Regina del Sole (autopromozione)

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Sta per arrivare nelle librerie (e negli e-book store) Regina del sole, secondo volume del ciclo di Virga, scritto dal canadese Karl Schroeder e tradotto dal sottoscritto insieme a mia moglie Silvia Castoldi.
Quella di Schroeder è una fantascienza visionaria: Virga è un universo artificiale, in cui non ci sono pianeti e lo spazio non è vuoto ma pieno d’aria, il che comporta una fisica piuttosto diversa da quella cui siamo abituati. Questi concetti insoliti vengono però bilanciati da trame molto avventurose e pirotecniche.
Rispetto al suo predecessore (che vi consiglio comunque di leggere per primo), ho trovato Regina del Sole ancora più divertente. Merito del fatto che questa volta la protagonista assoluta è Venera Fanning, l’avventuriera che abbiamo imparato ad amare nel primo volume e che è sicuramente il più riuscito personaggio del ciclo.
Se siete vicini a Milano e volete saperne di più, vi ricordo che domenica 11 ottobre alle ore 11.30, nel corso della convention StraniMondi dedicata alla letteratura fantastica, ci sarà la presentazione ufficiale del romanzo. Sarò presente anch’io, insieme agli editori, a Silvia e ad altri collaboratori di Zona 42.
Il libro è già acquistabile in versione cartacea o ebook.

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La Rete bussa alla porta dell'infanzia

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Una scena del film “Nel paese delle creature selvagge” di Spike Jonze
 
Di fronte all’incontro tra i bambini e la Rete, l’atteggiamento dei genitori oggi è di solito ambiguo. Da un lato, manifestano un malcelato orgoglio se il pupo riesce a destreggiarsi tra le icone di un tablet e magari a scaricare e installare da solo il giochino che gli interessa. Dall’altro, però, sono terrorizzati all’idea che il pargolo possa, attraverso Internet, venire a contatto con il vasto mondo senza il filtro genitoriale. Da cui il proliferare dei software di parental control, farraginosi e inefficaci tentativi di porre un freno alla curiosità degli infanti senza bloccare del tutto l’agognato accesso alla Rete. Questo perché oggi Internet è vista come un territorio selvaggio in cui si annidano mostri in agguato (mentre al contrario il televisore viene considerato innocuo, e si trova normale lasciarlo acceso a tutte le ore del giorno di fronte ai bambini a mostrare contenuti spesso inadatti).
Le cose, però, potrebbero cambiare presto: la Rete sta per arrivare ai bambini assumendo un aspetto del tutto rassicurante, quello di giocattoli parlanti connessi a un’intelligenza artificiale in cloud. Ne ho parlato su Nòva qualche tempo fa: i CogniToys sfrutteranno le risorse di Watson di IBM, una delle IA più potenti e versatili in circolazione, per conversare in modo intelligente coi bambini. Qualcosa mi dice che, di fronte a un dinosauro parlante dall’aria innocua che risponde pazientemente e correttamente a tutte le domande del figlio, i genitori saranno felicissimi di delegargli almeno una parte dei compiti educativi e godersi un po’ di tranquillità.
Non è difficile immaginare scenari in cui qualcosa può andare storto. A cominciare dalla possibilità che qualcuno possa, per divertimento o, peggio, con cattive intenzioni, hackerare i giocattoli e arrivare a molestare i bambini proprio nel cuore delle loro casa, dove i genitori li ritengono al sicuro. A mio avviso però è molto più grave il rischio che siano i gestori del sistema a comportarsi scorrettamente. Avrebbero in mano un enorme patrimonio di dati sulla personalità dei bambini nel periodo più delicato dello sviluppo. Senza controlli molto stretti, cosa gli impedirebbe di sfruttarli molti anni dopo, usandoli per manipolare le persone? Per esempio cercando di venderti un prodotto con annunci pubblicitari mirati, collegati alla tua filastrocca preferita, che neppure ricordi più ma è sepolta nel tuo inconscio? Addirittura: cosa gli impedirebbe di sfruttare la situazione per precondizionare i bambini, associando situazioni piacevoli con determinati suoni, melodie o parole che vent’anni dopo verrebbero inclusi in prodotti o slogan politici? E poi, al di là di questo, non si correrà il rischio che i genitori si affidino troppo a queste macchine, non fornendo ai bambini il contatto umano di cui hanno bisogno? È una situazione che la fantascienza ha già preso in considerazione: l’esempio migliore è il terrorizzante racconto Il veldt di Ray Bradbury, in cui bambini abituati a vivere nella realtà virtuale di una nursery reagiscono con violenza quando i genitori pentiti decidono di farli uscire.
Lo scenario che più mi inquieta però, paradossalmente è quello opposto, in cui tutto funziona a meraviglia. Sì, perché non si può negare che l’idea abbia anche delle potenzialità davvero interessanti. Sappiamo bene che i bambini crescono tanto più intelligenti quanto più stimoli ricevono nella prima infanzia. Se questi giocattoli manterranno le promesse, potrebbero diventare molto più stimolanti di qualunque babysitter umano: instancabili, sempre attenti, infinitamente pazienti, in grado di accedere a tutta la conoscenza del mondo, e per giunta con la possibilità di attingere a un database crescente di esperienze fatte con migliaia o milioni di infanti di ogni luogo. Potenzialmente potrebbe essere una rivoluzione nel campo dell’educazione. Quanto potrebbero imparare i bambini, avendo un simile maestro sempre a disposizione giorno e notte, in grado di insegnare sfruttando la loro curiosità e non in maniera coercitiva? È da vedere, forse moltissimo. Potrebbe essere un passo avanti di proporzioni inattese nel progresso dell’umanità.
Mi chiedo però come sarebbe la transizione. Già oggi i genitori guardano con sospetto e preoccupazione i loro figli nativi digitali perennemente attaccati a uno smartphone. Come reagirebbero a bambini che, educati da un’intelligenza artificiale, nel giro di pochi anni ne saprebbero più di loro su tantissimi argomenti? Anche in questo caso mi viene in mente uno scenario da fantascienza, questa volta quello di un romanzo di Arthur Clarke in cui i figli degli uomini, stimolati da una razza aliena, sviluppano potenzialità enormi, diventando qualcosa di diverso dagli esseri umani e staccandosi dai genitori. L’opera, che quest’anno diventerà anche una serie televisiva di SyFy Channel, si intitola appunto Childhood’s End, la fine dell’infanzia (ma curiosamente il titolo italiano vede le cose dal lato opposto, ed è Le guide del tramonto).
Non mi piace fare l’apocalittico, e in realtà credo che se avessi dei figli sarei già in lista per comprargli un CogniToy. Ma credo anche che farei in modo di tenerlo spento quando non sono presente. Non si sa mai…

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È il caso di farci riconoscere dagli alieni?

La custodia dorata del disco posto sui Voyager, con le istruzioni per decifrarlo.
La custodia dorata del disco posto sui Voyager, con le istruzioni per decifrarlo.

È il caso di inviare messaggi agli alieni per fargli sapere che siamo qui? Può sembrare una questione confinata ai romanzi di fantascienza, ma invece in questo momento ci sono persone serissime che la stano dibattendo animatamente.
Messaggi agli alieni in realtà ne abbiamo già mandati, però le probabilità che qualcuno possa riceverli sono piuttosto scarse. Abbiamo incluso messaggi sulle sonde spaziali destinate a lasciare il Sistema Solare: delle targhe sui Pioneer, dei dischi con codifica digitale sui Voyager. Tuttavia il loro viaggio è lentissimo: è ancora oggetto di discussione se siano uscite o meno dalla sfera di influenza del Sole, e passeranno decine di migliaia d’anni prima che transitino vicino a un’altra stella. Anche ammesso che esistano altri sistemi stellari abitati, potrebbero passare milioni di anni prima che ne incontrino uno, e anche in quel caso non è affatto detto che qualcuno si accorga del loro passaggio.
Quarant’anni fa, utilizzando il radiotelescopio di Arecibo in modalità trasmittente, abbiamo anche trasmesso un messaggio radio in direzione dell’ammasso globulare di Ercole M13, codificando alcune basilari informazioni sulla natura della vita sulla Terra. A prima vista potrebbe sembrare che questo messaggio abbia maggiori possibilità di essere ricevuto, dato che M13 contiene circa 350.000 stelle, e quindi  si potrebbe sperare che almeno una di esse abbia un pianeta abitato. A ben guardare, però, le cose stanno diversamente. Per cominciare, gli ammassi globulari sono un ambiente molto poco favorevole alla formazione di pianeti. Ma soprattutto, il messaggio impiegherà 25.000 anni ad arrivare fin laggiù,e  nel frattempo M13 si sarà spostato da tutt’altra parte. Salvo l’evento altamente improbabile che un alieno passi proprio sulla sua traiettoria al momento giusto, il messaggio si perderà nel nulla.
Ora però si sta pensando di cominciare a fare sul serio, a causa della frustrazione dei partecipanti a SETI. La sigla sta per Search of Extra Terrestrial Intelligence (ricerca di intelligenza extraterrestre), e indica un programma di ricerca privato che da più di 40 anni scandaglia in vari modi le frequenze radio per trovare i segni della presenza di alieni da qualche parte nell’Universo. Personalmente ho sempre pensato che l’approccio di SETI abbia dei limiti, dato che si basa sulla presenza di radiazioni elettromagnetiche per individuare le civiltà aliene. Non è detto che questo sia un buon metodo: la civiltà umana ha scoperto l’elettromagnetismo da meno di un secolo e mezzo. Magari tra cinquant’anni scoprirà qualcosa che renderà obsolete le comunicazioni basate sulle onde radio, che ci sembreranno antiquate come usare un eliografo invece che spedire una e-mail.
In ogni caso SETI non ha finora cavato un ragno dal buco, e perciò molti dei suoi adepti stanno pensando di passare a qualcosa che chiamano Active SETI (ricerca attiva di intelligenza extraterrestre) o METI (invio di messaggi verso l’intelligenza extraterrestre). Si tratterebbe in pratica di sistematizzare l’invio di messaggi verso l’esterno, nella speranza di farci sentire sul serio da qualcuno. Tuttavia c’è chi obietta fortemente a questo sviluppo. Farci notare da alieni di cui non sappiamo assolutamente nulla, dicono, è un salto nel buio. Guardando alla storia umana, dove spesso intere civiltà sono state completamente annichilite dall’incontro con un’altra tecnologicamente più avanzata, il contatto con gli extraterrestri comporterebbe grossi rischi. Soprattutto, si tratta di un’iniziativa che non dovrebbe essere presa per iniziativa di un singolo gruppo, ma andrebbe decisa dall’umanità nel suo insieme.
Su questo temo si è tenuta in questi giorni una serissima discussione presso l’AAAS (l’associazione americana per il progresso della scienza). A difendere la tesi per cui da un contatto con gli extraterrestri può venire solo del bene c’era l’attuale direttore della composizione dei messaggi interstellari di SETI, Douglas A. Vakoch. Curiosamente, a sostenere la tesi opposta c’era uno scrittore di fantascienza, cioè il tipo di persona che ci aspetteremmo più incline a voler incontrare gli alieni. In effetti David Brin è un bravissimo autore (il suo Thor Meets Captain America è uno dei miei racconti preferiti di sempre), ma è anche un astrofisico, ed è uno dei più convinti oppositori della ricerca attiva di intelligenze aliene.
Difficile dire di primo acchito chi abbia ragione. Da un lato, potremmo pensare che la nostra paura degli alieni sia solo un fatto culturale, un mero riflesso della nostra natura aggressiva e diffidente. Tuttavia è vero che non sappiamo assolutamente nulla di loro, nemmeno se esistano o no. Chi può dire se andando incontro agli extraterrestri non ci comporteremmo come i dodo che accoglievano fiduciosi gli spagnoli pronti a metterli in pentola? Proveremo a parlarne più in dettaglio in futuro.
 

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L'ultima colonia

Dopo gli eventi visti in Morire per Vivere e Le Brigate Fantasma, John e Jane si sono sposati, hanno avuto nuovi corpi più adatti alla vita civile, e vivono una pacifica vita da agricoltori insieme alla figlia Zoe. Ma l’Esercito ha ancora qualcosa in serbo per loro, e li convince a guidare una spedizione per colonizzare il pianeta Roanoke. Presto si renderanno conto che le cose non stanno esattamente come gli è stato detto, e che i civili loro affidati vengono usati come pedine in una partita diplomatica dove potrebbero tranquillamente essere sacrificati…

Questo è il terzo volume della serie Old Man’s War, per ora l’ultimo pubblicato in Italia, mentre negli USA sono già usciti anche Zoe’s Tale, che racconta gli stessi eventi di questo romanzo ma dal punto di vista di Zoe, e il successivo The Human Division, e sta per uscire The End of All Things.
Recensendo i due volumi precedenti avevo espresso le mie forti riserve verso l’impostazione politica dei romanzi di Scalzi, totalmente orientata verso un acritico militarismo. Tuttavia, nel corso di un’intervista che mi aveva rilasciato per Players, lo stesso autore mi aveva ammonito a non scambiare le posizioni dei personaggi per le sue, e a prendere in considerazione l’intera serie prima di giudicare. Devo riconoscere che in questo terzo episodio l’Esercito perde la sua immagine di istituzione totalmente positiva e viene descritto come fallibile, accentratore e manipolatore. Una brusca correzione di rotta (che peraltro non inficia le mie critiche agli episodi precedenti). Questa apertura progressista non è però bastata a farmi piacere il romanzo, che a mio avviso fa fare alla serie un passo indietro.
Attenzione: parlo seguendo i miei gusti personali. Dal punto di vista tecnico, L’Ultima Colonia è scritto piuttosto bene, con una trama piena di ritmo e di colpi di scena, personaggi ben caratterizzati, e continue variazioni di atmosfera che permettono di arrivare fino in fondo senza annoiarsi. E l’intreccio politico-diplomatico-militare è ben studiato.
Tuttavia io non riesco proprio ad appassionarmi alla visione retrò della fantascienza di Scalzi. Perlomeno nei due volumi precedenti c’era una tecnologia militare interessante, originale e moderna. Ma quando si esce dall’ambito strettamente guerresco l’autore perde tutta la sua inventiva. La società che descrive non solo non è futuribile, ma nemmeno contemporanea, e sembra essere stata concepita negli anni Cinquanta. Si direbbe che l’unico motivo per cui i personaggi colonizzano pianeti è trovare nuovi territori dove piantare patate e allevare maiali, e che il principale obiettivo strategico sia quello di moltiplicare la consistenza della propria popolazione. Concezioni decisamente fuori dal tempo.
Il punto più debole di tutta l’opera è però quello che sarebbe dovuto essere il suo centro, e cioè il pianeta Roanoke. Data la sua importanza nell’economia del romanzo mi sarei aspettato un buon livello di dettaglio e di originalità. Invece, tutto quello Scalzi ci dice di Roanoke si può riassumere in due righe: ci sono roditori simili a topi con quattro occhi, predatori simili a lupi con quattro occhi, abitanti primitivi ma intelligenti che somigliano a lupi mannari, e bellissimi tramonti, ma l’atmosfera puzza di ascelle. Stop. Un fondale di cartapesta sarebbe stato più interessante.
Mi sono reso conto che una fascia importante, e forse addirittura maggioritaria del pubblico della fantascienza ama molto i romanzi avventurosi, senza eccessive complicazioni scientifiche e ispirati a opere del passato. Per costoro L’Ultima Colonia contiene tutto quello che serve, confezionato in modo professionalmente valido. A me però è sembrato affrettato e privo di vero interesse.

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Sonetti spaziali

Pulsar
Qualche mese fa, in occasione dell’approdo sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko del lander Philae sganciatosi dalla sonda Rosetta, fu molto sbeffeggiato in rete il relativo servizio del TG4 a firma Mauro Buffa. In esso l’autore deprecava la spesa “francamente eccessiva” della missione, dando voce a un sordo antiscientismo purtroppo molto diffuso nel nostro paese.
Non è però per questo che lo cito, bensì per il fatto che il servizio accusava la sonda non solo di essere inutile, qualcosa che eccita “solo gli scienziati” (evidentemente gente strana e da non prendere a esempio), ma anche di danneggiare le persone comuni, rovinando per sempre l’immagine dell’astro natalizio e sostituendola con quella di un “grosso sasso polveroso”, del tutto privo di mistero e di interesse.
Se fosse solo il TG4 a sostenere che l’esplorazione spaziale distrugge la poesia, non darei molto peso a questa tesi. Tuttavia lo stesso concetto è stato espresso anche altrove con maggiore autorevolezza. Per esempio su Il Sole -24 Ore, poco prima dell’episodio che ho citato, è apparso un interessante articolo di Massimo Bucciantini che, prendendo a prestito le parole di Primo Levi, esprime un dubbio simile.
All’indomani dello sbarco sulla Luna, Levi si chiedeva se l’impresa sarebbe stata ancora in grado di farci meravigliare. “Il volo di Collins, Armstrong e Aldrin è troppo programmato, troppo poco ‘folle’, perché un poeta vi trovi alimento”, scriveva su La Stampa. Da qui prende le mosse il professor Bucciantini, che traccia un’interessante storia del rapporto degli uomini con la Luna mano a mano che la conoscenza è progredita, concludendo però con il dubbio che con le missioni lunari “quella continuità si sia spezzata”.
Sono rimasto sorpreso scoprendo che Levi avesse questo dubbio, lui che riusciva a rendere poetica la tavola periodica di Mendeleev, o a scrivere un racconto struggente intorno a dei barattoli di vernice che fa grumi quando non dovrebbe. Ma sarà poi un dubbio fondato? Io ho la sensazione che l’esplorazione dello spazio apra tanti varchi all’immaginazione quanti sono quelli che chiude. Forse è un po’ presto perché appaia un Grande Poeta a cantare il mistero dello spazio come lo vede la scienza moderna (in fondo è da poco più di mezzo secolo che l’uomo è in grado di lasciare il pianeta, e tuttora con forti difficoltà). Ma non vedo perché non dovrebbe prima o poi apparire.
Facendo queste considerazioni, mi ha confortato scoprire che l’ultima poesia di Edoardo Sanguineti, ancora una volta riportata da La Stampa, riguardava quasar, pulsar e altre entità misteriose che sono recentissime scoperte della scienza moderna. Ve la trascrivo qui:
 

Sonetto astrale
 
pulsano pulsar con forti pulsioni:
ecco a voi quasar, quasi stelle vive:
collassano assai dense, per pressioni
che imbucano per sempre, in nere rive:
 
così  forse è: facelle in evezioni,
sciami di nebulose fuggitive,
supergiganti, code in librazioni,
variabili cefeidi recidive:
 
protuberanze, e getti, e radiazioni
corpuscolari, eclissi comprensive
di pieni pianetini e pianetoni,
aurore ipercompresse in somme stive:
 
oh, chiare notti gravitazionali,
mie fragili scintille zodiacali!

 
Se conoscete altre poesie dedicate allo spazio visto con occhi moderni, vi prego di segnalarmele al mio account Twitter (@Vanamonde65). Se le segnalazioni saranno abbastanza, potremmo fare della poesia spaziale un appuntamento fisso di questo blog. Alla prossima!

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Interstellar

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Cooper è un ex astronauta, che si è ridotto a fare l’agricoltore in un mondo messo in ginocchio da un’epidemia sconosciuta che decima i raccolti provocando tempeste di polvere. Finché non gli arriva in modo misterioso la possibilità di partecipare a una missione che andrà a cercare una possibilità di salvezza al di fuori del Sistema Solare…

Uno dei motivi che mi fanno amare il nuovo film di Christopher Nolan, Interstellar, è che è un vero film di fantascienza. Ossia: non un’avventura ambientata in uno pseudofuturo rutilante ma in fondo modellato sul passato, bensì una storia davvero incentrata sul rapporto tra l’uomo, la scienza e l’ignoto. Nell’incipit del film si respira davvero un’atmosfera da vecchia fantascienza (anche se poi la vicenda prende un taglio molto più moderno, e mi ha ricordato i romanzi di M. John Harrison).
Di Interstellar mi sono piaciute molte cose. In primo luogo la costruzione, complessa e articolata, piena di sorprese, in grado di tenere interessato lo spettatore per le quasi tre ore di durata, e che dipana con arditi parallelismi vicende lontane nello spazio e nel tempo ma destinate a intrecciarsi. Mi è piaciuto il modo in cui Nolan riesce a far capire la realtà del futuro senza entrare nei dettagli ma con poche scene efficaci (la caccia al drone, la discussione con la maestra). Ho apprezzato come ripropone in modo credibile ma innovativo topoi come l’astronave e soprattutto i robot (dall’aspetto totalmente disumano, ma simpatici, affidabili e rassicuranti: l’esatto opposto di come li vorrebbe il cliché). Ho ammirato il modo in cui è riuscito a visualizzare in modo convincente e comprensibile una realtà con più di tre dimensioni.
E mi pare che si possa dire che abbia raggiunto il suo scopo, che sembra essere quello di fare un film alla 2001: Odissea nello spazio (di cui ricalca in modo fedelissimo la struttura: messaggio da un’entità sconosciuta, lungo viaggio, incidente dovuto a contrasti sullo scopo ultimo della missione, uscita dal mondo e rinascita) rimanendo però comprensibile per lo spettatore medio.
Con tanti pregi, si può dire che è un capolavoro? Purtroppo no, a mio avviso. Perché Nolan, dopo aver messo in piedi una struttura grandiosa, per qualche motivo non riesce a mantenere il rigore di sceneggiatura che ha avuto in Memento o The Prestige (due altri suoi film che affrontano, in modi diversi, lo stesso tema: il mistero della nostra esistenza nel Tempo). Procede così a corrente alternata, con momenti entusiasmanti che convivono con dialoghi dimenticabili e scontati (la tirata sull’Amore, che banalizza un messaggio che il film sa esprimere con ben altra forza solo per immagini, oltretutto mettendola in bocca a una donna, per calcare sullo stereotipo) o carenze e incongruenze di sceneggiatura (il fatto che tutti siano convinti di aver ricevuto un aiuto da misteriosi alieni, ma nessuno si preoccupi di investigare; o il protagonista che dopo 30 anni di inattività viene immediatamente posto al comando di una missione perché nessuno è più esperto di lui, ma poi continua a fare domande come se non sapesse nulla di astrofisica). E anche con qualche aspetto scientifico poco convincente, che stona particolarmente in un film che in generale rappresenta scienza e tecnologia in modo credibile e realistico (ma su questo, per non annoiarvi, farò un post a parte).
Interstellar è un film ambizioso (persino troppo), originale, interessante, intenso. E nonostante questo un po’ irritante, perché sarebbe potuto essere anche migliore. Comunque da vedere.

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La volta che Tullio Regge dialogò con Primo Levi

copj170.aspIeri è purtroppo scomparso, a 83 anni, il grande fisico italiano Tullio Regge. È stato uno scienziato di livello mondiale, i cui contributi (tra cui la teoria di Regge sulle interazioni tra particelle ad alta energia, e il metodo di calcolo di Regge per trovare soluzioni approssimate alle equazioni della relatività generale) sono stati mattoni importanti della costruzione della fisica moderna. Vorrei ricordarlo qui parlando di quello che forse è il suo libro più noto, il Dialogo scritto a quattro mani con Primo Levi.

Si tratta di un agile volume (un’ottantina di pagine tutto compreso) davvero insolito: non è che la trascrizione di una conversazione a ruota libera svoltasi nel giugno 1984, senza temi prefissati, tra Tullio Regge e Primo Levi (che sarebbe morto tre anni dopo). Sarebbe dovuta essere una semplice intervista per una serie in cui varie persone spiegavano in cosa consisteva il loro lavoro. Regge propose di avere come interlocutore Primo Levi, che accettò. E il risultato fu un testo (curato da Ernesto Ferrero) che trascende l’attualità, e viene ancora ripubblicato dopo trent’anni.
In Dialogo i due parlano davvero del più e del meno, ma come possono farlo due persone di eccezionale cultura: toccano perciò argomenti come la propria storia familiare, la scuola italiana, la fantascienza, la musica, l’ebraico, la teoria delle stringhe, la colonizzazione dello spazio, la morte termica dell’Universo, e così via, in un vertiginoso incrociarsi di collegamenti. E leggerlo è un po’ come entrare nell’intimità di due menti eccelse.
La scheda del libro (tuttora in catalogo presso Einaudi) dice che si tratta di “Uno dei rari momenti in cui la cultura scientifica e quella umanistica si ritrovano per dare vita a uno straordinario percorso di conoscenza”. Chi la legge potrebbe erroneamente pensare che si tratti di un confronto tra un umanista (Levi) e uno scienziato (Regge). Ma non è così. Perché Levi era prima di tutto un uomo di scienza, un chimico, e ciò ha segnato profondamente la sua narrativa, da Il sistema periodico a La chiave a stella. Mentre Regge era anche un uomo di lettere, alfiere della divulgazione scientifica, collaboratore di Le Scienze e La Stampa e anche autore di fantascienza con i racconti di Non abbiate paura. Ed è proprio questo che mi piacque tanto quando lessi Dialogo per la prima volta: il modo in cui le famose due culture, in Italia da sempre separatissime, si intrecciavano e si mescolavano senza sforzo apparente, e con risultati spettacolari. Per questo mi piacerebbe che fosse letto anche oggi: come esempio di una possibile unificazione culturale che, 30 anni dopo, non sembra essere minimamente più vicina, e semmai si è ulteriormente allontanata.

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Fantascienza ottimista?

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Martedì scorso ho pubblicato su Repubblica Sera un articolo in cui parlavo del progetto Hieroglyph di Neal Stephenson per una fantascienza più ottimista, e riportavo l’opinione in merito di vari autori di fantascienza, italiani e stranieri.
Avevo anche fatto girare la voce che avrei pubblicato qui una versione estesa dell’articolo, dato che lo spazio che ho avuto a disposizione non era sufficiente per riportare interamente i contributi, spesso molto interessanti e articolati, che mi hanno fornito gli scrittori che ho interpellato.
Chiedo scusa a coloro che se la aspettavano per oggi, ma avrò bisogno di un po’ più di tempo per prepararla. Inoltre credo che a questo punto la farò uscire non su queste pagine, ma su quelle di Robot, che mi ha chiesto di poterla pubblicare.
Per intanto, coloro che non sono abbonati e non hanno potuto leggere l’articolo originale possono farlo qui.

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Coming Soon Enough

Abituato all’Italia, in cui la fantascienza è solitamente vittima di un totale disinteresse sia da parte degli ambienti letterari, sia di quelli scientifici, provo sempre una discreta invidia quando mi accorgo di come altrove sia invece considerata, anche in ambienti serissimi, una valida interlocutrice in grado di dirci qualcosa di importante sul futuro. Un esempio è il progetto Hieroglyph, di cui ho parlato ampiamente altrove, in cui un gruppo di noti scrittori di fantascienza ha provato a  convertire in racconti le idee di vari scienziati, sotto l’egida dell’Università dell’Arizona. Oggi però voglio parlarvi invece di IEEE Spectrum, rivista organo dell’associazione internazionale degli ingegneri elettrici ed elettronici, che accanto a ponderosi articoli di microelettronica, robotica o nanotecnologia non disdegna di tanto in tanto di pubblicare articoli di futurologia che confinano con la fantascienza pura. E che, per celebrare i suoi 50 anni, non ha trovato modo migliore che pubblicare un’antologia di fantascienza.

Coming Soon Enough - copertina

Intitolata Coming Soon Enough (“in arrivo abbastanza presto”), l’antologia è disponibile in ebook e contiene sei racconti di autori noti e meno noti, che avevano come unico vincolo quello di inserire nelle loro storie qualche nuova tecnologia che potrebbe diventare realtà in un futuro non troppo lontano. Queste le opere inserite:

  • Someone to Watch over Me di Nancy Kress parla di un futuro in cui nascondere una telecamera per spiare qualcuno è facilissimo. Il tema di una tecnologia che dà libero spazio agli sguardi altrui non è certamente nuovo nella fantascienza (basti pensare allo splendido Altri giorni, altri occhi di Bob Shaw, o all’inquietante episodio Ricordi pericolosi della recente serie televisiva britannica Black Mirror), ma il racconto di Kress propone un punto di vista psicopatologico sufficientemente insolito da essere interessante.
  • A Heart of Power and Oil di Brenda Cooper è il racconto che mi è piaciuto meno. Il tema tecnologico (un drago volante realizzato attraverso la stampa 3D) era potenzialmente molto interessante, ma viene usato solo come sfondo per una prevedibile storia in cui un adulto si riscatta aiutando un ragazzino a trionfare, che avrebbe potuto svolgersi in qualunque epoca.
  • Incoming di Geoffrey A. Landis affronta un altro tema sfruttatissimo della fantascienza: il Primo Contatto con gli alieni, rivisitato utilizzando i principi scientifici della moderna esoplanetologia. Tipica hard SF: più interessante per le idee che contiene che emozionante in sé.
  • Grid Princess di Cheryl Rydbom è il racconto che presenta il quadro tecnologico più strutturato: è ambientato in un mondo in cui le persone vivono immerse in un flusso di informazioni continuo di cui l’Internet di oggi è solo una pallida antenata, e per alimentarlo è necessario dedicare enormi porzioni del territorio extraurbano alla raccolta di energia solare. Il tutto però è raccontato in modo intimista e poetico, lasciando la tecnologia sullo sfondo. Forse il mio preferito.
  • Water over the Dam di Mary Robinette Kowal parla di tecnologie che renderanno possibile ricavare energia in modo molto più localizzato, rendendo obsolete le grandi centrali. Anche in questo caso però la tecnica resta sullo sfondo, mentre la storia di un’ingegnera costretta a lottare contro un capo maschilista avrebbe potuto svolgersi anche ai giorni nostri (anzi: speriamo vivamente che il nostro futuro sia diverso!).
  • Shadow Flock, il racconto dell’autore più celebre, Greg Egan, è molto più lungo degli altri e si ricollega come tematica alla storia iniziale. Anche in questo caso si parla di privacy messa a rischio dalla tecnologia, con un’ingegnera esperta di droni costretta da una gang di ladri a usare le proprie capacità per carpire informazioni alle vittime di un furto. Egan è un fuoriclasse, e riesce come sempre a descrivere tecnologie future in modo perfettamente credibile. Come in un buon thriller, la tensione sale gradualmente, ed è un peccato che il finale aperto risulti un po’ anticlimactico e “didattico” rispetto alle potenzialità della storia.

Nel complesso, anche se, come quasi sempre accade in questo tipo di antologie tematiche, la qualità dei racconti è disuguale, il livello medio è più che soddisfacente, e tutte le storie offrono spunti interessanti sui nostri possibili futuri. E il prezzo è davvero basso: se sapete l’inglese, potete scaricarla per soli 1,99 $ in versione Kindle o iTunes.

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Il Sole dei Soli


È in uscita in questi giorni Il Sole dei Soli, romanzo di fantascienza di Karl Schroeder che ho tradotto insieme a mia moglie Silvia Castoldi. Viene pubblicato da Zona 42, la nuova e coraggiosa casa editrice specializzata in fantascienza di cui è socio l’amico Iguana Jo.
Primo di un ciclo di sei cinque tre romanzi (seguito da un dittico con la stessa ambientazione), è ambientato a Virga, un bizzarro universo artificiale: lo spazio non è vuoto ma è pieno d’aria, e non esistono pianeti, ma soltanto un unico Sole e pochi sparsi frammenti di roccia. Gli esseri umani vivono in edifici che galleggiano nel nulla, si spostano su navi spinte da eliche, e possono sperimentare la gravità solo all’interno di città a forma di ruota che sfruttano la forza centrifuga.
Traducendolo mi sono divertito, e mi è parso un romanzo che può piacere a molti generi di lettore. La trama avventurosa, con pirati, arrembaggi, tesori nascosti e vendette da portare a termine, piacerà sicuramente ai nostalgici della fantascienza di una volta, e l’atmosfera “a bassa tecnologia” sarà gradita ai seguaci dello steampunk. Tuttavia la rigorosità con cui viene descritta la fisica di un universo completamente diverso dal nostro, oltre ad alcuni accenni a questioni di intelligenza artificiale e realtà virtuale, desteranno l’interesse anche di chi ama la fantascienza più “hard”.
Il romanzo è acquistabile, sia in versione cartacea (15,90 €) sia in versione ebook EPUB o MOBI (6,99 €), presso il sito della casa editrice. Le prime copie cartacee sono in spedizione in questi giorni, e dovrebbero essere disponibili anche in alcune librerie selezionate.
UPDATE: Pare che la consegna delle copie cartacee sia stata rimandata di un paio di settimane. Abbiate pazienza! 🙂

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