Morire per vivere

La Terra ha ormai colonizzato un gran numero di pianeti, ma una legge-quarantena che protegge il nostro mondo dalle contaminazioni proibisce a chi se ne va di ritornare indietro. John Perry ha 75 anni, è appena rimasto vedovo, e non si aspetta più molto dalla vita. Accetta perciò di arruolarsi nelle Forze di Difesa Coloniale: dovrà combattere per due anni o più, ma in cambio, dicono, ritornerà artificialmente giovane…

È ormai rarissimo che in Italia vengano tradotti romanzi inediti di fantascienza  (fatta eccezione per quelli ispirati a film, TV o videogiochi). Lode quindi a Gargoyle che ha portato in Italia il primo volume della fortunata serie di John Scalzi, Old Man’s War.
La lettura del libro mi ha dato fin dall’inizio una sensazione di “vecchia fantascienza”, sia in senso positivo che negativo. Da un lato, fa piacere leggere un romanzo che non è un thriller mascherato, e nemmeno si basa su ipotesi scientifiche tanto esotiche da essere difficile da seguire, come spesso capita con i testi moderni. Dall’altro, però, l’opera presenta alcune mancanze che sono disposto a perdonare ai classici, ma non alla narrativa di questo millennio.
La prima cosa che colpisce della scrittura di Scalzi è che rinuncia a tutti gli abusati meccanismi che gli scrittori di genere odierni utilizzano per creare tensione: non ci sono narrazioni parallele, cambiamenti di punto di vista, flash-back o flash-forward. La narrazione è lineare, in prima persona e segue un unico personaggio. Questo può sembrare semplicistico, ma mi sono convinto che sia un pregio: Scalzi sa tenere viva l’attenzione del lettore sulla propria storia senza trucchi non necessari, e non è da tutti.
L’altra caratteristica notevole di Scalzi è l’originale ed efficace miscuglio di stili. Le scene di battaglia sono rappresentate con un convincente equilibrio tra avventura e crudo realismo, degno dei migliori romanzi d’azione. Gli alieni, invece, sono descritti con un paradossale umorismo nero che fa pensare quasi a un Robert Sheckley o a un Douglas Adams. Infine, il vero filo conduttore dell’opera è il tentativo del protagonista e dei suoi compagni di rimanere umani pur essendo catapultati in un mondo totalmente alieno con corpi e menti artificiali. Un tema non nuovo, ma che l’autore tratta seguendo una malinconica vena introspettiva, l’autentico pregio del romanzo.
Dal punto di vista del realismo tecnologico, alcune parti sono convincenti, altre molto meno. Mi è piaciuta molto la descrizione dei corpi dei soldati, del computer che hanno installato nella testa e dell’uso che ne fanno. Ho però forti dubbi sul fatto che una futura guerra interstellare si combatterà scaricando migliaia di fanti sulla superficie dei pianeti. Da questo punto di vista, trovavo più convincente Fanteria dello spazio (il libro, non il film), dove i “fanti” spaziali usano armature, volano, sparano armi nucleari e si muovono a centinaia di chilometri l’uno dall’altro. Mi è difficile credere una battaglia contro gli alieni somiglierebbe al Vietnam o allo sbarco in Normandia.
Più in generale, a parte la descrizione dell’esercito, manca un serio tentativo di creare un mondo credibile nel suo insieme dal punto di vista economico, sociale o tecnologico. La società delle colonie spaziali non viene mai mostrata, mentre le scene ambientate sulla Terra hanno un sapore addirittura retrò, potrebbero svolgersi negli anni Cinquanta. Paradossalmente, alle reclute vengono distribuiti dei “PDA” su cui scrivere usando uno stilo: roba che era già nei negozi quando il romanzo è uscito, e che oggi è già obsoleta (persino il termine PDA non si usa più!).
Quello che però non sono proprio riuscito a digerire in Morire per vivere è il sottinteso politico di fondo. Questo viene esplicitato in un discorso che un ufficiale fa alle reclute: la guerra è brutta, ma necessaria e inevitabile. Le risorse dell’Universo sono scarse, ed essere meno aggressivi significherebbe rimanere indietro rispetto alle altre razze e soccombere. Talvolta si può trovare una soluzione pacifica, ma nella maggioranza dei casi le culture aliene sono troppo diverse dalla nostra per trovare un terreno comune. Quindi la guerra è l’unica soluzione. E non solo la guerra difensiva, ma anche quella offensiva: una delle operazioni militari descritte è un attacco preventivo a una civiltà “concorrente”, la cui società ed economia vengono chirurgicamente devastate, riportandole a un’era preindustriale e riducendo la popolazione alla carestia e al caos.
So che non bisogna confondere le opinioni di un personaggio con quelle dell’autore, tuttavia Scalzi, perlomeno nel corso di questo romanzo, non ci offre alcuna visione alternativa. A qualcuno viene il dubbio che le cose potrebbero andare un po’ diversamente, ma né il protagonista né i suoi amici pensano mai di mettere in discussione la struttura di cui fanno parte. L’unico personaggio che si ribella viene rappresentato come un idiota sognatore che si fa ammazzare in modo ridicolo senza concludere nulla. L’esercito, d’altra parte, viene descritto come un’organizzazione dura e severa ma anche giusta ed efficientissima, del tutto scevra da bullismo, disorganizzazione, corruzione o incompetenza.
Inutile usare giri di parole: a mio avviso Morire per vivere trasuda militarismo, e fa un elogio della guerra e dell’imperialismo che riecheggia alla perfezione le posizioni dell’amministrazione Bush sullo “scontro di civiltà”. Probabilmente era difficile aspettarsi altro da un autore che ha fatto di Robert Heinlein il proprio modello, ma resto comunque molto deluso. Specie dopo aver letto romanzi come Il ritorno delle furie o Black Man di Richard Morgan, che descrivono azioni militari sposandole a un’analisi politica di ben altro colore (e spessore).
Riassumendo: Morire per vivere è un romanzo avvincente, divertente e ben scritto, che mescola in modo proporzionato azione pura, umorismo e la storia toccante di un uomo che rinasce in un mondo nuovo. Tuttavia per goderselo bisogna essere capaci di astrarsi dalla visione politica discutibile che l’autore usa come sfondo.
Concludo accennando alla traduzione, che si lascia leggere ma è sicuramente migliorabile. Anche se la scrittura piana di Scalzi volta in italiano rimane scorrevole e briosa, nel caso di espressioni idiomatiche o insolite la traduttrice ha preso più volte fischi per fiaschi. Un esempio: la frase “No shit”, che significa all’incirca “Sul serio”, “Vuoi scherzare” o “Proprio così”, viene tradotta letteralmente con un “No, merda” privo di senso.
AGGIORNAMENTO: Ho intervistato via e-mail John Scalzi (persona molto gentile e professionale), che di fronte alle mie domande “politiche” ha preso un po’ le distanze dalla mia interpretazione. Ne riparleremo tra qualche settimana, quando pubblicherò l’intervista.

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Più lenti della luce

Avevo scritto:

“Teniamo presente che la cosa tuttora più probabile è che si tratti di un errore. […] A volte i risultati più improbabili hanno cause del tutto banali, e ci vogliono anni per scoprirle. Quindi prepariamoci alla possibilità che tra qualche mese o anno tutto finisca nel nulla.

Da allora sono passati cinque mesi, e ora pare proprio che le cose stessero così. Devo ammettere però che, come causa dell’errore che ha fatto pensare che i neutrini potessero essere più veloci della luce, mi aspettavo comunque qualcosa di più interessante di un cavo fissato male.

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La talpa

Control, il capo dell’Intelligence Service, è convinto che tra i suoi uomini si nasconda una “talpa”. Ma il tentativo di dimostrarlo finisce in disastro, con un agente ucciso all’estero, e Control è costretto a lasciare. Due anni dopo, però, si fa vivo un agente disperso che sostiene che la talpa c’è davvero. Il governo decide allora di affidare a George Smiley, il più fedele collaboratore di Control, anche lui dimissionario, un’indagine segreta per scoprire la verità.

Cominciamo con un’avvertenza: La talpa è un film che richiede tutta l’attenzione dello spettatore. Se vi perdete un nome, un dettaglio, un volto, rischiate di non capire più nulla. Questo, a mio avviso, non è un difetto: è una caratteristica essenziale del film di spionaggio classico, in cui il godimento sta proprio nel vivere lo stesso sforzo mentale dei protagonisti. Quindi, se non vi ritenete capaci mantenere di questo tipo di attenzione per due ore e venti, guardate qualcosa d’altro, che è meglio.
Abbiamo detto “spionaggio classico”, e in effetti La talpa (che è tratto da un romanzo di John Le Carré, uno dei più perfetti testi del genere di tutti i tempi) è lontanissimo dai film di agenti segreti alla 007 o alla Mission Impossible. Ogni inquadratura è pervasa da uno squallore dalla sfumatura tipicamente britannica (citiamo tra tutte quella in cui i funzionari dell’MI6 si rilassano nuotando, pallidi e occhialuti, in una piscina grigia e angusta) che è l’esatto opposto del glamour. Non ci sono lunghe scene d’azione, bensì una costante sensazione di tensione che, quando si risolve, lo fa con una violenza fulminea e antispettacolare che, proprio per questo, appare ancora più brutale allo spettatore.
Gli sceneggiatori hanno fatto un piccolo miracolo nel far stare in poco più di due ore di film la complicatissima vicenda narrata dal romanzo senza semplificarla o sacrificare personaggi, e soprattutto conservandone la claustrofobica atmosfera. In particolare, penso sia resa benissimo la violenza psicologica sottesa tra i due omologhi e avversari, Smiley e Karla, che lascia una sensazione amara più ancora della violenza fisica.
Non mi basterebbe lo spazio per dire quanto siano bravi tutti gli attori. Un cast di splendidi professionisti: John Hurt, Mark Strong, Tom Hardy, Colin Firth, Benedict Cumberbatch (quello di Sherlock), sui quali spicca un grandissimo Gary Oldman, impeccabile nel rappresentare uno Smiley controllato e calcolatore ma che nondimeno lascia intravedere profonde emozioni sotto la superficie.
L’unica critica che mi sento di fare al film è che il finale risulta un po’ troppo rapido, e non approfondisce a sufficienza le ragioni che hanno spinto la talpa a diventare tale. Geniale però l’idea di accompagnare le ultime scene con una canzone di Julio Iglesias, un contrappunto ironico e stridente al triste trionfo di Smiley.
Con questo film Tomas Alfredson si conferma un regista dalle capacità eccezionali. La talpa è forse, per le sue caratteritiche intrinseche, un’opera meno emozionante del bellissimo Lasciami Entrare (film per cui nutro un’ammirazione sviscerata), ma è comunque altrettanto riuscita.
Nota finale: il titolo originale del film e del romanzo è Tinker Tailor Soldier Spy, e deriva da una tradizionale “conta” inglese che recita: “tinker, tailor, soldier, sailor, rich man, poor man, beggarman, thief” (“calderaio, sarto, soldato, marinaio, ricco, povero, mendicante, ladro”), dalla quale Control prende i nomi in codice con cui designa tutti i personaggi della vicenda. Nel film la cosa non viene spiegata, e lo spettatore ignaro può rimanere un po’ stupito dal fatto che all’improvviso si cominci a parlare di “calderaio”, “sarto”, “soldato e così via.

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Hugo Cabret

Parigi, 1930. Hugo è un orfano che vive nei cunicoli della stazione Montparnasse di Parigi, dove mantiene in funzione gli orologi sostituendosi allo zio, un ubriacone scomparso da tempo. Il suo scopo nella vita è rimettere in funzione un automa scrivano lasciatogli in eredità dal padre, convinto che ciò che scriverà sarà un messaggio destinato a lui.

Questo è un film che aspettavamo un po’ tutti al varco: quello in cui a cimentarsi col 3D non è uno specialista di film d’azione come Cameron e Spielberg, non è un oscuro mestierante alla ricerca del blockbuster, ma un vero e riconosciuto Autore. Certo, il fatto che abbia scelto una sceneggiatura tratta da un oscuro romanzo per ragazzi faceva sorgere qualche perplessità, che non si è del tutto dissipata con la visione.
Funziona davvero il 3D d’autore? A mio avviso sì, ma non del tutto. La regia di Hugo Cabret è talmente inventiva e spettacolare da giustificare da sola la visione del film. In alcune scene (per esempio quella in cui Hugo rischia di essere travolto dal treno) la tridimensionalità viene sfruttata alla perfezione e dà veramente la sensazione di essere trascinati “dentro” lo schermo. In generale, Scorsese ha un utilizzo molto “reale” del 3D, lo usa non solo per vertiginose prospettive ma per immergerti in masse di folla o di nebbia, oppure per esplicitare la metafora sottintesa al film, in cui tutto quanto, da Parigi fino al poliziotto che lo minaccia, non è che un colossale meccanismo al quale il protagonista si sforza di dare un senso e uno scopo. E tuttavia non ho potuto a volte evitare la sensazione che il tutto fosse un po’ troppo artificioso e insistito, e che senza 3D si sarebbe potuto realizzare un film altrettanto coinvolgente.
Al di là del 3D, Hugo Cabret è comunque un film tutto da guardare, con ottimi interpreti (il giovane protagonista, ma anche un impeccabile Sacha Baron Coen nella parte del poliziotto), splendidi costumi e scenografie, un sentito e coinvolgente omaggio al cinema muto, e tantissimi piccoli dettagli realizzati con cura maniacale anche dove il pubblico probabilmente non li noterà (quanti, per esempio, si saranno accorti del James Joyce inquadrato per un istante tra i frequentatori di un caffè parigino, o il fatto che il chitarrista che vi suona sia Django Reinhardt?).
Tuttavia credo che Hugo Cabret si fermi un passo prima di essere davvero un grande film, e che questo sia dovuto soprattutto alla sceneggiatura. La storia, infatti, somiglia molto a un pretesto per permettere a Scorsese di parlare del cinema di Méliès, e per il resto è inutlmente arzigogolata, con personaggi privi di spessore, troppo infantile per risultare credibile a un adulto e troppo adulta per interessare davvero un bambino. Ne consiglio comunque la visione, perché è un grande spettacolo, ma non è tra i capolavori cui il regista italoamericano ci ha abituato.

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The Double (anteprima)

Paul, agente della CIA in pensione, viene consultato dal suo capo poiché la spia russa cui aveva dato la caccia per vent’anni, nome in codice Cassius, sembra improvvisamente rientrata in azione. Paul si dice convinto che Cassius sia morto, e inizialmente si rifiuta di avere a che fare con Ben, il giovane criminologo che ritiene di poter stanare la spia. Tuttavia, quando gli viene detto che Brutus, il più letale collaboratore di Cassius, è vivo e in prigione, accetta di collaborare.

Chissà come mai all’improvviso sono tornati i film di spionaggio, resi praticamente obsoleti dalla fine della Guerra Fredda? Comunque sia, questo The Double, opera di un duo produttore/regista noto finora solo per sequel e remake, parte pieno di buone intenzioni, ma non riesce a rinverdire i fasti del genere.
Il film parte molto bene, facendo crescere gradatamente la suspence con una serie di personaggi e situazioni semplici ma ben costruiti, e poi buttando tutto all’aria dopo mezz’ora, con un colpo di scena che ci mostra che tutto quello che credevamo di aver capito era sbagliato. Una volta scoperte le carte, però, la tensione cala parecchio. Una delle cause è che lo spessore politico del film è nullo. Per giustificare tanto movimento di spie russe a Washington si inventa un improvviso peggioramento delle relazioni USA/Russia, ma senza motivarlo in alcun modo. Così non solo va persa una delle principali attrattive dei film di spionaggio, cioè quello di svelare i retroscena della politica mondiale, ma tutte le indagini condotte per catturare le spie diventano forzatamente vaghe e poco credibili. Alla fine tutto si risolve con inseguimenti e sparatorie, e il colpo di scena finale, che potenzialmente avrebbe potuto risollevare il film, viene buttato via in una scena di scarso impatto. In generale, la regia si eleva raramente sopra un livello da telefilm poliziesco. Peccato, perché il film, pur essendo la copia di una copia (mi fa venire in mente Senza via di scampo, che a sua volta era un remake), nella prima parte allinea alcune buone idee (il piano di fuga di Brutus, per esempio) che avrebbero meritato di essere sostenute fino in fondo.
Tra gli attori, Richard Gere se la cava bene nel difficile compito di apparire credibile, a 62 anni, nel ruolo di duro uomo d’azione, ed è efficace anche il Brutus di Stephen Moyer (il vampirone della serie True Blood). Il coprotagonista Topher Grace non brilla particolarmente in un ruolo che gli offre poche possibilità, mentre Martin Sheen appare un po’ imbalsamato come capo della CIA.
Il film uscirà nelle sale il prossimo 9 marzo. Io l’ho visto in lingua originale.

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Radio Free Vanamonde

Stanotte ritorno in diretta su Radio Popolare per un po’ di chiacchiere, musica e fantascienza insieme a Renato Scuffietti. Come sempre la trasmissione è a un orario infame: dalle 0.45 all’1.00 e (dopo la replica di La Caccia) dall’1.20 fino a molto tardi.
È molto che non vado in onda, perciò le cose di cui parlare sono parecchie. Credo che farò anche un piccolo annuncio in anteprima su una mia nuova attività in campo fantascientifico. Poi ci sono un paio di titoli in uscita in libreria e sicuramente, conoscendo Renato, parleremo del nuovo disco dei Calibro 35 e delle prime anticipazioni della nuova serie di Game of Thrones. O magari di tutt’altro… come sapete, improvvisiamo. 🙂
Non metterò online i file della trasmissione (occupano troppo spazio!), perciò se volete sentirla non vi rimane che stare svegli e fare clic all’ora giusta sul link qui sotto:

Diretta Radio Popolare

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Drood

Ieri era il bicentenario della nascita di Charles Dickens, scrittore geniale che desta l’invidia di chiunque abbia provato a mettere delle parole su carta. Per celebrarlo con un giorno di ritardo, colgo l’occasione per recensire un libro che lo riguarda e che ho letto ormai da qualche tempo.

More about DroodLo scrittore Charles Dickens viene coinvolto in un colossale e sanguinoso disastro ferroviario. Mentre presta assistenza ai feriti, viene avvicinato da un personaggio misterioso, che si presenta come Drood, e che sembra avere dei poteri soprannaturali. Il suo amico-rivale Wilkie Collins rimane orripilato nel vedere Dickens cadere sotto l’influenza di questa creatura, di cui col tempo scopre lati sempre più inquietanti, e si sforza invano di fargli comprendere il Male che rappresenta…

Dan Simmons è un autore poliedrico, che non è certo nuovo a progetti dalle dimensioni colossali e dalla straordinaria ricchezza di dettaglio (valga per tutti la citazione del suo capolavoro Hyperion e dei suoi seguiti). Tuttavia questo Drood riesce comunque a sorprendere, sia per l’originalità del concetto, sia per la cura quasi maniacale adottata per la sua realizzazione.
Il titolo del libro fa riferimento all’ultimo romanzo di Dickens, Il mistero di Edwin Drood. L’improvvisa morte di Dickens lo lasciò incompiuto, e non fu trovato alcun appunto che ne svelasse il finale (Fruttero e Lucentini ne fecero il tema di un piacevole divertissement intitolato La verità sul caso D.). Non spiegherò il legame tra il Drood di Dickens e quello di Simmons; lo scoprirete leggendo.
Dal punto di vista storico, credo di non avere mai incontrato un romanzo altrettanto curato. Simmons inserisce i suoi due protagonisti, Dickens e Collins, in una storia nera dai contorni grotteschi e fantastici, e tuttavia riesce a non deviare minimamente dall’aderenza alla realtà storica. Non solo gli eventi macroscopici come il disastro ferroviario, ma anche le minuzie della vita dei due scrittori, i loro spostamenti, le persone che frequentavano,  le case che abitavano, corrispondono minuziosamente a quello che sappiamo di loro dai documenti. Non sono uno studioso di storia, ma mi è venuta la curiosità di verificare alcuni dettagli del romanzo, rimanendo ogni volta stupito di come ricalcasse fedelmente la realtà.
La dote principale di Drood, però, è la scrittura. Simmons ha fatto uno straordinario lavoro di mimesi, non soltanto ricalcando lo stile ottocentesco della coppia di scrittori, ma anche riproduccendo fedelmente ogni sfumatura della loro personalità. In particolare Collins, perennemente imbottito di laudano e soggetto a paranoia e allucinazioni, è un paradigmatico narratore inaffidabile, che lascia fino in fondo il lettore nel dubbio se quella che viene descritta sia la realtà o il prodotto di un’immaginazione esaltata dalla droga (ricalcando anche in questo un espediente adottato da molte opere fantastiche ottocentesche, come Il giro di vite di Henry James, che non risolvono mai questa ambiguità). Il complicato miscuglio di invidia e ammirazione che Collins provava per Dickens, e l’oscillare di quest’ultimo tra grandezza e megalomania, sono resi alla perfezione e senza mai scadere nel macchiettismo.
Come horror, Drood fa davvero paura, e utilizza tutti gli elementi dell’orrore classico dell’epoca con però una malizia tutta moderna, ed elementi che richiamano autori molto più tardi (i terribili scarabei egizi che si introducono nel corpo delle persone per raggiungerne il cervello e tenerle sotto controllo mi hanno fatto pensare addirittura a William Burroughs). Alcuni momenti, come il disastro ferroviario, la fumeria d’oppio o la battaglia nelle catacombe sono genuinamente spaventosi. Va detto però che, mentre la tensione psicologica e la suspence horror procedono di pari passo nella prima metà del libro, successivamente l’orrore esplicito viene messo un po’ da parte. Una caratteristica, questa, che potrebbe lasciare molto deluso chi acquista il romanzo aspettandosi un horror tradizionale.
Ma il motivo per cui consiglio di leggere Drood non sono gli elementi di genere, pur presenti e spesso molto riusciti, bensì lo scavo dell’animo umano, che ci mostra splendori e miserie di due abilissimi scrittori in quella che è allo stesso tempo un’analisi impietosa e un vibrante omaggio Leggerlo mi pare un ottimo modo per celebrare il bicentenario di uno dei più grandi autori di tutti i tempi.
Concludo facendo riferimento agli eventi di qualche anno fa, quando Dan Simmons chiuse il proprio sito web dopo una serie di polemiche dovute ad alcuni suoi eccessi islamofobi. All’epoca ci fu chi propose di boicottarlo. Personalmente credo che le opere di uno scrittore vadano apprezzate come tali, senza che le azioni dell’autore interferiscano col giudizio. Certo, rimane sorprendente come un autore di tanta cultura e sensibilità possa dare prova di tanta rozzezza politica. Ma forse proprio un libro come Drood può aiutare a capire come simili contraddizioni alberghino in ognuno di noi.
 

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Sulla morte senza esagerare

Non s’intende di scherzi,
stelle, ponti
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.
Non sa fare neppure ciò
che attende al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
Occupata a uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo!
A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.
Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo ingrato lavoro.
La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno finora, insufficiente.
I cuori battono nelle uova.
Crscono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all’orizzonte.
Chi ne afferma l’onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c’è vita
che almeno un attimo
non sia stata immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.
(Wyslawa Szymborska, 1923-2012)
da La gioia di scrivere, traduzione di Pietro Marchesani

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Requiem per Splinder

Da oggi Splinder ha cessato di esistere, e così tutti i blog che ospitava. Sparisce così un bel pezzo di storia della Rete italiana. E sparisce anche il mio blog precedente, che aveva lo stesso titolo di questo. Da oggi chi dovesse digitare il vecchio indirizzo verrà automaticamente rispedito qui.
Nulla davvero è andato perduto, per quanto mi riguarda, dato che già da tempo ho recuperato tutti i post del vecchio blog e li ho inseriti nel database di questo. Tuttavia la cosa non durerà a lungo. Dopo aver riletto parte del vecchio materiale, ho deciso che non vale la pena di tenerne online la maggior parte. Molti post sono obsoleti, e si riferiscono a fatti di cronaca che io stesso fatico a ricordare. Anche le recensioni mi sembrano spesso alquanto incomplete (e immagino sia un bene: vuol dire che durante oltre un lustro di blogging la mia scrittura è un po’  migliorata). Nel corso delle prossime settimane, perciò, farò una drastica ripulitura: metterò offline tutti i post obsoleti o insoddisfacenti, e ne modificherò altri per adattarli al nuovo stile di questo blog.  Non ha senso, credo, mantenerli qui inalterati come se avesero un interesse storico.
Concludo ringraziando lo staff di Splinder per aver dato a me e a tanti altri la possibilità di entrare nel mondo dei blog, e per aver gentilmente fornito gli strumenti per trasferire tutto altrove.
 

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Come funziona la musica

Da persona profondamente interessata alla musica, ma priva di un’educazione musicale regolare, mi sono sempre chiesto quali motivi stiano alla base della bellezza di un brano musicale. La cosa più frustrante è che, tanto più mi sono impadronito dei tecnicismi del sapere musicale, tanto più arbitrario ha continuato a sembrarmi tutto il sistema. Il fatto è che i libri per l’insegnamento della musica solitamente spiegano i fondamenti di quest’arte in modo apodittico, dando per scontato che le cose stiano come sono. Gli accordi si costruiscono per sovrapposizione di terze. E perché non di quarte o di quinte? La sensibile tende spontaneamente alla tonica. E che vuol dire? Gli intervalli del temperamento equabile differiscono da quelli “giusti”. E che cosa rende “giusti” quelli giusti?
Solo con molta fatica sono riuscito a farmi un’idea di come veramente funzionino le cose, e del perché le scale, i modi e gli accordi siano costruiti in un certo modo (un grosso aiuto me l’ha dato la lettura dell’interessante saggio Armonia celeste e dodecafonia di Andrea Frova). Magari avessi avuto prima per le mani questo eccellente libro di John Powell, di cui ho eseguito la revisione tecnica per conto di Salani, e che è davvero un testo utilissimo per chiunque voglia capire un po’ meglio Come funziona la musica.
Il bello del modo di esporre di Powell è l’assenza di qualsiasi paludamento. Il professore britannico parla di tutta la musica, e non si fa alcun problema a usare canzoncine infantili per spiegare i concetti di base di melodia e armonia, o a mescolare Beethoven, Björk e Benny Goodman nei suoi esempi. Le sue spiegazioni sono sempre rigorose ed equilibrate, senza semplificazioni eccessive o tecnicismi inutili, e soprattutto intrise di un delizioso humor inglese che rende gradevoli anche i passaggi più complicati.
In Come funziona la musica qualunque domanda trova risposte esaurienti. Cosa sono note, ritmo, scale, accordi e armonie, come funzionano gli strumenti musicali, ma anche dubbi di altro genere, tipo: cosa significa la nomenclatura dei brani di musica classica? Esistono strumenti più facili o più difficili da suonare? Come ci si comporta in una sala da concerto? Che differenza c’è tra un CD e un MP3? E così via. Il libro funziona ugualmente bene per il principiante assoluto e per chi già ha dimestichezza con la musica. L’unico requisito e essere disposti ad affrontare un po’ di matematica elementare.

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