Per uccidere la moglie che lo tradisce, un ingegnere col pallino della precisione crea un piano diabolico che gli consente di farla franca pur essendo manifestamente colpevole. Questo manda in crisi il giovane avvocato chiamato a rappresentare la pubblica accusa, che non si rassegna all’impotenza.
Il Caso Thomas Crawford (pessimo titolo italiano che sembra fare il verso, non si sa perché, a Il Caso Thomas Crown; molto meglio l’originale Fracture) aspira a imitare i classici gialli alla Hitchcock, quelli in cui si rimane fino all’ultimo col fiato sospeso per scoprire il dettaglio rivelatore che svela l’operato dell’assassino. E ci riesce anche abbastanza bene, per giunta con un bel capovolgimento: qui l’importante non è scoprire come ha fatto l’assassino a commettere il delitto (lo sappiamo benissimo: lo vediamo all’inizio del film), bensì come ha fatto a manipolare le prove in modo da rendere legalmente impossibile incriminarlo. Ed è piuttosto ben costruita anche la figura del protagonista, un giovane avvocato "vincente" le cui certezze e la cui carriera vanno in frantumi scontrandosi contro il gelido cinismo del colpevole.
Quello che manca al film è un antagonista del tutto convincente. Anthony Hopkins interpreta l’assassino come l’ennesima variante di Hannibal Lecter: intelligentissimo, spietato, cinico, al punto da risultare disumano e meccanico come i congegni che costruisce per diletto. Non riusciamo a capire chi sia, perché sia diventato così. Perciò la tensione regge fin quasi alla fine ma, quando l’arcano viene svelato, il personaggio si sgonfia e il finale risulta meno incisivo di quanto dovrebbe.
Operazione dunque non perfettamente riuscita, ma resta comunque un thriller giudiziario piuttosto godibile e originale, il che di questi tempi non è poco.