[LAVORI IN CORSO]
Tag: film
Film C.R.A.Z.Y.
Dal modo in cui questo film è pubblicizzato, si potrebbe pensare che sia in un film sugli anni Settanta. In parte lo è: l’epoca è quella ci sono la musica, l’androginia, la droga, e i vari miti del periodo. Però C.R.A.Z.Y. non è (o non riesce a essere) un film su un’epoca, ed è essenzialmente una storia di rapporti interpersonali in una famiglia turbata dalla dipendenza dalla droga del primogenito Ramon e dalla bisessualità di Zachary, penultimogenito e protagonista del film. Il "non essere fino in fondo" è purtroppo una delle cifre stilistiche di questo film: basti pensare che il titolo rimanda, oltre che a una canzone di Patsy Cline, alle iniziali dei cinque fratelli; ma poi il film si occupa solo di due di loro, lasciando gli altri tre nell’ombra. Oppure che uno dei temi centrali sono i poteri taumaturgici del protagonista, che a seconda dei momenti sembrano esistere o non esistere, senza che mai si pervenga a una conclusione.
Il film comincia piuttosto bene creando un’atmosfera magico-umoristica, ma questa si perde gradatamente fino a sfociare in un drammone familiare a forti tinte (ed è la parte più debole, che lo fa sembrare decisamente troppo lungo). Non mancano belle scene, personaggi ben caratterizzati, momenti azzeccati, ma la tentazione di dire troppe cose finisce per lasciare una sensazione di inconcludenza.
Film: Inside Man
Un gruppo di rapinatori mascherati irrompe in una banca di New York e prende decine di persone in ostaggio. I negoziatori della polizia si preparano a un lungo assedio. Ma piano piano il detective Frazier si rende conto che questa non è la solita rapina, che nessuno vuole veramente quello che dice di volere, e che è in atto un complicatissimo gioco delle parti. Non voglio rivelare altro della trama di un film in cui una parte considerevole del divertimento proviene dalle continue sorprese e rivolgimenti. Dirò però che questo è un film da vedere assolutamente, e che Spike Lee ha fatto centro una seconda volta dopo La venticinquesima ora, facendo dimenticare le tante opere poco riuscite degli anni recenti.
Per chi vuole divertirsi, Inside Man è un thriller come non se ne facevano più da un sacco di tempo: quasi del tutto privo di violenza, con dialoghi scoppiettanti perfettamente cesellati, e in grado di tenere alta la suspence fino alla fine. Certo, a volere essere pignoli la trama non è il massimo della verosimiglianza, e qua e là si intravede qualche buco (possibile che sia così facile entrare armati e mascherati in una banca di New York? Laggiù non usano metal detector e porte automatiche? E Christopher Plummer non è un po’ troppo in forma per essere uno che aveva trent’anni ai tempi della Seconda Guerra Mondiale?). Ma il gioco della regia è tanto sapiente da non far pesare questi difetti. Sono stupendi i continui flash-forward con cui vengono presentati gli interrogatori del dopo-rapina, in un sottile gioco che passa gradatamente allo spettatore informazioni essenziali senza mai lasciargli capire come stanno veramente le cose. Gli interpreti rendono tutti al massimo (in particolare il protagonista Denzel Washington), e Spike Lee sa sempre perfettamente dove mettere la macchina da presa.
Basterebbe per fare un ottimo film. Ma in più c’è il sottotesto, che dimostra come anche oggi sia possibile fare del cinema scopertamente commerciale senza per questo rinunciare a dire qualcosa. Inside Man è pieno di situazioni paradossali e illuminanti (dall’ostaggio sikh che, liberato, viene trattato come un terrorista, al rapinatore che rimane orripilato dalla violenza di un videogioco), che vanno gradatamente a comporre un quadro inquietante, in cui la verità è sconosciuta a tutti, i cattivi sono in realtà migliori di tanti altri, i buoni hanno qualcosa da nascondere, i ricchi e i potenti fanno quello che vogliono mentre la gente terrorizzata non capisce nulla. Ci voleva un thriller di buona fattura per darci una perfetta descrizione del mondo di oggi. Imperdibile.
Film: L'era glaciale 2 – il disgelo
Il film L’era glaciale è stato una piacevole sorpresa tra le animazioni degli ultimi anni. Senza vantare la sofisticazione stilistica delle animazioni della Pixar, riusciva a combinare una comicità "fisica" reminescente dei grandi cartoni animati della Warner (non a caso produttrice) con una storia non banale e dei personaggi riuscitissimi. Inevitabile un seguito, con gli stessi personaggi. Questa volta Sid il bradipo, Manny il mammut e Diego la tigre dai denti a sciabola devono scappare da una colossale inondazione dovuta alla fine dell’era glaciale. Lungo la strada Manny, che è depresso perché teme di essere rimasto l’ultimo della propria specie, incontrerà invece un mammut femmina. La cosa però gli procurerà dei grattacapi, in quanto la possibile compagna è stata allevata da una famiglia di opossum, ed è fermamente convinta di essere una di loro…
Dal punto di vista strettamente filmico, L’era glaciale 2 non riesce a uguagliare il prototipo. La storia non sempre è coerente: il personaggio di Diego, per esempio, risulta fuori posto all’interno di un branco di erbivori, e il suo dramma personale – quello di vincere la paura dell’acqua – appare un po’ debole rispetto al resto della vicenda. Considerato dal punto di vista del puro divertimento, tuttavia, il film risulta anche più riuscito del precedente, e assicura risate continue sia ai bambini che agli adulti. Gran parte del merito va allo sfortunatissimo scoiattolo Scrat, un perdente di statura pari al gatto Slivestro o a Wile E. Coyote, i cui tentativi di acchiappare la sempre sfuggente ghianda costituiscono un film nel film, forse la parte migliore del tutto.
Film: La famiglia Omicidi
Non lasciatevi ingannare dal faccione di Rowan Atkinson sui manifesti: La Famiglia Omicidi non ha nulla a che vedere con la comicità demenziale e fisica di Mr. Bean, ma è invece una commedia nera inglese di stampo classicissimo, per non dire retrò. Il suddetto Atkinson è pastore anglicano in un minuscolo villaggio britannico, e si perde dietro noiosissime incombenze senza accorgersi che la famiglia va a rotoli: la moglie trascurata si lascia sedurre dal buzzurro maestro di golf americano, la figlia si porta a letto mezzo paese, il figlio è vessato dai bulli della scuola. A mettere a posto le cose ci penserà la neoassunta governante, che nasconde un piccolo segreto: è appena uscita da un manicomio criminale dove è stata rinchiusa per quarant’anni dopo aver fatto a pezzi il marito e la di lui amante. La dolce Grace, così si chiama, insegnerà alla famigliola che tutti i problemi si risolvono: bastano buonsenso, comprensione, e un corpo contundente per sbarazzarsi di tutti coloro che ostacolano la pace familiare.
A volerli cercare, di difetti a questo film se ne troverebbero parecchi. Il colpo di scena finale è telefonatissimo, il personaggio di Atkinson fa al massimo sorridere, ma mai ridere, quello della figlia non è sviluppato a sufficienza, e in generale si sentirebbe il bisogno di un po’ di prevedibilità in meno e di qualche gag in più. Persino la musica sembra una cattiva imitazione di Morricone. Tuttavia, nonostante tutto questo, il film funziona, grazie soprattutto all’estrema professionalità degli attori (sempre grandissima Maggie Smith, ma ottimi anche Kristin Scott Thomas e Patrick Swayze) e a una levità tutta inglese, che conduce senza parere a una morale inquietante: la tranquillità della famiglia poggia su un bel po’ di cadaveri. Mica male, per quello che si presenta come un film di puro intrattenimento! In definitiva, più interessante di molti film più blasonati.
Film: Wallace & Gromit in La maledizione del coniglio mannaro
Dopo tre splendidi cortometraggi, finalmente approdano al lungometraggio gli adorabili Wallace & Gromit, personaggi di plastilina animati dagli studi inglesi Aardman al ritmo di tre secondi di film al giorno (ci sono voluti cinque anni per finirlo!). In questo episodio lo strampalato inventore Wallace ha organizzato un servizio per proteggere dal flagello dei conigli gli orti dei suoi compaesani, che vivono tutti in funzione di un concorso per verdure giganti organizzato da Lady Campanula Tottington. Ovviamente Wallace si caccerà nei guai, questa volta a causa di un coniglio mannaro che semina il terrore nei campi, e toccherà ancora una volta al suo fidato e intelligentissimo assistente, il cane Gromit, cavarlo di impaccio.
Il film è delizioso e mantiene inalterati i pregi degli episodi precedenti: personaggi di plastilina che sembrano vivi per l’espressività della mimica e la precisione dei tic, umorismo inglese spesso molto sottile, fatto di piccoli dettagli, il tutto all’interno di una trama strampalata ma coerente che cita atmosfere e inquadrature di tanti classici del cinema senza che mai il gioco diventi fine a se stesso. Il successo incontrato dalla Aardman con Galline in fuga ha portato in dote una maggiore ricchezza produttiva, che si può notare, per esempio, dalla colonna sonora di Hans Zimmer, che non ha nulla da invidiare a quella di un vero film d’azione. C’è anche qualche gag un po’ più "adulta" (irresistibile il coniglio mannaro che palpa il sedere a Gromit travestito da coniglia mannara). Forse la lunga durata fa risaltare quello che è un pregio ma anche un limite dei personaggi creati da Nick Park: il loro essere così totalmente inglesi, legati a una società di piccoli villaggi che non esiste più e che, più che essere satireggiata, viene trattata con una bonomia un po’ nostalgica. Ma perché cercare il pelo nell’uovo? Più di tanti altri film questo è autentico cinema, in cui ogni inquadratura è pensata, ogni singolo dettaglio è un parto diretto della fantasia dell’autore, e i personaggi che "parlano" di più sono quelli muti. Guardatelo (ma anche i cortometraggi!).
Film: Broken Flowers
Pensavo: dev’essere successo qualcosa a Jim Jarmusch. Com’è possibile che per tutta la sua carriera lui abbia girato film che sembravano improvvisati sul momento insieme agli attori (e probabilmente lo erano), e poi di colpo, a partire da Dead Man, si sia messo a sfornare film che sembrano pensati in ogni minimo dettaglio, in cui ogni particolare sembra rimandare a un altro?
Poi però ho letto che Jarmusch ha dichiarato di aver scritto la sceneggiatura di Broken Flowers in dieci giorni. E allora? O mi sto immaginando tutto, oppure a forza di improvvisare quest’uomo ha imparato a scodellare film completi nel tempo in cui altri registi non girano neppure una scena.
Comunque sia, la storia di Broken Flowers è piuttosto semplice. Don Johnston (ogni riferimento a Don Giovanni è puramente trasparente) è un seduttore cinquantenne depresso. Piantato dall’ultima amante, riceve una lettera non firmata in cui una donna lo informa di avere avuto un figlio da lui diciannove anni prima. Roso dalla curiosità, Don si reca in visita alle cinque donne che, secondo i suoi calcoli, potrebbero essere le autrici della missiva, rintracciate con l’aiuto di un vicino col pallino delle investigazioni. La ricerca diventerà un viaggio dentro il suo passato, cercando di portare a galla ciò che avrebbe potuto essere e forse si è verificato, e lo lascerà più confuso che mai.
Broken Flowers va accuratamente evitato da chi non tollera i ritmi lenti o pretende che un film risponda a tutte le domande che suscita. Gli altri potranno godersi un’opera al tempo stesso amara e divertente, piena di sorprese e di umorismo bizzarro. Bill Murray è semplciemente strepitoso (c’è chi dice che è manierato, ma parlare di maniera perché il suo personaggio somiglia un po’ a quello di Lost in Translation mi pare fuori luogo), ma lo sono anche le cinque attrici che interpretano ruoli diversissimi da quelli abituali, spesso irriconoscibili senza trucco e glamour. Persino la colonna sonora (a base di jazz etiope di Mulatu Astatke) è insolita e notevole. Tutta la mia ammirazione va comunque a Jarmusch, che dopo Dead Man e Ghost Dog allinea un altro personaggio memorabile e un altro genere affrontato con successo (dopo il western e il film d’azione, la commedia sentimentale). Il tutto con uno stile personalissimo, fatto di lunghe inquadrature in cui l’attenzione dello spettatore può spaziare per cogliere dettagli essenziali (come gli oggetti rosa che costituiscono il nascosto filo conduttore di questo film). Un altro così e lo eleggo mio regista preferito.
P.S.: Per onestà intellettuale, devo informarvi che c’è chi non la pensa al mio stesso modo. Ecco un esempio.
P.P.S.:Mi rammarico inoltre di avere impiegato tanto tempo a commentare questo film che nel frattempo è uscito dalle sale. Faccio proposito di essere più sollecito.
P.P.P.S.: Sì, lo so, sto facendo solo recensioni molto positive… ma non è colpa mia se ho visto dei film che mi sono piaciuti. E poi, in generale, a me i film piacciono. Devono avere un difetto grave perché io scriva una recensione negativa.
Film: I segreti di Brokeback Mountain
Sono andato a vedere questo film con la quasi certezza di annoiarmi. Per quanto apprezzi molto Ang Lee, ho una discreta allergia per la categoria dei film d’amore (ricordo ancora il tedio provato durante la visione di I ponti di Madison County dell’insospettabile Clint Eastwood), e temevo che Brokeback Mountain rientrasse in tale categoria (complice anche un trailer piuttosto fuorviante). Ma sbagliavo. Perché, pur essendo una storia d’amore, questo film non ha nulla di sdolcinato, e l’ho seguito senza annoiarmi per tutti i 134 minuti della sua durata.
Quello che fa la differenza è il paesaggio del Wyoming. E non perché Ang Lee abbia girato inquadrature da cartolina (che pure non mancano), ma perché è il contesto a rendere drammatica la storia dei due cowboy Ennis e Jack. Il film inizia con una silenziosa attesa che sembra quasi quella che apre C’era una volta il West di Sergio Leone. Ed è proprio un residuo del selvaggio West quello che vediamo, che ha perso tutto il fascino ma in cui è rimasta tutta la carica di violenza e disperazione. Non c’è nulla di romantico nella vita grama che i due fanno al seguito di un gregge di pecore in alta montagna, e proprio per questo l’improvviso scoccare della scintilla tra idue cowboy acquista una drammaticità assente da quei film in cui l’omosessualità è qualcosa su cui si può scherzare (come nel pur ottimo film di esordio di Ang Lee, Il banchetto di nozze). Il regista ha il grande merito di evitare scene didascaliche, e di far percepire allo spettatore il peso della discriminazione che incombe sui due protagonisti in modo quasi del tutto implicito, e proprio per questi più efficace. Forse nella seconda parte il film avrebbe potuto dilungarsi un po’ meno, ma è un difetto veniale per un’opera che ha sicuramente meritato la pioggia di riconoscimenti ricevuta.
Ottimi gli interpreti, che vengono progressivamente invecchiati fino al doppio della loro età anagrafica: Heath Ledger sembra uno Steve McQueen redivivo, e anche l’ex-Donnie-Darko Jake Gyllenhaal è perfettamente in parte. In conclusione, un film che mi sento di raccomandare senza esitazioni.
Film: Match Point
C’è chi ha detto che non è il solito Woody Allen. Sbagliando. Perché, se questo film ha un difetto, è proprio quello di ricalcare troppo da vicino un altro film di Woody, lo splendido Crimini e misfatti. Ma un vecchio maestro come lui ha tutto il diritto di ripetersi, se riesce a farlo in modo così impeccabile. Quanti sono i registi che, passati i 70 anni, riescono ancora a migliorare il proprio stile invece che scadere nella maniera?
Ma andiamo con ordine. Chris è un giovanotto irlandese di umili natali che ha la possibilità di accasarsi con la giovane rampolla di una ricchissima famiglia inglese, disposta ad accoglierlo e a fare di lui un uomo di successo. L’opportunista interpreta di buon grado la parte che gli è stata offerta, fino a quando incontra Nola, fidanzata del suo futuro cognato. Per un po’ Chris crede di poter essere se stesso con Nola e tutt’altra persona in famiglia ma, quando i due ruoli entrano insanabilmente in contrasto, si trova di fronte a una scelta terribile.
Il film scorre lineare senza mai annoiare, grazie a dialoghi perfetti (che sembrano a ogni momento sul punto di decollare verso i crescendo di battute tipici delle commedie alleniane, e invece si fermano subito dopo aver generato l’ombra di un sorriso) ed alla consumata abilità del regista, che un’inquadratura dopo l’altra ci restituisce un fedele ritratto dell’alta società londinese (forse Allen non avrà la mano felice nel descrivere gli sfigati, come in Criminali da strapazzo, ma i ricchi li sa dipingere come nessun altro). Scarlett Johannson è perfetta nella parte dell’americana sexy e un po’ volgare (tutto l’opposto della giovane pensosa ed eterea di Lost in Translation: la ragazza sa recitare). Jonathan Rhys-Meyers può sembrare algido nel primo tempo, ma si riscatta completamente quando il dramma gli fa perdere la sua compostezza. Ed è forse l’intuizione più geniale del film, farci vedere l’autore del misfatto che piange calde lacrime di fronte all’orrore di ciò che sta facendo, eppure non può fermarsi. Allen è poi abilissimo nel trasformare il finale in un trattato filosofico senza minimamente far cadere la tensione, anzi, con un rovesciamento che sorprende completamente gli spettatori (e che Hitchcock, probabilmente ispiratore dei dialoghi tra i due poliziotti, avrebbe sicuramente apprezzato).
In definitiva, in Match Point il nostro Woody dimostra una classe e una sicurezza invidiabili, da fargli sicuramente perdonare tutte le sue ultime mediocri prove (e in particolare l’insulso Melinda e Melinda). Evidentemente l’Europa gli fa bene. Non vediamo l’ora di vedere il prossimo, Scoop, sempre ambientato a Londra. Intanto, se non lo avete già fatto, correte a vedere questo!
Film: Zucker… come diventare ebreo in sette giorni
Jackie Zucker è un ex-giornalista sportivo della DDR, che dopo il crollo del Muro sbarca il lunario gestendo un night club equivoco e giocando a biliardo. I figli non sopportano più la sua cialtroneria, la moglie vuole il divorzio, i creditori gli stanno alle costole. All’improvviso gli giunge una notizia: la madre, fuggita all’Ovest quarant’anni prima con il figlio maggiore, è morta e gli ha lasciato un’eredità che potrebbe toglierlo dai guai… a condizione che si riconcilii col fratello, un ebreo tanto ortodosso quanto lui è ateo e gaudente.
Ha destato molta sensazione il fatto che "Alles auf Zucker!" sia il primo film tedesco del dopoguerra che si permette di rappresentare gli ebrei in moto ironico e critico; ma, a sessant’anni e passa dalla caduta di Berlino, non credo ci sia da meravigliarsene, né tantomeno da scandalizzarsi. Il regista David Levy mette molta carne al fuoco, forse troppa, sovrapponendo al sotterraneo conflitto est-ovest che percorre la Germania odierna quello tra religione e modernità. Ma riesce a non cadere nelle trappole del didascalismo, e a costruire un film equilibrato, che non cerca di impartire facili lezioni, e nemmeno di inseguire la gag a ogni costo, ma vuole sopratutto raccontare una storia, a tratti davvero molto divertente.
"Zucker!" non è un film riuscito come "Goodbye, Lenin!" (al quale peraltro assomiglia non poco, per il modo in cui da una storia inizialmente farsesca e sconclusionata emergono gradualmente dal passato elementi anche drammatici). Verso il finale la trama tende a sfilacciarsi un po’, la storia di alcuni personaggi risulta un po’ confusa e improbabile, e, soprattutto, il finale non è pirotecnico come l’inizio lasciava sperare. Ma vale sicuramente la pena di vederlo, per ridere di gusto e per godere di un cinema impegnato ma dal tocco leggero, molto diverso dalla plumbea seriosità che ci si aspetta dai tedeschi.