I film che ho visto al Trieste Science+Fiction Festival

È tantissimo tempo che non scrivo su questo blog, e ho deciso, volendo ricominciare, valeva la pena di farlo con un long form. E quale migliore occasione della mia visita al Trieste Science+Fiction Festival?

Per la cronaca, ci sono andato non con lo spirito del critico ma del turista: ero lì per divertirmi e vedere amici, non sono rimasto per tutta la durata del festival e ho visto solo i film che mi era comodo vedere, senza fare una selezione ragionata. Nondimeno l’esperienza è stata molto positiva, e quindi ora vi racconto quello che ho visto.

I film che mi sono piaciuti molto:

Mars Express

di Jérémie Périn, Francia

Anno 2200, i robot sono molto diffusi, sia come entità autonome sia come “sostituti”per umani che non dispongono più del proprio corpo. I robot sono incapaci di fare del male agli esseri umani, ma ci sono attivisti che praticano su di loro un jailbreaking per dare loro la totale libertà, cosa che ha provocato rivolte e un’atmosfera di sospetto e ostilità. Aline è una detective della città di Noctis su Marte, cui viene chiesto di indagare sulla sparizione di una studentessa. Mentre i cadaveri si accumulano, gradatamente l’indagine porta alla luce un complotto che coinvolge l’intera popolazione robotica.

Mars Express ha fatto man bassa: ha vinto il premio Asteroide assegnato ai film di registi emergenti, il premio della critica, il premio della trasmissione Wonderland; in pratica, quasi tutto quello che poteva vincere. Meritatamente, perché da tanto tempo non mi capitava di rimanere tanto coinvolto da un film di fantascienza (e parlo in generale, non solo di film di animazione).

La cifra di Mars Express è l’essenzialità: uno stile di animazione che non ricerca gli effetti fini a se stessi ma si mette al servizio della storia. Una storia intricata e nera degna dei migliori polar francesi, con personaggi pieni di ombre che possono vivere momenti di travolgente umorismo ma un attimo dopo finiscono ammazzati senza che ci si soffermi un secondo a compiangerli. Una vicenda complessa e coerente, che ci lancia senza spiegazioni in un mondo alieno come solo la migliore fantascienza sa fare, e che solo negli ultimi dieci minuti si concede di volare alto uscendo dai bassifondi ed evocando scenari grandiosi.

Ho trovato la sceneggiatura di Mars Express molto più convincente di quella di molti recenti blockbuster hollywoodiani. Spero tanto che possa trovare una distribuzione in Italia.

La guerra del Tiburtino III

di Luna Gualano, Italia

Una popolazione aliena, piccoli vermi in grado di penetrare attraverso le narici nel cervello degli esseri umani prendendo il controllo delle loro azioni, sta invadendo il pianeta Terra cominciando dal quartiere Tiburtino III di Roma. A scoprire gli invasori e a mettere i bastoni tra le ruote del loro piano di conquista sarà un’improbabile squadra formata da un piccolo spacciatore, un suo squinternato amico, la sua barista di fiducia e una influencer modaiola capitata nel quartiere in cerca di visibilità.

Il cinema italiano non sta vivendo il suo momento migliore, ma per fortuna ogni tanto capita ancora di incontrare un film italiano fatto bene, e capita sempre più spesso che sia un film di genere. È sicuramente il caso di questa commedia fantascientifica in salsa romana, che ho iniziato a guardare senza aspettarmi nulla e che ho trovato davvero simpatica e divertente.

La guerra del Tiburtino III mi è piaciuto per come riesce a prendere sul serio la sua bizzarra trama. Se l’idea iniziale è demenziale e i suoi sviluppi pure, nondimeno i personaggi sono credibili e ben cesellati, con grande cura dei dettagli e senza eccessi o sbavature, e la storia viene portata avanti rimanendo coerente con le sue assurde premesse (ed è proprio questo che la rende così divertente). Non mancano gli spunti di satira politica e di costume, azzeccati ma senza mai prendere il sopravvento sulla trama (ed è un bene).

Se il film funziona così bene è anche merito di un casting molto azzeccato, con tutti gli attori perfettamente in parte. Chi ha amato Boris sarà felice di ritrovare alcuni interpreti della serie: se Francesco Pannofino si limita a una comparsata, troviamo Carolina Crescentini nella parte della madre del protagonista, ma soprattutto Paolo “Biascica” Calabrese, azzeccatissimo come regina aliena incarnata in un borgataro romano, che rigurgita uova dalla bocca intonando maledizioni sprezzanti nei confronti dei “mammiferi”. Impagabile.

La guerra del Tiburtino III merita di arrivare al grande pubblico, spero che i distributori trovino il coraggio di proporlo fuori dalle porte di Roma.

Gli altri film che ho visto in questa edizione:

Creep box

di Patrick Biesemans, USA

Una tecnologia innovativa permette di ricreare temporaneamente la personalità di persone defunte, che possono esprimersi a voce attraverso quelli che vengono definiti “sussurri”. Il dottor Caul ne è il principale esperto, ma deve affrontare numerosi problemi: le dubbie implicazioni etiche, i finanziatori che spingono sull’aspetto commerciale trascurando quello scientifico, e il desiderio di usare lui stesso i sussurri per comunicare con la moglie morta suicida.

Creep Box nasce dall’acclamato cortometraggio con lo stesso titolo uscito l’anno precedente, che nei suoi primi minuti riproduce molto da vicino (con alcuni attori cambiati). Ma, se il corto era estremamente efficace, la trasformazione in lungometraggio non è riuscita alla perfezione.

Il film riesce piuttosto bene a creare un’atmosfera di suspense, con l’evocazione delle personalità dei defunti che sembra la versione ipertecnologica di una seduta spiritica (con parole chiave scandite a mò di formule magiche per favorire la connessione), e mette sul tavolo una serie di problematiche interessanti: le voci sono solo simulazioni, o sono veramente persone? Quanto ci si può fidare di quello che dicono? Fa davvero bene ai loro cari poterci parlare? Grazie anche alla solida interpretazione del protagonista Geoffrey Cantor nei panni del cupo e tormentato professor Caul, si rimane catturati dalla storia nonostante l’assenza di scene d’azione o effetti speciali. Purtroppo però il regista non sa sfruttare adeguatamente l’ottimo materiale, e cade nel finale, dove tutto si fa confuso e non si risponde ad alcuna delle domande poste. Peccato.

Pandemonium

Di Quarxx, Francia

Dopo un incidente stradale, Nathan scopre di essere morto e destinato all’Inferno. In attesa di sapere quale sarà la sua pena, assiste alle storie di altri dannati: una bambina che ha sterminato l’intera famiglia, e una madre che ha causato il suicidio della figlia ignorando le sue richieste di aiuto.

Mi riesce difficile emettere un giudizio su questo film, perché da ogni scena emerge chiaramente una interessante personalità di autore, e tuttavia non mi è del tutto chiaro dove il regista volesse andare a parare.

Il prologo di Pandemonium è forse la sua parte migliore: il dialogo tra i due personaggi appena morti e che gradatamente si rendono conto di dover andare uno all’Inferno e l’altro in Paradiso (ma ci sarà una sorpresa) ha i toni di un efficacissima commedia nera. L’episodio dedicato alla bambina assassina ha invece la forma di una farsa gotica e inquietante (con una protagonista tredicenne di eccezionale bravura), mentre il successivo, con la madre che per tutto il tempo continua a parlare al cadavere della figlia senza voler accettare il suo suicidio, è di un’angoscia davvero lancinante. Nel finale si ritorna al Nathan della parte iniziale, con un ulteriore sorpresa: il diavolo a cui è stato affidato se lo lascia scappare, e viene spedito sulla Terra per riprenderselo. Potrebbe essere l’inizio di un film bizzarro e divertente, ma invece arrivano i titoli di coda.

Nel presentare il film, Quarxx ha dichiarato che la sua intenzione iniziale era di girare nove episodi, uno per ciascun girone dell’Inferno, e di essere stato dissuaso dalle difficoltà tecniche dell’impresa. Forse se davvero avesse girato più episodi sarebbe più facile dare un senso al film, mentre così la totale diversità delle tre storie presentate rende difficoltoso tirare le somme. Forse il tema potrebbe essere quello della negazione: tutti i personaggi del film in qualche modo non accettano la propria dannazione. Nathan contesta che il proprio peccato meriti l’Inferno, la bambina attribuisce i propri delitti a un immaginario mostro-servitore che fa impiccare al proprio posto, mentre la madre non vuole vedere il suicidio della figlia. A questa negazione fa da contraltare una logica spietata: nonostante nessuno dei personaggi ci sembri davvero meritare l’Inferno (anche la malvagità della bambina è quella inconsapevole di chi non sa valutare la gravità dei propri atti), tutti vengono dannati. Meritiamo tutti l’Inferno, sembra dire il regista, e non lo vogliamo vedere.

A Million Days

di Mitch Jenkins, UK

Con la Terra devastata dal cambiamento climatico, l’umanità affida le sue speranze a un’astronave costruita per fondare una colonia sulla Luna. Tuttavia un esame delle simulazioni condotte da un’intelligenza artificiale fa sorgere il sospetto che quest’ultima stia manipolando la missione per fini ignoti, mentre emergono collegamenti con un incidente che ha causato la morte di un’astronauta cinque anni prima…

A Million Days inizia con alcune scene ambientate in orbita, facendo pensare a un’avventura spaziale, ma è solo un contentino dato allo spettatore: tutto il resto del film ha un impianto strettamente teatrale, un lungo dialogo tra personaggi in cui gli eventi vengono solo evocati senza mai essere mostrati. Un impianto di questo tipo per reggersi avrebbe bisogno di una logica ferrea, mentre purtroppo la trama imbastita dagli sceneggiatori è piena di vaghezze e approssimazioni. Il cambiamento climatico evocato in apertura non è che un macguffin, dato che gli scopi della missione salvifica non vengono mai definiti con precisione. L’idea di fondo (un’intelligenza artificiale che si ribella ai suoi creatori per meglio perseguire gli obiettivi che le sono stati affidati) non è certamente nuova, risale perlomeno a 2001: Odissea nello spazio, più di mezzo secolo fa! La sceneggiatura cerca di accumulare colpi di scena attribuendo sempre nuove mirabolanti capacità all’intelligenza artificiale, ma in questo modo rende sempre più difficile la sospensione dell’incredulità: se può fare tutte queste cose, non si capisce perché abbia dovuto ricorrere a un piano così contorto per ottenere quello che vuole.

In conclusione, un film che mantiene molto meno di quello che promette.

Herd

di Steven Pierce, USA

Una coppia lesbica in crisi cerca di ritrovare la concordia attraverso una settimana di campeggio, ignara che nella zona è scoppiata un’epidemia che trasforma le persone in mostri aggressivi. Ma forse ancora più pericolose dell’epidemia sono le milizie armate che si sono formate per combatterla, ignorando gli appelli alla calma del governo statunitense.

Herd si potrebbe definire un film di zombie revisionista. Sì, perché, anche se quelli mostrati dal film si chiamano “hep” e il regista non vorrebbe fossero chiamati zombie, è inutile negare l’evidenza: siamo di fronte a un film di zombie che mette in scena tutti i cliché del genere, anche se poi ne capovolge il senso: a mano a mano si scopre infatti che gli zombie non sono poi così pericolosi, e che la vera minaccia sono invece le bande armate che sorgono per rimediare alla supposta inerzia del governo, e che finiscono per incrementare la violenza combattendosi tra loro. È trasparente l’atto d’accusa contro l’America rurale, insofferente di ogni regola e autorità e pronta a usare la violenza contro ogni diverso, che siano zombie od omosessuali.

Va sicuramente elogiato il tentativo di rinnovare un genere ormai abusato applicandogli un nuovo sottotesto politico. Detto questo, però, il film non convince del tutto: il messaggio risulta troppo trasparente e a volte eccessivamente retorico, mentre per il resto la regia non si distacca dalla routine del genere. Sufficiente ma niente di più.

The Moon

di Kim Yong-Hwa, Corea del Sud

Non posso in buona fede recensire questo film perché ne ho visto solo un terzo, e poi sono uscito dalla sala per andare alla presentazione di un libro. Posso dire che quello che ho visto non mi ha entusiasmato: il solito film con l’astronauta perduto nello spazio, solo in salsa coreana. Abbiamo già dato.

Bonus: i film dell’anno scorso

Al Trieste Science + Fiction Festival sono andato anche l’anno scorso, a presentare Fanta-Scienza 2, e nell’occasione sono riuscito a vedere un paio di film, che avrei voluto recensire qui ma non ho trovato il tempo. Quindi li recupero ora!

LOLA

di Andrew Legge, U.K.

Negli anni ’30 due geniali sorelle orfane che vivono sole in una villa nella campagna britannica inventano una macchina in grado di captare le trasmissioni televisive del futuro. Per un po’ si limitano ad ammirare le popstar come David Bowie ma, quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale, non resistono alla tentazione di usare la macchina per scoprire in anticipo dove cadranno le bombe tedesche. Le conseguenze saranno dirompenti.

Davvero un piccolo capolavoro questo film che si è meritato il premio Méliès d’argent (riservato ai lungometraggi di produzione europea) e anche il premio di Wonderland. Essendo passato un anno dalla sua uscita potete addirittura guardarvelo a costo zero su RaiPlay, e vi consiglio caldamente di farlo!

Il merito di LOLA non è nell’idea in sé, che in fondo è una classica storia di paradossi temporali affine a tante altre viste in precedenza. Quello per cui si distingue è sono lo stile e il rigore con cui la mette in scena. LOLA è interamente realizzato con la tecnica del found footage, come se fosse stato girato (in un magnifico bianco e nero) con una cinepresa dell’epoca per documentare eventi reali (e il motivo per cui questo filmato è presente nel nostro universo verrà spiegato nel finale).

Con due interpreti bravissime e carismatiche che si rubano la scena a vicenda, il film riesce a porre importanti domande sul senso della nostra presenza nella storia, senza mai cessare di essere avvincente. Per me il migliore dei film che ho visto a Trieste.

The Breach

di Rodrigo Gudiño, Canada

Quando un cadavere con inspiegabili ferite e deformità viene trovato sulle rive di un lago, lo sceriffo locale non può esimersi dall’andare a ispezionare il luogo da cui sembra provenire, in un’area praticamente disabitata. Lo accompagnano un amico e l’ex fidanzata.

Può essere che agli appassionati di horror questo film dica qualcosa, ma io l’ho trovato davvero pessimo. La trama di base è una delle più vecchie e scontate del genere (sappiamo fin da principio che nella casa sperduta in mezzo al nulla troveremo uno scienziato pazzo che ha oltrepassato limiti che l’uomo non dovrebbe valicare), e i tentativi di renderla interessante sono confusi e contraddittori, e hanno sempre meno senso a mano a mano che si procede. Non sembra esserci un sottotesto, a meno che non lo si voglia vedere nel personaggio interpretato dal chitarrista dei Rush, Alex Lifeson, che sembra l’evidente parodia di un complottista (però alla fine ha ragione lui, quindi… dove si va a parare?). Vedibile solo se ci si accontenta di un po’ di avventura e suspense senza altro dietro.

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