco però rischia di non esserci nemmeno un brano degno di essere riascoltato nel tempo. In questi giorni la funzione random dell’autoradio mi ha riproposto un brano tratto da Open Your Eyes, che avevo sempre considerato il disco Yes meno riuscito in assoluto, e mi sono detto: “Rispetto a Heaven & Earth è decisamente meglio, almeno ha più grinta”.
Cari Yes, lasciatevelo dire da un fan che vi segue da decenni: se questo è il massimo che sapete fare oggi, meglio chiuderla qui.
È in uscita in questi giorni Il Sole dei Soli, romanzo di fantascienza di Karl Schroeder che ho tradotto insieme a mia moglie Silvia Castoldi. Viene pubblicato da Zona 42, la nuova e coraggiosa casa editrice specializzata in fantascienza di cui è socio l’amico Iguana Jo.
Primo di un ciclo di seicinque tre romanzi (seguito da un dittico con la stessa ambientazione), è ambientato a Virga, un bizzarro universo artificiale: lo spazio non è vuoto ma è pieno d’aria, e non esistono pianeti, ma soltanto un unico Sole e pochi sparsi frammenti di roccia. Gli esseri umani vivono in edifici che galleggiano nel nulla, si spostano su navi spinte da eliche, e possono sperimentare la gravità solo all’interno di città a forma di ruota che sfruttano la forza centrifuga.
Traducendolo mi sono divertito, e mi è parso un romanzo che può piacere a molti generi di lettore. La trama avventurosa, con pirati, arrembaggi, tesori nascosti e vendette da portare a termine, piacerà sicuramente ai nostalgici della fantascienza di una volta, e l’atmosfera “a bassa tecnologia” sarà gradita ai seguaci dello steampunk. Tuttavia la rigorosità con cui viene descritta la fisica di un universo completamente diverso dal nostro, oltre ad alcuni accenni a questioni di intelligenza artificiale e realtà virtuale, desteranno l’interesse anche di chi ama la fantascienza più “hard”.
Il romanzo è acquistabile, sia in versione cartacea (15,90 €) sia in versione ebook EPUB o MOBI (6,99 €), presso il sito della casa editrice. Le prime copie cartacee sono in spedizione in questi giorni, e dovrebbero essere disponibili anche in alcune librerie selezionate. UPDATE: Pare che la consegna delle copie cartacee sia stata rimandata di un paio di settimane. Abbiate pazienza! 🙂
Non so se mi posso considerare un food blogger: di cibo in questo blog ho parlato molto di rado, e l’ultima volta che ho pubblicato una ricetta è stato diversi anni fa. Nel frattempo sono diventato più bravo (credo), ma anche più esigente, e non ho più pensato a pubblicare altre creazioni culinarie, fino all’anno scorso, quando ho ideato alcune ricette che trovo piuttosto riuscite Era un po’ che pensavo di renderle pubbliche, e l’occasione mi viene offerta dal concorso Risate e Risotti, che per concorrere richiede di pubblicare sul blog una ricetta qualunque a base di riso. Guarda caso la ricetta più particolare che avevo a disposizione è proprio a base di riso: si tratta infatti di un sushi “occidentalizzato”.
Mi è capitato spesso di leggere ricette di sushi “all’italiana”, ma utilizzavano per lo più ingredienti mediterranei, come mozzarella o pomodori. Mi sono chiesto oziosamente come sarebbe stato un sushi creato con ingredienti lombardi. L’equivalente milanese di un California Roll, insomma. E l’idea mi è venuta in un attimo: sostituire il surimi… con del cotechino. Il resto è venuto spontaneo: al posto della maionese: robiola. E al posto dell’avocado, un accompagnamento classico del cotechino: mostarda.
L’ho realizzato per la prima volta quasi per scherzo, e sono rimasto sorpreso di quanto fosse buono. Perlomeno, a me piaceva. Ho trovato il coraggio di presentarlo a cene con amici, e ho ricevuto commenti sempre positivi. Mi ha particolarmente incoraggiato l’amica Cristina, chef del Bistrò At Home di Chieri (TO) e, il cui parere di cuoca eccezionale mi ha convinto della validità della ricetta.
Col tempo ho fatto alcune modifiche. Ho colorato di giallo il riso con lo zafferano per renderlo più milanese. Ho sostituito l’alga nori dei classici uramaki giapponesi con una guaina di porro. E ho aggiunto del pepe come decorazione esterna.
La cosa più difficile è stata trovargli un nome. L’amico Stefano Massaron aveva scherzosamente proposto il nome Calderoli Roll, ironizzando sulla lombardità della pietanza. Non volendo però fare pubblicità alla Lega, per il momento ho adottato un più neutro Naviglio Roll. Ma fatemi sapere se vi viene in mente un nome più carino.
Le foto probabilmente sarebbero potute essere migliori… ma ho avuto poco tempo: sto pubblicando questo post e la ricetta a pochi minuti dallo scadere del termine del concorso (“Che sorpresa!”, dirà chi mi conosce).
Potete leggere la ricetta completa cliccando qui.
Dopo che L’Espresso ha portato a conoscenza degli italiani la campagna pubblicitaria di ArmaLite, in cui il David di Michelangelo imbraccia un fucile mitragliatore definito “un’opera d’arte”, si sono moltiplicate le reazioninegative. Dalla soprintendenza di Firenze fino al neoministro dei Beni Culturali, tutti a dire che la campagna è un illecito, deve cessare immediatamente, è un insulto all’opera, richiederebbe un colossale risarcimento.
Premetto che sono contrario alla vendita di armi ai privati e al culto del fucile, e quindi non provo simpatia per l’azienda in questione (anche se devo dire che l’immagine pubblicitaria è indubbiamente efficace). Trovo però fastidiosamente velleitarie certe prese di posizione. La legge Ronchey, che impone la richiesta di una concessione a pagamento per la riproduzione di beni culturali, è una legge puramente italiana che non ha alcun corrispettivo internazionale. Si può quindi escludere di poterla fare applicare sul territorio statunitense. Tante roboanti dichiarazioni ottengono quindi il solo risultato di dare ulteriore risonanza alla campagna, magari col rischio di incitare altre aziende a fare la stessa cosa.
Al di là delle questioni legali, tuttavia, io mi chiedo se tale scandalo sia realmente giustificato. Quando l’assessore fiorentino alla cultura Givone dichiara: “Quella pubblicità rappresenta un oltraggio forte. È un atto di violenza nei confronti della scultura: come prenderla a martellate e forse, anzi, persino peggio.”, io mi chiedo se abbia la stessa opinione anche dell’opera L.H.O.O.Q., in cui Marcel Duchamp sbeffeggiava la Gioconda di Leonardo disegnandole i baffi. Il David e la Gioconda sono due opere coeve, e Michelangelo e Leonardo due tra i massimi artisti mai vissuti. I casi sono due: o riprodurre l’opera d’arte di un maestro modificandola per cambiarle il senso è un crimine, e allora Duchamp andrebbe tolto dai musei e considerato un criminale; oppure Duchamp resta un grande artista, e allora scandalizzarsi se un pubblicitario ripercorre le sue orme un secolo dopo ha ben poco senso.
Io penso in primo luogo che questo modo di tutelare le opere d’arte, sia pure benintenzionato, sia fuori dal tempo. Viviamo in un mondo in cui chiunque può. in casa propria, procurarsi una copia digitale di qualità di un’opera d’arte, modificarla e diffonderla in rete rendendola disponibile a tutto il mondo. In una situazione in cui persino l’agenzia Getty Images rinuncia a tutelare con il copyright la sua collezione di scatti, pensare di poter sottoporre la riproduzione dei beni culturali a burocratiche autorizzazioni è semplicemente irrealistico. Se l’obiettivo è quello di procurare introiti da destinare alla tutela delle opere, sarà meglio trovare un altro metodo più consono alla modernità.
Se invece il punto è quello di tutelare la sacralità delle opere d’arte, io penso senza mezzi termini che sia un’intenzione sbagliata. Dopo cinquecento anni, credo che il David sia patrimonio di tutta l’umanità. E con questo intendo che ogni persona ha il diritto di farne l’uso che preferisce, incluso quello di sbeffeggiarlo, travisarlo e usarlo per scopi triviali. L’idea che un gruppo di studiosi e/o burocrati abbia il potere di stabilire quale sia il “giusto” uso dell’immagine di un’opera mi pare decrepita e reazionaria, e non credo faccia un buon servizio all’arte, che non ha bisogno di paternalismi per affermarsi.
Mi piacerebbe che questo episodio fosse l’occasione per ripensare alla politica dei diritti di riproduciblità. E per chiedersi se all’Europa convenga seguire gli Stati Uniti nella politica secondo cui anche dopo decenni o secoli la riproduzione di opere di ingegno deve essere sottoposta a infiniti vincoli, autorizzazioni e pagamenti. O se non sarebbe culturalmente molto più sano lasciare che, passato un tempo ragionevole, le opere potessero diffondersi liberamente tra la gente, e fecondarsi a vicenda senza controllo e in modo imprevedibile. Mi piacerebbe, ma ho idea che non succederà.
Corriere e Repubblica (e praticamente ogni altro quotidiano italiano) titolano parlando di “scandalo” e “choc” riguardo a un’indagine commissionata da Save the Children a IPSOS, secondo la quale quasi metà degli italiani riterrebbe accettabile il sesso tra adulti e minori.
Trovando la cosa molto strana, sono andato a cercarmi l’indagine originale (sono bastati 5 minuti su Google). E ho potuto constatare che dice una cosa completamente diversa.
In primo luogo, l’indagine non parla genericamente di minori, ma di adolescenti, e c’è una bella differenza. Vale la pena di ricordare che in Italia il sesso tra un adulto e un minore di 14 anni e praticamente sempre un reato, mentre tra adulti e ragazzi di 14-18 anni è considerato accettabile dalla legge, salvo nei casi in cui l’adulto sia un genitore, un insegnante o un’altra figura con potestà sull’adolescente stesso.
In secondo luogo, dall’indagine risulta che ben il 62% degli adulti considera il sesso con adolescenti inaccettabile in ogni caso, il 18% lo considera accettabile sono in alcune circostanze, e solo il 20% lo approva incondizionatamente. Parlare di “quasi metà degli italiani” è perciò una grossolana forzatura.
Non ne sono sicuro, ma credo che il problema sia partito dall’agenzia ADN Kronos, che riporta correttamente il contenuto dell’indagine, ma nel titolo parla di “sesso con minori”, e per buona misura illustra l’articolo con il manifesto del film Lolita (il cui personaggio, ricordiamolo, nel romanzo ha 12 anni). Ma potrebbe essere invece colpa dell’ANSA, che addirittura riporta la notizia con un link che menziona la “pedofilia”.
Di tutti i principali quotidiani, nessuno che si sia preso la briga di spendere pochi minuti per verificare la notizia. Meglio pubblicare una boiata priva di fondamento che rischiare il “buco. Lascio a voi le conclusioni.