L'uomo a un grado Kelvin

2060. Dopo essersi assentato misteriosamente, il professor De Ruiters, direttore di un importante centro di ricerca europeo, viene ritrovato congelato a bassissima temperatura all’interno di un macchinario, durante un esperimento pubblico di teletrasporto al Palazzo delle Stelline di Milano. Contemporaneamente, altri tre suoi colleghi si rendono irreperibili. Il detective Dick Watson della Polizia Europea viene inviato a indagare sul caso, scontrandosi subito con la Polizia Lombarda che preferirebbe non averlo tra i piedi. Il caso si rivelerà molto più complicato del previsto, coinvolgendo spie, criminali, hacker, e i segretissimi computer quantistici nel sottosuolo di Parigi…

Da molti anni ormai collaboro alle selezioni per il premio Urania. Di solito evito di parlarne pubblicamente, sapendo come il premio sia una macchina generatrice di polemiche per cui meno si dice e meglio è. Quest’anno però sono molto più coinvolto del solito: non solo la prima lettura dell’opera vincitrice è stata assegnata a me, ma mi sono occupato anche dell’editing e ho realizzato l’intervista all’autore inclusa in appendice. Non riesco perciò a trattenermi dall’esprimere un giudizio, ovviamente del tutto parziale, visto che questo romanzo lo sento anche un po’ “mio”.
E allora vi dico che questo libro, senza nulla togliere ai suoi predecessori, mi è piaciuto in modo particolare. Per tanti motivi. Per esempio:

  • È un ottimo giallo: ha una trama intricatissima e solida, che procede in modo consequenziale senza affidarsi a coincidenze e colpi di fortuna. Niente a che vedere con certi libri in cui la trama investigativa è solo un pretesto per parlar d’altro.
  • Tuttavia gli appassionati di fantascienza non devono storcere il naso: non si tratta di un giallo tradizionale cucinato in salsa futuribile. Tutt’altro: l’ambientazione fantascientifica è originale, coerente e saldamente ancorata alla trama investigativa.
  • Ma il motivo per cui L’uomo a un grado Kelvin mi ha colpito particolarmente è un altro: la competenza scientifica con cui è scritto. Oserei dire che questo è il singolo libro di fantascienza italiana in cui il lato scientifico è trattato meglio, senza alcuna pedanteria ma con mano sicura e senza rifarsi a modelli anglosassoni.

Insomma, senza voler esagerare con gli elogi, è il tipo di romanzo di fantascienza italiana che mi piacerebbe leggere molto più spesso: avvincente, professionale, interessante senza rinunciare a essere divertente. Fatemi sapere se siete d’accordo con me.

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Dodici

Un’epidemia ha trasformato in zombie quasi tutti gli abitanti di Rebibbia. Mentre i pochi superstiti si organizzano per tentare la fuga, Calcare è stato misteriosamente ridotto in fin di vita. Tocca ai suoi amici, Secco e Cinghiale, e a Katja, una ragazza rimasta bloccata con loro nel quartiere, trovare il modo di portarlo via prima che sia troppo tardi.

Non sono potuto andare alla presentazione milanese di Dodici, ma probabilmente è stata una fortuna: pare che fossero necessarie ore di coda per poterne ottenere una copia. Nel giro di un paio d’anni Zerocalcare (pseudonimo di Michele Rech) è passato da figura di culto a fumettista più ricercato di Italia, con spazi fissi su Internazionale e Wired e i suoi libri che si vendono come il pane. Tanto di cappello: per una volta il successo tocca a qualcuno che se lo merita.
Se già in Un polpo alla gola Zerocalcare si era allontanato in parte dallo stile delle storie che pubblica sul proprio blog, proponendo una trama articolata che prevale sulle pur numerose gag, qui fa un passo ulteriore mettendo in disparte il proprio alter ego e lasciando la scena ai comprimari Secco e Cinghiale e alla nuova arrivata Katja. Questi diventano protagonisti di una trama fantastica che  sembra quasi un crossover con Safe Inside, il fumetto incompiuto di zombie che aveva realizzato per la DC Comics.
Mi riesce un po’ difficile dare un giudizio netto sul risultato. Da un lato, è evidente che l’autore non si è seduto sugli allori ed è in continua evoluzione: dal punto di vista grafico questa è una delle sue storie migliori. Riesce ad avere il ritmo di un fumetto d’azione senza perdere per strada il consueto umorismo, ed è particolarmente azzeccato il modo in cui le varie linee narrative sono rese con stili differenti e riconoscibili.
Sulla storia, però, sono più dubbioso: pur essendoci gag esilaranti e trovate geniali, e pur avendo apprezzato molto il personaggio di Katja (spero che in futuro riappaia!), trovo che in qualche punto il respiro sia un po’ affannoso, e che gli spunti proposti non siano sempre approfonditi come meriterebbero. Soprattutto, mi pare che la struttura narrativa completamente frammentata sia un virtuosismo un po’ fine a se stesso, che finisce per rendere la trama difficoltosa da seguire invece che moltiplicare la tensione.
Tirando le somme, non è probabilmente la miglior storia di Zerocalcare, come mi aspettavo che fosse. Ma restano comunque soldi ottimamente spesi.

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In memoria: Luigi Bernardi

Luigi BernardiNon posso dire di avere conosciuto bene Luigi Bernardi. Ci siamo sempre visti di sfuggita. Ma quel poco mi è stato sufficiente per capire che persona stimabile fosse.
L’ho incontrato per la prima volta negli anno ’90, sulla mailing list letteraria di Fabula. Si comportava come un utente come tanti, addirittura scrisse un raccontino per la nostra piccola antologia di testi brevissimi (di cui parlo nella pagina dedicata ai miei racconti). Allora non sapevo che era già un editore all’avanguardia, che con la sua Granata Press aveva portato per primo i manga in Italia, e stava facendo esordire scrittori come Giuseppe Ferrandino, Stefano Massaron, Nicoletta Vallorani, Paolo Aresi…
Devo dire la verità: un po’ mi intimidiva. Credo fosse per quel suo umorismo caustico, che ti sapeva demolire con una parola (peraltro con me è sempre stato molto gentile). Il tipo di umorismo che solo le persone che la sanno lunga possono permettersi. E lui la sapeva lunga: aveva fiuto. Sapeva riconoscere a prima vista le potenzialità di uno scritto, di un autore. Quasi una maledizione, visto che arrivava sempre prima, e poi altri coglievano i frutti.
Qualche anno fa gli proposi alcune idee per un romanzo breve da pubblicare nella collana che dirigeva, Perdisa Pop. Nonostante fossi meno di un conoscente, si prese la briga di valutare attentamente le mie proposte e mi disse di portarne avanti una. Ovviamente la più difficile, quella che mi lasciava più incerto, ma anche quella che mi avrebbe probabilmente portato a dare il meglio. Ci lottai per più di un anno senza portarla a termine, poi lui annunciò che avrebbe lasciato la direzione della collana per dedicarsi solo a scrivere.
Allora mi sembrò quasi una defezione: c’era bisogno di uno come lui nell’editoria. Uno per cui mestiere e passione formavano un’unità inscindibile. Immagino che in realtà già sapesse di avere poco tempo: ci ha lasciato l’altro ieri, a soli 60 anni. Mancherà a tantissimi.

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Lise Meitner


Oggi è l’Ada Lovelace Day. Si tratta di una ricorrenza simpatica, anche se non gestita benissimo (la data ha fluttuato di anno in anno). La sua funzione è quella di sensibilizzare il pubblico riguardo al ruolo delle donne nella scienza. La si festeggia scrivendo sul proprio blog un post per ricordare una figura di scienziata donna. Prende il nome da Ada Lovelace, figlia di Lord Byron, matematica e considerata da molti la prima programmatrice della storia.
Ho sempre voluto partecipare a questa iniziativa, ma ogni anno o me ne sono dimenticato, o avevo tanta roba da fare che non sono riuscito a trovare il tempo di scrivere un post. Quest’anno però mi sono preparato in anticipo, e vi parlerò di una scienziata austriaca di nome Lise Meitner.
Il motivo per cui l’ho scelta deriva dai miei ricordi d’infanzia. Quand’ero ragazzino la mia passione per lo spazio, non essendoci Internet, si nutriva soprattutto di libri. C’era per esempio Verso lo spazio, un testo fatto benissimo che ripercorreva la storia dei viaggi spaziali attraverso i francobolli. C’era l’Atlante dell’Universo della DeAgostini. E altri che non ricordo. Passavo ore a sfogliarli, a guardare le illustrazioni e a immaginare storie ambientate sui pianeti.
In uno di questi libri (non ricordo quale) c’era una mappa della Luna con indicati i principali crateri e il motivo per cui si chiamavano così. In mezzo a una serie di luoghi chiamati con nomi di divinità greche e romane, ce n’era uno chiamato Lise Meitner, accanto al quale uno spiritoso redattore aveva scritto “fisica austriaca, priva di attributi divini”. Questo ricordo mi è tornato fuori dagli abissi della memoria in occasione dello scorso Ada Lovelace Day, e sono andato a indagare su chi fosse stata veramente questa donna.
Ho così scoperto che fu veramente un personaggio notevole, davvero perfetto per questa ricorrenza. Non starò a raccontarvi nei dettagli la sua biografia (se siete interessati, andate su Wikipedia). Vi dirò solo che:

  • Nacque a Vienna nel 1878, e nel 1906 fu la seconda donna a laurearsi in fisica presso l’università di Vienna, studiando con Ludwig Boltzmann.
  • L’anno successivo si trasferì a Berlino per proseguire gli studi. Lavorò con Max Planck, fu in contatto con Albert Einstein e Marie Curie, stabilì un sodalizio di ricerca col chimico Otto Hahn. Ma per molti anni la sua attività scientifica rimase non ufficiale, a causa di leggi, regolamenti e tradizioni che non permettevano alle donne di lavorare nei laboratori scientifici.
  • Dalle sue ricerche derivò la scoperta del protoattinio.
  • Nel 1926 divenne professoressa di fisica nucleare sperimentale.
  • Essendo ebrea, nel 1933 le fu revocato il permesso di insegnamento, e nel 1938 fu costretta a fuggire in Svezia, Paese di cui divenne cittadina.
  • Nel 1939 pubblicò un articolo in cui per la prima volta veniva descritto il meccanismo della fissione nucleare, che Otto Hahn aveva realizzato l’anno prima ma senza comprenderne la dinamica.
  • Pacifista convinta, si rifiutò di partecipare alle ricerche per la costruzione della bomba atomica.
  • Nel 1945 Otto Hahn vinse il premio Nobel per la chimica per la scoperta della fissione nucleare. Il lavoro di Meitner, che era stato interrotto dalla fuga in Svezia, venne ignorato, ma i più ritengono che il premio sarebbe dovuto toccare anche a lei.
  • Morì nel 1968. Sulla sua lapide c’è scritto: “Lise Meitner, fisica che non perse mai la propria umanità”.
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Il prefetto

Più riguardo a Il prefettoLa Fascia Splendente è una colonia umana dove vivono cento milioni di persone, suddivise in diecimila habitat orbitanti intorno a Epsilon Eridani. Ogni habitat ha un proprio sistema politico, ma le decisioni che riguardano la Fascia nel suo insieme vengono prese democraticamente in rete da tutti i cittadini. A vigilare sul rispetto della democrazia e contro le minacce esterne c’è il corpo dei prefetti, la cui giurisdizione è sottoposta a regole rigidissime ma che sono gli unici ad avere il potere di esercitare la forza.
Quando uno dei più piccoli habitat viene distrutto con tutti i suoi 960 abitanti, e la colpa sembra ricadere sugli Ultra, la comunità di cyborg che si occupa dei viaggi interstellari, il prefetto supremo Aumonier decide di affidare l’indagine, politicamente delicatissima, al suo protetto Dreyfus. I due sono legati dall’aver subito entrambi delle ferite durante la lotta contro l’intelligenza artificiale assassina nota come l’Orologiaio. Dreyfus ha perso la moglie, mentre Aumonier si ritrova tuttora con un artefatto piantato nel collo, che da 11 anni le impedisce di dormire e minaccia di ucciderla se chiunque si avvicinerà a meno di sette metri da lei.
Ma nessuno dei due sa che dai risultati dell’indagine dipenderà la sopravvivenza dell’intera Fascia Splendente…

Lo dico subito: erano anni che un romanzo di fantascienza non mi conquistava quanto Il prefetto. Mi ha avvinto fin dalle prime pagine e mi ha tenuto fino alla fine senza un momento di noia e insoddisfazione.
Ritengo che nel romanzo di genere moderno il problema più importante che un autore deve affrontare sia la somministrazione dell’informazione: come e quando si passano dati al lettore. Da questo punto di vista, Il prefetto è semplicemente da manuale: gestisce alla perfezione la trama apparente che vivono i protagonisti, la trama nascosta che devono scoprire, e la trama del passato che sembra messa lì solo per fare background, e invece diventa sempre più importante col procedere della storia. Il tutto senza mai dare informazioni fuori contesto, senza che le azioni dei personaggi perdano una logica, e soprattutto senza mai far calare la tensione, procedendo con un grosso colpo di scena a capitolo per 700 pagine, senza mai far calare il ritmo, con un mix perfettamente equilibrato tra azione, mistero, politica e introspezione. Da applauso.
Non si tratta di un romanzo costruito intorno a concetti scientifici, come potrebbe essere uno di Greg Egan o di Ted Chiang: la struttura della trama è quella di una tradizionale investigazione, la cui posta in gioco è un’umanissima lotta per il potere. Nondimeno, si tratta di un’opera profondamente fantascientifica, nel cui contesto vengono trattati (senza fare lezioncine e senza pretesa di volerli esaurire o risolvere) temi interessanti come lo status di umanità delle intelligenze artificiali, i sistemi elettorali per una democrazia diretta in rete e molti altri, e vengono descritte varie tecnologie insolite e bizzarre. Il background di Reynolds, astrofisico prima di diventare scrittore, si vede nel modo in cui lascia correre la fantasia senza mai cadere nell’implausibile.
(Per vostra informazione: il romanzo è il quinto di una serie, detta Revelation Space dal nome dell’opera iniziale, anche se cronologicamente dovrebbe porsi prima di tutti gli altri. Non ho incontrato però alcuna difficoltà a seguirlo, e credo che ogni opera del ciclo sia leggibile a sé.)
Se dovessi fare un paragone, direi che questo romanzo mi ha dato le stesse sensazioni del capolavoro di Dan Simmons, Hyperion: ci ho trovato la stessa vertigine di complessità che gradatamente si ricompone in un’immagine coerente, e la stessa solidità nel rappresentare una società futura completamente diversa dalla nostra eppure profondamente umana. Nel confronto Simmons vince probabilmente ai punti per avere osato ispirarsi alla struttura dei Racconti di Canterbury, mentre il meno ardito Reynolds prende spunto, semmai, da Il silenzio degli innocenti.
Ciò non toglie che Il prefetto sia di gran lunga tra i migliori è più avvincenti romanzi letti negli ultimi anni. A questo punto non vedo l’ora di leggere qualcos’altro di Alastair Reynolds. Mi giunge voce che molto probabilmente Urania pubblicherà il prossimo anno un altro suo romanzo. Sarebbe bello che arrivassero in Italia prima o poi tutti gli altri dodici che ha scritto…

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Elysium

La Terra è ormai un pianeta in decadenza, la cui popolazione è sfruttata e vessata: povertà, polizia opprimente, lavori insicuri, sanità insufficiente. Solo i superricchi se la passano bene, nella stazione orbitante di Elysium, dove vivono in grandi ville e hanno a disposizione macchine che guariscono qualunque malattia.
Max, scontata una condanna per furto d’auto, non cerca più di arricchirsi per pagarsi il viaggio verso Elysium, e vorrebbe solo condurre una vita tranquilla. Ma quando un incidente sul lavoro gli lascia solo pochi giorni da vivere, per lui raggiungere la stazione diventa letteralmente una questione di vita o di morte.

Esordire con un film originale e significativo come District 9 è probabilmente il sogno di ogni regista. Ma comporta anche il problema che, qualunque film farai dopo, ci si aspetterà che sia all’altezza del tuo folgorante debutto. Se Elysium fosse stato realizzato da un esordiente, senza attori famosi e con qualche soldo  in meno, saremmo qui a parlare di un promettente talento. Invece è firmato Neill Blomkamp, e dall’autore di District 9 ci aspettiamo non che faccia promesse, ma che le mantenga. Cosa che non gli è riuscita del tutto.
L’idea alla base del film non è delle più originali: il tema dei ricchi che si costruiscono un rifugio paradisiaco mentre il resto del mondo precipita verso la barbarie è stato declinato dalla letteratura e del cinema in svariate versioni: (la prima che mi viene in mente: il film Zardoz di John Boorman; ma sappiate che anche la trama del romanzo Più che umani di Paolo Lo Giudice, finalista più di una volta al Premio Urania ma purtroppo mai arrivato alla pubblicazione, ha diversi punti di contatto con quella di Elysium). Ma si può fare un buon film anche partendo da dei clichè.  E nella prima parte di Elysium Blomkamp fa un ottimo lavoro nel descrivere una società in cui sovrappopolazione, scarsità di risorse, inquinamento, capitalismo sfrenato e uno stato di polizia dagli onnipresenti controlli informatici collaborano per rendere difficile la vita delle persone.
Il mondo dei ricchi è rappresentato in modo meno dettagliato, ed è una delle pecche del film. Va detto però che il design della stazione spaziale è veramente spettacolare: rivisita il modello a ruota di 2001: Odissea nello Spazio, ma in modo più ardito (è senza soffitto, dato che l’atmosfera è tenuta al suo posto dalla gravità artificiale¹), e desta nello spettatore (perlomeno quello sensibile al fascino dei viaggi spaziali) una meraviglia che è raro incontrare nei film di oggi.
Fino a metà il film è di qualità superiore: un ritmo invidiabile, un’atmosfera fantascientifica ben costruita, e anche un divertente cattivo un po’ fuori dagli schemi (interpretato dal protagonista di District 9, Sharlto Copley), e culmina con una lunga scena di combattimento davvero ben diretta ed efficace.
Nella seconda parte, però, il film si ammoscia completamente. In gran parte a causa di una sceneggiatura pasticciata, che tratta le questioni informatiche con un semplicismo e un’approssimazione non giustificabili nell’era di Internet. Per esempio, perché salvare un file nel cervello di una persona e non su una comune memoria? (D’accordo, lo facevano in Johnny Mnemonic, ma era per mantenere la segretezza, qui sembra una cosa scontata.) Perché ci si sorprende che un file segreto sia criptato? Perché da un certo punto in poi il file risulta leggibile, nonostante nessuno lo abbia decrittato? A che serve una protezione che uccide chi trasporta il file, ma lo lascia leggibile? Ma soprattutto: possibile che basti hackerare un computer per consegnare permanentemente il potere a qualcuno?
Tra tanta confusione, il film si sbarazza in fretta e furia del personaggio di Jodie Foster senza dargli una possibilità di svilupparsi, abbandona i temi politici, e si trasforma in un action movie risolto con il più banale inseguimento con scazzottata finale. Va aggiunto che la vicenda è racchiusa in una cornice ambientata quando il protagonista era ancora un bambino, che vorrebbe dare profondità al personaggio e fornire un appiglio per giustificare la sua redenzione finale, ma risulta sdolcinata e superflua.
In definitiva, il film resta vedibile, grazie all’ottima regia di Blomkamp che ne fa comunque un’altra cosa rispetto ai tanti e malriusciti film di fantascienza di medio budget che abbiamo visto in questi anni (Looper, Codice 46, Il mondo dei replicanti… e così via). Ma è comunque ben lontano dall’essere memorabile.
 
¹A onor del vero ho qualche dubbio che un sistema del genere non lascerebbe sfuggire presto tutta l’aria, ma sorvoliamo.

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Monsters University

Monsters University
 

Come è cominciata l’amicizia tra Mike e Sulley, i due mostri protagonisti di Monsters & Co.? A quanto pare, già all’università, dove Mike si reca entusiasta, pronto a impegnarsi al massimo per realizzare il suo sogno di diventare uno spaventatore di professione. Il suo primo incontro con il futuro amico non è dei più felici, dal momento che il giovane Sulley è un fannullone che pensa di non aver bisogno di studiare, dato che la sua famiglia e il suo aspetto gli apriranno comunque tutte le porte. Dovranno succedere parecchie cose perché l’amicizia tra i due nasca davvero…

Monsters University è stato accolto dai più come un film divertente ma poco interessante, un altro segno della “normalizzazione” di Pixar che, dopo aver prodotto una quantità notevole di capolavori, avrebbe tirato i remi in barca in occasione della fusione con Disney, sacrificando la creatività a favore degli incassi.  Maldisposto dalla visione del pasticciato e deludente Brave stavo quasi per prendere per buono questo giudizio e non andare neppure a vederlo. Ma avrei fatto male, perché invece si tratta di un film davvero molto riuscito, che nel curriculum della grande casa d’animazione non sfigura affatto.
Intendiamoci, Monsters University non è un Up o un Wall-E, e forse nemmeno un Ratatouille: non è un film che tenta di essere in qualche modo innovativo. Però non sta scritto da nessuna parte che un film per essere bello debba per forza essere innovativo. E Monsters University è un bel film proprio perché riesce a essere efficace pur muovendosi in un territorio collaudato.
La grafica è splendida. Pixar ci ha abituato così bene che non ci meravigliamo più, ma questo film mi pare aver segnato un ulteriore progresso, con enormi ambienti occupati da masse di personaggi in movimento tutti diversi tra loro, perfettamente illuminati. Anche gli esseri umani sono animati in modo perfettamente credibile  (abissale la distanza coi bambolotti del primo Toy Story). Ma soprattutto, è eccezionale la cura e la fantasia con cui è stato animato ogni mostro: ce ne sono decine, e anche i personaggi assolutamente minori hanno una personalità e un aspetto caratteristico che si ricorda. E Sulley manifesta talmente tante espressioni ed emozioni nel film che bisognerebbe dargli l’Oscar.
Più che nel film originale, in questo caso la regia è riuscita a inserire nel film qualche tocco horror, più che opportuno, visto che in fondo è di mostri che si parla. Non solo il personaggio dell’Orrendo Rettore Tritamarmo è genuinamente inquietante, ma anche le scene ambientate nel mondo degli umani fanno paura. In particolare, uno dei momenti più alti del film è la scena in cui Mike si trova intrappolato in una stanza piena di bambini che non hanno paura di lui, con un rovesciamento di ruoli da capogiro tra mostro e vittime. (Ultimamente Pixar, da Brave a Toy Story 3, sta dimostrando un’abilità nelle scene horror che sarebbe bellissimo vedere applicata a un intero film, ma temo sia chiedere troppo.)
Quello che mi ha però conquistato è la sceneggiatura, che oserei definire perfetta. Il film non ha mai un attimo di stanca, e riesce non solo a essere divertente dal principio alla fine, ma anche ad avvincere con una storia non banale e che nel finale riserva parecchi colpi di scena. Paradossalmente Monsters University è una commedia studentesca molto migliore di quelle che vorrebbe parodiare, e ha il considerevole pregio di offrire anche una morale molto più realistica di quella offerta in modo martellante da tutto il cinema hollywoodiano. Non è vero che basta impegnarsi a sufficienza per ottenere qualunque risultato: nel film Mike diventa adulto proprio quando viene a patti con la realtà, riconosce di essere un mostro più buffo che spaventoso, e riesce a vivere con questa consapevolezza.
Pixar aveva già dimostrato con i tre Toy Story di essere in grado di sfornare seguiti dello stesso livello dell’originale, ma qui si va anche oltre. In definitiva Monsters & Co. è uno dei suoi film che ho amato meno, ho sempre pensato che non sfruttasse tutto il potenziale del tema. Cosa che invece fa Monsters university, che si rivela perciò migliore del suo modello.

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Pacific Rim

Nel prossimo futuro, una breccia si apre sul fondo dell’Oceano e cominciano a uscirne enormi mostri alieni asssetati di distruzione. Per contrastarli vengono costruiti gli Jaeger, colossali robot da combattimento. I mostri però diventano sempre più forti e, mentre gli esseri umani fuggono dalle coste, gli ultimi robot si riuniscono a Hong Kong per tentare una disperata resistenza…

Per questo film esistono due possibili recensioni:
Recensione per chi vuole vedere un film di robottoni che si picchiano coi mostri spaziali:
Chiunque sia stato ragazzino negli anni ’80 stava aspettando da oltre trent’anni che arrivasse un film spettacolare e ben fatto coi robot giganti giapponesi accanto ad attori veri. Ebbene, l’attesa è finita. Guillermo Del Toro vi ha preparato un film interamente dedicato ai robottoni.
E quando dico interamente, parlo sul serio: in questo film non vi dovete sorbire insipide storie d’amore, melensi conflitti familiari, o tutta quella roba che nei film tratti dai supereroi Marvel passa per “approfondimento del personaggio” (ma in realtà è fuffa per riempire gli spazi tra un combattimento e l’altro). Qui ci sono solo combattimenti e preparazione ai combattimenti. E stop.
E i combattimenti, inutile dirlo, sono fatti benissimo. Se siete disposti a credere che il modo migliore di affrontare un mostro colossale non sia quello di bombardarlo, bensì di costruire un robot alto centinaia di metri che lo prenda a cazzotti o usi una petroliera come clava per picchiarlo, troverete le azioni estremamente realistiche, comprensibili e coinvolgenti, e i robot degni di tutta la tradizione dei mecha giapponesi.
Menzione speciale per le musiche di Ramin Djawadi, che riescono a rendere alla perfezione l’atmosfera da “colonna sonora di videogioco” senza mai risultare noiose o fastidiose.
Certo, il film qualche difetto ce l’ha. I personaggi sono quasi tutti integralmente stereotipati e, se non ci fossero i due scienziati pazzi e il contrabbandiere di “frattaglie di mostro” magistralmente interpretato da Ron Perlman a portare un po’ di divertimento, il film risulterebbe davvero greve. Inoltre, dal punto di vista della strategia militare, una puntata media di Gundam risulta più convincente di Pacific Rim, dove alcune delle cose che vengono dette non hanno senso, o sembrano supercazzole buttate lì solo per far succedere le cose. (Esempio: a un certo punto i mostri emettono qualcosa che sembra un impulso elettromagnetico, che spegne tutti gli Jaeger. Ma se possono fare una cosa del genere, perché non la rifanno poco dopo, quando sarebbe molto più utile? Ma soprattutto: uno dei robot non va fuori uso, e la spiegazione è che, mentre tutti gli altri robot sono “digitali”, questo è un vecchio modello e perciò è “analogico”. Mi spiegate perché mai un robot gigante costruito tra quarant’anni dovrebbe essere “analogico”, quaunque cosa significhi?)
Ma son piccole cose: se un film riesce a far applaudire la platea a scena aperta quando un robottone tira fuori la spada (è successo quando l’ho visto io), vuol dire che è sostanzialmente riuscito.
Recensione per chi vuol vedere un film di Guillermo del Toro, il regista di Il labirinto del fauno:
Qui cominciano le dolenti note. Se andate a vedere Pacific Rim perché siete fan di un regista che ha sempre mostrato di saper coniugare divertimento e profondità nel proprio cinema, cascate male. Perché questo film è bello da vedere, ma è decerebrato quanto quello di un qualsiasi mestierante hollywoodiano.
E sì che gli spunti non sarebbero mancati. A cominciare da questi mostri vomitati dal profondo della Terra che già nei film di Honda volevano esprimere la paura della contaminazione nucleare (e che qui invece non esprimono un bel niente).
Il problema purtroppo sono i personaggi, talmente monodimensionali che è impossible fargli dire qualcosa. Anche le migliori occasioni vanno sprecate: l’idea per cui i robot sono troppo grandi e complessi per un solo cervello umano, per cui vanno guidati da due uomini in reciproca simbiosi mentale, aveva il potenziale per generare infinite situazioni morbose, conflittuali o stranianti, ma non viene minimamente sfruttata.
In generale, la trama non presenta situazioni interessanti perché mancano avversari interessanti. Non c’è nessun vero conflitto tra gli esseri umani, e l’unico “cattivo” è un pilota che fa il bulletto senza una vera ragione. Mentre i mostri spaziali sono totalmente privi di personalità, e anche quando abbiamo l’occasione di guardare nel loro mondo e nei loro cervelli non scopriamo nulla di inquietante. Non fatemi dire che cosa avrebbe fatto Cronenberg di uno spunto del genere.
I temi politici sono poi del tutto assenti. A parte una frecciata nemmeno tanto convinta contro i politici inetti in generale, è difficile dare una qualsiasi interpretazione politica al tutto. Unica eccezione, la scena in cui la folla, avendo capito che il mostro sta cercando una persona in particolare, le fa il vuoto intorno: efficacissima, ma slegata da qualsiasi discorso.
Insomma, mi spiace deludervi, ma Del Toro ha fatto un film totalmente privo di contenuti. Certo, rispetto a Michael Bay il suo è un cinema molto più raffinato, pieno di riferimenti e citazioni, ed esteticamente molto più bello. Ma la piattezza intellettuale è quasi la stessa e, peccato mortale, non c’è nel suo film assolutamente nulla di spaventoso. È solo un giocattolo.
 
Concludo con alcune note:

  • Se vi state chiedendo che tipo di spettatore sia io, faccio parte della seconda categoria: nonostante infinite visioni di Goldrake, Il grande Mazinga, Jeeg robot d’acciaio , Danguard, Gaiking, Daitarn 3, Gundam e simili, speravo comunque in un film del Del Toro che conoscevo.
  • Non lasciate la sala prima di arrivare a metà dei titoli di coda! C’è una scena che merita.
  • Non ho visto il film in 3D: ho preferito vederlo sotto casa, anche se temo di essermi perso qualcosa.
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L'ambasciatore di Marte alla corte della Regina Vittoria

Sulla Terra sono sbarcati gli alieni del pianeta Marte, che però si sono dimostrati pacifici e disposti a condividere con noi la loro tecnologia. L’amicizia con Marte, però viene incrinata dal misterioso assassinio dell’ambasciatore marziano sulla Terra. A indagare viene chiamato l’abile investigatore Thomas Blackwood, le cui ricerche vanno a incrociarsi con quelle di Lady Sophia Harrington, un’esperta di paranormale che vuole scoprire l’identità del misterioso criminale noto come Jack il Saltatore…

Lo steampunk, il sottogenere della fantascienza che ambienta le sue storie nel passato (di solito nel XIX secolo), però rivisitandolo con l’introduzione di tecnologie differenti da quelle storiche, è di solito piuttosto divertente. Perché però risulti davvero interessante, è necessario a mio avviso che le tecnologie retrofuturistiche non si limitino a essere bizzarre, ma siano un’occasione per riflettere sulla storia della Scienza o su quella del nostro immaginario.
Questto romanzo, il primo di una serie che vede protagonisti gli investigatori Harrington e Blackwood, non è molto rigoroso dal punto di vista tecnologico. Se per alcune cose l’autore, Alan K. Baker, si sforza di inventare tecnologie compatibili con il pensiero ottocentesco, in altri prende delle scorciatoie. Per esempio, i suoi personaggi utilizzano computer che sfruttano spiriti folletti per recuperare informazioni: una trovata divertente, ma più parente del fantasy che di qualunque scienza alternativa.
Il punto di forza di L’ambasciatore di Marte è semmai quello stilistico. L’autore riesce a ricreare piuttosto bene uno stile narrativo ottocentesco, introducendovi però tutta una serie di elementi che provengono da scrittori posteriori, come per esempio Lovecraft. Ed è lo straniamento provocato dal vedere eroi del passato alle prese con avventure moderne a rendere il tutto interessante.
L’autore infarcisce il romanzo di trovate ironiche molto divertenti. Per esempio, il palazzo del Governo marziano che corrisponde al famoso volto osservato dalla sonda Viking I. Oppure il celebre esperimento di Michelson e Morley, che in questo universo, ovviamente, ha confermato l’esistenza dell’etere invece che dimostrare la sua inesistenza.
Il libro indubbiamente si legge di un fiato. Tuttavia l’autore non sfrutta fino in fondo le potenzialità parodistiche dell’universo che ha creato. A differenza di autori come Paul Di Filippo,  che scrive steampunk proprio per prendere di mira la mentalità ottocentesca che ancora alberga in alcuni aspetti della nostra società, Baker finisce con l’adagiarsi negli stilemi dell’epoca invece che scardinarli, conducendo il suo romanzo verso un lieto fine un po’ insipido e prevedibile.
In definitiva, intrattenimento di qualità, scritto con arguzia e mestiere, ma di poca sostanza.

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In memoria: Iain M. Banks

L’altro ieri la casa editrice Orbit ha annunciato la dipartita, a soli 59 anni, dello scrittore scozzese Iain Banks.
Non si tratta di una notizia inattesa, dato che lui stesso aveva rivelato, con un messaggio pieno di quell’umorismo nero che spesso riversava nei suoi scritti, di soffrire di un cancro che gli avrebbe lasciato da vivere “al massimo un anno”. In realtà non ha avuto che un paio di mesi, insufficienti anche per vedere l’uscita del suo ultimo romanzo, The Quarry.
Banks è stato uno di quegli autori imprescindibili, di cui chiunque è in grado di vedere l’importanza. Con i suoi romanzi della serie della Cultura ha riconciliato la fantascienza avventurosa e quella più concettuale, mostrando che potevano felicemente e fruttuosamente coesistere.
Amava profondamente il genere, e uno dei suoi ultimi atti pubblici è stato chiarire che per lui la fantascienza (che aveva il vezzo di firmare con la “M” puntata, a differenza che altrove) non è mai stata un modo per guadagnar soldi facilmente e avere la possibilità di scrivere romanzi “veri”, bensì la sua vera passione di scrittore, perseguita anche contro l’interesse economico. (Il che peraltro non gli ha impedito di scrivere anche splendide opere di non fantascienza.)
Purtroppo non ho aneddoti da raccontare su di lui. Non l’ho mai incontrato. Mi sarebbe piaciuto moltissimo, ed ero convinto che prima o poi sarebbe capitato. Non avrei mai immaginato che potesse lasciarci così presto.
In Italia, purtroppo, si è smesso di pubblicarlo da oltre un decennio (il suo romanzo tradotto più recente è del 2000), e anche la sua morte ha avuto ben poco risalto silla stampa italiana, nonostante i numerosi riconoscimenti provenienti da tutto il mondo letterario (e non solo fantascientifico), gente del calibro di Christopher Brookmyre, Neil Gaiman, Charles Stross, Richard Morgan
Nel mio piccolissimo, sto preparando un articolo retrospettivo su di lui che usscirà tra breve su Players.

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