Coming Soon Enough

Abituato all’Italia, in cui la fantascienza è solitamente vittima di un totale disinteresse sia da parte degli ambienti letterari, sia di quelli scientifici, provo sempre una discreta invidia quando mi accorgo di come altrove sia invece considerata, anche in ambienti serissimi, una valida interlocutrice in grado di dirci qualcosa di importante sul futuro. Un esempio è il progetto Hieroglyph, di cui ho parlato ampiamente altrove, in cui un gruppo di noti scrittori di fantascienza ha provato a  convertire in racconti le idee di vari scienziati, sotto l’egida dell’Università dell’Arizona. Oggi però voglio parlarvi invece di IEEE Spectrum, rivista organo dell’associazione internazionale degli ingegneri elettrici ed elettronici, che accanto a ponderosi articoli di microelettronica, robotica o nanotecnologia non disdegna di tanto in tanto di pubblicare articoli di futurologia che confinano con la fantascienza pura. E che, per celebrare i suoi 50 anni, non ha trovato modo migliore che pubblicare un’antologia di fantascienza.

Coming Soon Enough - copertina

Intitolata Coming Soon Enough (“in arrivo abbastanza presto”), l’antologia è disponibile in ebook e contiene sei racconti di autori noti e meno noti, che avevano come unico vincolo quello di inserire nelle loro storie qualche nuova tecnologia che potrebbe diventare realtà in un futuro non troppo lontano. Queste le opere inserite:

  • Someone to Watch over Me di Nancy Kress parla di un futuro in cui nascondere una telecamera per spiare qualcuno è facilissimo. Il tema di una tecnologia che dà libero spazio agli sguardi altrui non è certamente nuovo nella fantascienza (basti pensare allo splendido Altri giorni, altri occhi di Bob Shaw, o all’inquietante episodio Ricordi pericolosi della recente serie televisiva britannica Black Mirror), ma il racconto di Kress propone un punto di vista psicopatologico sufficientemente insolito da essere interessante.
  • A Heart of Power and Oil di Brenda Cooper è il racconto che mi è piaciuto meno. Il tema tecnologico (un drago volante realizzato attraverso la stampa 3D) era potenzialmente molto interessante, ma viene usato solo come sfondo per una prevedibile storia in cui un adulto si riscatta aiutando un ragazzino a trionfare, che avrebbe potuto svolgersi in qualunque epoca.
  • Incoming di Geoffrey A. Landis affronta un altro tema sfruttatissimo della fantascienza: il Primo Contatto con gli alieni, rivisitato utilizzando i principi scientifici della moderna esoplanetologia. Tipica hard SF: più interessante per le idee che contiene che emozionante in sé.
  • Grid Princess di Cheryl Rydbom è il racconto che presenta il quadro tecnologico più strutturato: è ambientato in un mondo in cui le persone vivono immerse in un flusso di informazioni continuo di cui l’Internet di oggi è solo una pallida antenata, e per alimentarlo è necessario dedicare enormi porzioni del territorio extraurbano alla raccolta di energia solare. Il tutto però è raccontato in modo intimista e poetico, lasciando la tecnologia sullo sfondo. Forse il mio preferito.
  • Water over the Dam di Mary Robinette Kowal parla di tecnologie che renderanno possibile ricavare energia in modo molto più localizzato, rendendo obsolete le grandi centrali. Anche in questo caso però la tecnica resta sullo sfondo, mentre la storia di un’ingegnera costretta a lottare contro un capo maschilista avrebbe potuto svolgersi anche ai giorni nostri (anzi: speriamo vivamente che il nostro futuro sia diverso!).
  • Shadow Flock, il racconto dell’autore più celebre, Greg Egan, è molto più lungo degli altri e si ricollega come tematica alla storia iniziale. Anche in questo caso si parla di privacy messa a rischio dalla tecnologia, con un’ingegnera esperta di droni costretta da una gang di ladri a usare le proprie capacità per carpire informazioni alle vittime di un furto. Egan è un fuoriclasse, e riesce come sempre a descrivere tecnologie future in modo perfettamente credibile. Come in un buon thriller, la tensione sale gradualmente, ed è un peccato che il finale aperto risulti un po’ anticlimactico e “didattico” rispetto alle potenzialità della storia.

Nel complesso, anche se, come quasi sempre accade in questo tipo di antologie tematiche, la qualità dei racconti è disuguale, il livello medio è più che soddisfacente, e tutte le storie offrono spunti interessanti sui nostri possibili futuri. E il prezzo è davvero basso: se sapete l’inglese, potete scaricarla per soli 1,99 $ in versione Kindle o iTunes.

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L'uomo a un grado Kelvin

2060. Dopo essersi assentato misteriosamente, il professor De Ruiters, direttore di un importante centro di ricerca europeo, viene ritrovato congelato a bassissima temperatura all’interno di un macchinario, durante un esperimento pubblico di teletrasporto al Palazzo delle Stelline di Milano. Contemporaneamente, altri tre suoi colleghi si rendono irreperibili. Il detective Dick Watson della Polizia Europea viene inviato a indagare sul caso, scontrandosi subito con la Polizia Lombarda che preferirebbe non averlo tra i piedi. Il caso si rivelerà molto più complicato del previsto, coinvolgendo spie, criminali, hacker, e i segretissimi computer quantistici nel sottosuolo di Parigi…

Da molti anni ormai collaboro alle selezioni per il premio Urania. Di solito evito di parlarne pubblicamente, sapendo come il premio sia una macchina generatrice di polemiche per cui meno si dice e meglio è. Quest’anno però sono molto più coinvolto del solito: non solo la prima lettura dell’opera vincitrice è stata assegnata a me, ma mi sono occupato anche dell’editing e ho realizzato l’intervista all’autore inclusa in appendice. Non riesco perciò a trattenermi dall’esprimere un giudizio, ovviamente del tutto parziale, visto che questo romanzo lo sento anche un po’ “mio”.
E allora vi dico che questo libro, senza nulla togliere ai suoi predecessori, mi è piaciuto in modo particolare. Per tanti motivi. Per esempio:

  • È un ottimo giallo: ha una trama intricatissima e solida, che procede in modo consequenziale senza affidarsi a coincidenze e colpi di fortuna. Niente a che vedere con certi libri in cui la trama investigativa è solo un pretesto per parlar d’altro.
  • Tuttavia gli appassionati di fantascienza non devono storcere il naso: non si tratta di un giallo tradizionale cucinato in salsa futuribile. Tutt’altro: l’ambientazione fantascientifica è originale, coerente e saldamente ancorata alla trama investigativa.
  • Ma il motivo per cui L’uomo a un grado Kelvin mi ha colpito particolarmente è un altro: la competenza scientifica con cui è scritto. Oserei dire che questo è il singolo libro di fantascienza italiana in cui il lato scientifico è trattato meglio, senza alcuna pedanteria ma con mano sicura e senza rifarsi a modelli anglosassoni.

Insomma, senza voler esagerare con gli elogi, è il tipo di romanzo di fantascienza italiana che mi piacerebbe leggere molto più spesso: avvincente, professionale, interessante senza rinunciare a essere divertente. Fatemi sapere se siete d’accordo con me.

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Il prefetto

Più riguardo a Il prefettoLa Fascia Splendente è una colonia umana dove vivono cento milioni di persone, suddivise in diecimila habitat orbitanti intorno a Epsilon Eridani. Ogni habitat ha un proprio sistema politico, ma le decisioni che riguardano la Fascia nel suo insieme vengono prese democraticamente in rete da tutti i cittadini. A vigilare sul rispetto della democrazia e contro le minacce esterne c’è il corpo dei prefetti, la cui giurisdizione è sottoposta a regole rigidissime ma che sono gli unici ad avere il potere di esercitare la forza.
Quando uno dei più piccoli habitat viene distrutto con tutti i suoi 960 abitanti, e la colpa sembra ricadere sugli Ultra, la comunità di cyborg che si occupa dei viaggi interstellari, il prefetto supremo Aumonier decide di affidare l’indagine, politicamente delicatissima, al suo protetto Dreyfus. I due sono legati dall’aver subito entrambi delle ferite durante la lotta contro l’intelligenza artificiale assassina nota come l’Orologiaio. Dreyfus ha perso la moglie, mentre Aumonier si ritrova tuttora con un artefatto piantato nel collo, che da 11 anni le impedisce di dormire e minaccia di ucciderla se chiunque si avvicinerà a meno di sette metri da lei.
Ma nessuno dei due sa che dai risultati dell’indagine dipenderà la sopravvivenza dell’intera Fascia Splendente…

Lo dico subito: erano anni che un romanzo di fantascienza non mi conquistava quanto Il prefetto. Mi ha avvinto fin dalle prime pagine e mi ha tenuto fino alla fine senza un momento di noia e insoddisfazione.
Ritengo che nel romanzo di genere moderno il problema più importante che un autore deve affrontare sia la somministrazione dell’informazione: come e quando si passano dati al lettore. Da questo punto di vista, Il prefetto è semplicemente da manuale: gestisce alla perfezione la trama apparente che vivono i protagonisti, la trama nascosta che devono scoprire, e la trama del passato che sembra messa lì solo per fare background, e invece diventa sempre più importante col procedere della storia. Il tutto senza mai dare informazioni fuori contesto, senza che le azioni dei personaggi perdano una logica, e soprattutto senza mai far calare la tensione, procedendo con un grosso colpo di scena a capitolo per 700 pagine, senza mai far calare il ritmo, con un mix perfettamente equilibrato tra azione, mistero, politica e introspezione. Da applauso.
Non si tratta di un romanzo costruito intorno a concetti scientifici, come potrebbe essere uno di Greg Egan o di Ted Chiang: la struttura della trama è quella di una tradizionale investigazione, la cui posta in gioco è un’umanissima lotta per il potere. Nondimeno, si tratta di un’opera profondamente fantascientifica, nel cui contesto vengono trattati (senza fare lezioncine e senza pretesa di volerli esaurire o risolvere) temi interessanti come lo status di umanità delle intelligenze artificiali, i sistemi elettorali per una democrazia diretta in rete e molti altri, e vengono descritte varie tecnologie insolite e bizzarre. Il background di Reynolds, astrofisico prima di diventare scrittore, si vede nel modo in cui lascia correre la fantasia senza mai cadere nell’implausibile.
(Per vostra informazione: il romanzo è il quinto di una serie, detta Revelation Space dal nome dell’opera iniziale, anche se cronologicamente dovrebbe porsi prima di tutti gli altri. Non ho incontrato però alcuna difficoltà a seguirlo, e credo che ogni opera del ciclo sia leggibile a sé.)
Se dovessi fare un paragone, direi che questo romanzo mi ha dato le stesse sensazioni del capolavoro di Dan Simmons, Hyperion: ci ho trovato la stessa vertigine di complessità che gradatamente si ricompone in un’immagine coerente, e la stessa solidità nel rappresentare una società futura completamente diversa dalla nostra eppure profondamente umana. Nel confronto Simmons vince probabilmente ai punti per avere osato ispirarsi alla struttura dei Racconti di Canterbury, mentre il meno ardito Reynolds prende spunto, semmai, da Il silenzio degli innocenti.
Ciò non toglie che Il prefetto sia di gran lunga tra i migliori è più avvincenti romanzi letti negli ultimi anni. A questo punto non vedo l’ora di leggere qualcos’altro di Alastair Reynolds. Mi giunge voce che molto probabilmente Urania pubblicherà il prossimo anno un altro suo romanzo. Sarebbe bello che arrivassero in Italia prima o poi tutti gli altri dodici che ha scritto…

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Pacific Rim

Nel prossimo futuro, una breccia si apre sul fondo dell’Oceano e cominciano a uscirne enormi mostri alieni asssetati di distruzione. Per contrastarli vengono costruiti gli Jaeger, colossali robot da combattimento. I mostri però diventano sempre più forti e, mentre gli esseri umani fuggono dalle coste, gli ultimi robot si riuniscono a Hong Kong per tentare una disperata resistenza…

Per questo film esistono due possibili recensioni:
Recensione per chi vuole vedere un film di robottoni che si picchiano coi mostri spaziali:
Chiunque sia stato ragazzino negli anni ’80 stava aspettando da oltre trent’anni che arrivasse un film spettacolare e ben fatto coi robot giganti giapponesi accanto ad attori veri. Ebbene, l’attesa è finita. Guillermo Del Toro vi ha preparato un film interamente dedicato ai robottoni.
E quando dico interamente, parlo sul serio: in questo film non vi dovete sorbire insipide storie d’amore, melensi conflitti familiari, o tutta quella roba che nei film tratti dai supereroi Marvel passa per “approfondimento del personaggio” (ma in realtà è fuffa per riempire gli spazi tra un combattimento e l’altro). Qui ci sono solo combattimenti e preparazione ai combattimenti. E stop.
E i combattimenti, inutile dirlo, sono fatti benissimo. Se siete disposti a credere che il modo migliore di affrontare un mostro colossale non sia quello di bombardarlo, bensì di costruire un robot alto centinaia di metri che lo prenda a cazzotti o usi una petroliera come clava per picchiarlo, troverete le azioni estremamente realistiche, comprensibili e coinvolgenti, e i robot degni di tutta la tradizione dei mecha giapponesi.
Menzione speciale per le musiche di Ramin Djawadi, che riescono a rendere alla perfezione l’atmosfera da “colonna sonora di videogioco” senza mai risultare noiose o fastidiose.
Certo, il film qualche difetto ce l’ha. I personaggi sono quasi tutti integralmente stereotipati e, se non ci fossero i due scienziati pazzi e il contrabbandiere di “frattaglie di mostro” magistralmente interpretato da Ron Perlman a portare un po’ di divertimento, il film risulterebbe davvero greve. Inoltre, dal punto di vista della strategia militare, una puntata media di Gundam risulta più convincente di Pacific Rim, dove alcune delle cose che vengono dette non hanno senso, o sembrano supercazzole buttate lì solo per far succedere le cose. (Esempio: a un certo punto i mostri emettono qualcosa che sembra un impulso elettromagnetico, che spegne tutti gli Jaeger. Ma se possono fare una cosa del genere, perché non la rifanno poco dopo, quando sarebbe molto più utile? Ma soprattutto: uno dei robot non va fuori uso, e la spiegazione è che, mentre tutti gli altri robot sono “digitali”, questo è un vecchio modello e perciò è “analogico”. Mi spiegate perché mai un robot gigante costruito tra quarant’anni dovrebbe essere “analogico”, quaunque cosa significhi?)
Ma son piccole cose: se un film riesce a far applaudire la platea a scena aperta quando un robottone tira fuori la spada (è successo quando l’ho visto io), vuol dire che è sostanzialmente riuscito.
Recensione per chi vuol vedere un film di Guillermo del Toro, il regista di Il labirinto del fauno:
Qui cominciano le dolenti note. Se andate a vedere Pacific Rim perché siete fan di un regista che ha sempre mostrato di saper coniugare divertimento e profondità nel proprio cinema, cascate male. Perché questo film è bello da vedere, ma è decerebrato quanto quello di un qualsiasi mestierante hollywoodiano.
E sì che gli spunti non sarebbero mancati. A cominciare da questi mostri vomitati dal profondo della Terra che già nei film di Honda volevano esprimere la paura della contaminazione nucleare (e che qui invece non esprimono un bel niente).
Il problema purtroppo sono i personaggi, talmente monodimensionali che è impossible fargli dire qualcosa. Anche le migliori occasioni vanno sprecate: l’idea per cui i robot sono troppo grandi e complessi per un solo cervello umano, per cui vanno guidati da due uomini in reciproca simbiosi mentale, aveva il potenziale per generare infinite situazioni morbose, conflittuali o stranianti, ma non viene minimamente sfruttata.
In generale, la trama non presenta situazioni interessanti perché mancano avversari interessanti. Non c’è nessun vero conflitto tra gli esseri umani, e l’unico “cattivo” è un pilota che fa il bulletto senza una vera ragione. Mentre i mostri spaziali sono totalmente privi di personalità, e anche quando abbiamo l’occasione di guardare nel loro mondo e nei loro cervelli non scopriamo nulla di inquietante. Non fatemi dire che cosa avrebbe fatto Cronenberg di uno spunto del genere.
I temi politici sono poi del tutto assenti. A parte una frecciata nemmeno tanto convinta contro i politici inetti in generale, è difficile dare una qualsiasi interpretazione politica al tutto. Unica eccezione, la scena in cui la folla, avendo capito che il mostro sta cercando una persona in particolare, le fa il vuoto intorno: efficacissima, ma slegata da qualsiasi discorso.
Insomma, mi spiace deludervi, ma Del Toro ha fatto un film totalmente privo di contenuti. Certo, rispetto a Michael Bay il suo è un cinema molto più raffinato, pieno di riferimenti e citazioni, ed esteticamente molto più bello. Ma la piattezza intellettuale è quasi la stessa e, peccato mortale, non c’è nel suo film assolutamente nulla di spaventoso. È solo un giocattolo.
 
Concludo con alcune note:

  • Se vi state chiedendo che tipo di spettatore sia io, faccio parte della seconda categoria: nonostante infinite visioni di Goldrake, Il grande Mazinga, Jeeg robot d’acciaio , Danguard, Gaiking, Daitarn 3, Gundam e simili, speravo comunque in un film del Del Toro che conoscevo.
  • Non lasciate la sala prima di arrivare a metà dei titoli di coda! C’è una scena che merita.
  • Non ho visto il film in 3D: ho preferito vederlo sotto casa, anche se temo di essermi perso qualcosa.
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L'ambasciatore di Marte alla corte della Regina Vittoria

Sulla Terra sono sbarcati gli alieni del pianeta Marte, che però si sono dimostrati pacifici e disposti a condividere con noi la loro tecnologia. L’amicizia con Marte, però viene incrinata dal misterioso assassinio dell’ambasciatore marziano sulla Terra. A indagare viene chiamato l’abile investigatore Thomas Blackwood, le cui ricerche vanno a incrociarsi con quelle di Lady Sophia Harrington, un’esperta di paranormale che vuole scoprire l’identità del misterioso criminale noto come Jack il Saltatore…

Lo steampunk, il sottogenere della fantascienza che ambienta le sue storie nel passato (di solito nel XIX secolo), però rivisitandolo con l’introduzione di tecnologie differenti da quelle storiche, è di solito piuttosto divertente. Perché però risulti davvero interessante, è necessario a mio avviso che le tecnologie retrofuturistiche non si limitino a essere bizzarre, ma siano un’occasione per riflettere sulla storia della Scienza o su quella del nostro immaginario.
Questto romanzo, il primo di una serie che vede protagonisti gli investigatori Harrington e Blackwood, non è molto rigoroso dal punto di vista tecnologico. Se per alcune cose l’autore, Alan K. Baker, si sforza di inventare tecnologie compatibili con il pensiero ottocentesco, in altri prende delle scorciatoie. Per esempio, i suoi personaggi utilizzano computer che sfruttano spiriti folletti per recuperare informazioni: una trovata divertente, ma più parente del fantasy che di qualunque scienza alternativa.
Il punto di forza di L’ambasciatore di Marte è semmai quello stilistico. L’autore riesce a ricreare piuttosto bene uno stile narrativo ottocentesco, introducendovi però tutta una serie di elementi che provengono da scrittori posteriori, come per esempio Lovecraft. Ed è lo straniamento provocato dal vedere eroi del passato alle prese con avventure moderne a rendere il tutto interessante.
L’autore infarcisce il romanzo di trovate ironiche molto divertenti. Per esempio, il palazzo del Governo marziano che corrisponde al famoso volto osservato dalla sonda Viking I. Oppure il celebre esperimento di Michelson e Morley, che in questo universo, ovviamente, ha confermato l’esistenza dell’etere invece che dimostrare la sua inesistenza.
Il libro indubbiamente si legge di un fiato. Tuttavia l’autore non sfrutta fino in fondo le potenzialità parodistiche dell’universo che ha creato. A differenza di autori come Paul Di Filippo,  che scrive steampunk proprio per prendere di mira la mentalità ottocentesca che ancora alberga in alcuni aspetti della nostra società, Baker finisce con l’adagiarsi negli stilemi dell’epoca invece che scardinarli, conducendo il suo romanzo verso un lieto fine un po’ insipido e prevedibile.
In definitiva, intrattenimento di qualità, scritto con arguzia e mestiere, ma di poca sostanza.

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La luce del sole

Più riguardo a La luce del SoleUna bambina si risveglia, senza alcuna memoria di ciò che le è successo, in mezzo a uno scenario di distruzione. Tutto ciò che sa è che la luce del sole la respinge e che ha una terribile sete. Di sangue…

La luce del Sole (Fledgling) è l’ultimo romanzo scritto da Octavia E. Butler prima di morire, che Fanucci pubblica a otto anni dall’uscita negli USA.
Confesso di non aver mai letto nulla della Butler prima d’ora (una grossa lacuna, lo so, ma non si può leggere tutto!), e perciò mi sono accostato alla lettura con molta curiosità, data l’ottima fama che circonda questa autrice. Purtroppo però sono rimasto deluso: non posso dire se a non essere nelle mie corde sia la Butler o questo romanzo in particolare, però non lo trovo molto riuscito.
Per spiegarvi il perché sarò costretto a fare dei grossi “spoiler” , quindi se non volete che vi guasti qualche sorpresa non leggete oltre (allora però evitate anche di leggere la quarta di copertina, che spiattella molti segreti che invece il lettore dovrebbe apprendere solo gradualmente).
La cosa che mi ha convinto meno del romanzo è proprio la sua idea di base, e cioè che esista una razza, quella degli Ina, il cui comportamento è molto simile a quello dei tradizionali vampiri, ma che non ha nulla di soprannaturale.
Gli Ina per sopravvivere hanno bisogno di bere sangue, preferibilmente umano. La loro saliva contiene delle sostanze che rendono gli esseri umani docili, dipendenti e manipolabili a piacimento. Inoltre la luce diretta del sole provoca loro gravi ustioni, e di giorno cadono in un sonno profondo.
Tuttavia gli Ina non hanno nulla di soprannaturale. Non sono morti viventi, e si riproducono normalmente facendo sesso tra loro (anche se non disdegnano affatto il sesso con gli umani): non è possibile diventare Ina attraverso un morso. Si riflettono negli specchi, non temono i crocifissi, possono essere uccisi dalle pallottole (anche se hanno grandi capacità di rigenerazione). Inoltre tendono a non uccidere gli umani col morso , ma a crearsi un harem di “simbionti” che si lasciano mordere volontariamente per il piacere che ne ricavano.
A me sembra che questa versione dei vampiri tolga praticamente tutto il fascino e il mistero che normalmente si associa con la loro figura. Il morto che ritorna tra i vivi, l’umano che si trasforma in mostro, il soprannaturale, l’intrinseca malvagità, l’essere costretti a uccidere per sopravvivere: tutto quello che ha fatto la fortuna della narrativa vampiresca va perso. E senza guadagnarci nulla in realismo, poiché l’esistenza degli Ina mi pare tanto inspiegabile quanto quella della loro controparte soprannaturale. Sono, parlando francamente, la versione noiosa dei vampiri.
A questo si aggiunge il fatto che il romanzo imbocca tante direzioni senza seguirne alcuna fino in fondo. La parte iniziale è quella che regge meglio: la protagonista ha perso la memoria, sa di essere sopravvissuta a un eccidio, e cerca di capire quale sia la propria natura, che cosa le sia successo e come fare a rimanere in vita. Trovo discutibile il fatto che la protagonista possa ricordare facilmente come si usa un computer, ma abbia dimenticato totalmente tutto ciò che riguarda gli Ina (razza cui appartiene fin dalla nascita). Tuttavia questa parte ha se non altro una discreta suspence, e gira piuttosto bene.
A un quarto di romanzo, però, la protagonista si ricongiunge alla propria razza, dopodiché è tutto un susseguirsi di complicate spiegazioni sui costumi e la cultura Ina. Ho trovato questa soluzione molto pesante: avrei preferito di gran lunga apprendere le loro abitudini vedendole in diretta, piuttosto che attraverso una persona che ha perso la memoria e necessita di spiegazioni per ogni cosa.
Inoltre a questo punto il romanzo prende due direzioni: da un lato la scoperta e la punizione di coloro che hanno commesso l’eccidio, che avvengono molto lentamente ma senza alcun rivolgimento o autentico colpo di scena. Dall’altro c’è il tentativo della protagonista di crearsi la propria comunità poliamorosa di simbionti, un tema potenzialmente molto interessante, ma anche qui a mio avviso non sufficientemente sviluppato: la Butler è piuttosto brava a gestire le psicologie e le reazioni dei personaggi, ma tutto risulta un po’ troppo breve e schematico. Del resto, per descrivere bene un rapporto amoroso che coinvolge una mezza dozzina di persone sarebbe stato necessario dedicargli l’intero libro.
Aggiungo che ho trovato lo stile della Butler a volte prolisso e pedante, con dialoghi e descrizioni che si prolungano oltre il necessario descrivendo minuzie.
Riassumendo, La luce del sole mi è parso interessante soprattutto per le sue tematiche sociali, con una descrizione del funzionamento di una comunità di “vampiri” sicuramente ingegnosa. Nel suo insieme, però, la struttura del romanzo convince poco; si lascia leggere, ma incorre in lungaggini ed inutili complicazioni, e non porta fino in fondo nessuna delle idee che propone.

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Le Brigate Fantasma

Le cosiddette Brigate Fantasma sono formate da soldati artificiali, che dal primo giorno di vita sono pronti a combattere e a obbedire agli ordini. Ma può considerarsi umano chi ha una personalità modellata prima della nascita?

Le Brigate Fantasma è il seguito di Morire per Vivere, nel senso che ha la stessa ambientazione ed è ambientato qualche anno dopo. Tuttavia le vicende dei due romanzi hanno in comune solo alcuni personaggi secondari, e non è quindi necessario leggerli in sequenza.
Recensendo Morire per Vivere, ho scritto di avere due riserve. La prima è che trovo poco credibile che una guerra interplanetaria si combatta con soldati di fanteria, sia pure potenziati. La seconda è che ho trovato troppo fastidiosamente militarista il sottinteso del romanzo, e cioè che l’espansionismo imperialista sia un dato comune a qualunque razza intelligente, e che l’unico modo per sopravvivere sia praticarlo meglio degli altri. Tesi, questa, che trovo criticabile non solo da un punto di vista ideologico ma anche semplicemente logico: l’Universo è straordinariamente vasto, e non si capisce bene per quali risorse dovremmo entrare in concorrenza con altre razze, specie considerato che esseri capaci di raggiungere altre stelle dovrebbero essere anche in grado di tenere sotto controllo la propria popolazione.
Queste riserve rimangono sostanzialmente invariate anche per questo secondo romanzo della serie (sebbene qui esistano degli accenni sul fatto che l’espansionismo terrestre potrebbe essere ingiusto e non necessario, che probabilmente verranno sviluppati negli episodi successivi, ancora inediti in Italia).
Al di là di questo, però, Scalzi si conferma un autore molto dotato, uno dei pochi in grado di scrivere romanzi avvincenti e divertenti, che non richiedono due lauree per essere compresi, ma che comunque pongono interrogativi interessanti.
Dal punto di vista della trama, Le Brigate Fantasma è per certi versi anche più interessante del predecessore. I dilemmi etici che i vari personaggi devono risolvere sono di non facile soluzione, e le svolte della trama arrivano spesso del tutto imprevedibili. Ho letto il romanzo volentieri e praticamente d’un fiato.
Volendogli fare delle critiche specifiche, ho trovato un po’ noiosa la parte dell’addestramento militare del protagonista, dato che non differisce molto da quella vista in Morire per Vivere. Inoltre l’umorismo nero visto nel romanzo precedente qui è un po’ più sottotono.
Ho poi seri dubbi scientifico-filosofici su un aspetto del romanzo, e cioè la possibilità di costruire esseri intelligenti ma privi di coscienza.
Questo tipo di dualismo (quello che Gilbert Ryle chiamava “the ghost in the machine“) è già stato confutato numerose volte (la confutazione più divertente mi sembra quella di Raymond M. Smullyan). Io credo che abbia ragione Daniel C. Dennett quando sostiene che non è possibile avere intelligenza vera senza coscienza.
Del resto lo stesso Scalzi cade in contraddizione quando dice che questi esseri si sentono incompleti e desiderano una coscienza: come può un essere privo di coscienza desiderare qualcosa?
Comunque sia, al di là dei miei molti dubbi, trovo Scalzi un autore interessante e una lettura molto piacevole. Consiglio quindi l’acquisto (anche perché stavolta la traduzione mi è sembrata esente da problemi vistosi).

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Memento – I sopravvissuti

More about Memento

Le Detonazioni hanno trasformato la Terra in un luogo desolato: la civiltà è distrutta, e tutti gli umani sono stati trasformati in esseri deformi, fusi con oggetti, tra di loro e con la terra stessa. Si sono salvati solo i Puri, cioè coloro che abitano un enorme rifugio chiamato la Sfera, e attendono che il pianeta ritorni abitabile. Pressia, una ragazza la cui mano destra è fusa con una testa di bambola, è in fuga per evitare, al compimento dei 16 anni, di essere arruolata a forza nella milizia. Nel frattempo il suo coetaneo Partridge, figlio del leader della Sfera, fugge dal rifugio alla ricerca della madre, dopo aver scoperto che potrebbe essere sopravvissuta e nascosta da qualche parte all’esterno…

La fantascienza sarà pure moribonda, ma deve conservare almeno un po’ del suo appeal se Julianna Baggott, affermata autrice di romanzi sentimentali e per ragazzi, ha deciso di scrivere una distopia postcatastrofica nel segno della fantascienza più classica. Ammetto di essermici accostato con molto sospetto, timoroso di trovarmi di fronte all’ennesimo polpettone sentimentale a sfondo fantastico per adolescenti. Fortunatamente non è stato così: Memento – I sopravvissuti è un libro serio, non sdolcinato (anzi, a dirla tutta alquanto depressivo) e con qualche ambizione. Non è però un libro particolarmente riuscito, per i motivi che dirò.
La cosa migliore del romanzo è l’ambientazione: l’autrice mostra fantasia e abilità nel creare una galleria di personaggi deformi (il mio preferito è El Capitan, che si porta addosso il fratello minore come un doppio inseparabile, una specie di riedizione del Joe-Jim Gregory di Heinlein), destreggiandosi tra uno scoperto simbolismo e il puro gusto del bizzarro.
Il problema è che l’autrice riesce a sfruttare tali atmosfere solo in piccola parte. La trama è molto complicata ma priva di vere sorprese e, pur descrivendo un mondo degradato e violento, sembra sempre fermarsi un passo prima dal risultare autenticamente scioccante. La cosa meno riuscita sono i dialoghi, legnosi e talvolta ingenui. Ma soprattutto, il messaggio di fondo appare troppo scontato, e non va al di là di un generico antiautoritarismo con qualche venatura femminista.
Alla fine il risultato è un né-carne-né-pesce che rischia di non soddisfare nessuno: troppo deprimente per chi cerca il puro intrattenimento, troppo blando e schematico per gli autentici appassionati del genere. Per giunta, il finale è piuttosto interlocutorio: l’autrice intende scrivere altri due volumi prima di concedere agli eroi di compiere il loro destino. Grazie, ma credo che mi fermerò qui.

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Wildwood

More about Wildwood“Come avessero fatto cinque corvi a sollevare un bimbo di dieci chili Prue non lo capiva proprio, ma era certamente l’ultima delle sue preoccupazioni. Se avesse dovuto fare un elenco delle sue preoccupazioni in quel momento, mentre osservava incantata dalla panchina del parco i cinque corvi che portavano via suo fratello Mac, capire come potessero riuscirci era davvero l’ultima della lista.”

Quello che avete letto è l’incipit, davvero entusiasmante, di Wildwood, romanzo fantastico per ragazzi scritto da Colin Meloy, meglio noto per essere il cantante e l’autore dei testi dei Decemberists, e illustrato da sua moglie Carson Ellis.
Apprezzo molto i testi bizzarramente fantastici di Meloy, e appena ho saputo di questo libro me lo sono subito procurato. Quando poi ho letto l’incipit, ho pensato di trovarmi di fronte a uno di quei libri appassionanti che non riesci a mettere giù finché non hai girato l’ultima pagina. Purtroppo però le mie speranze sono andate deluse: dopo i primi capitoli, Wildwood si trasforma rapidamente in una lettura banalotta e piena di potenzialità non sfruttate.
Il problema principale del libro, a mio avviso, è l’ambientazione. La Landa Impenetrabile che si trova subito fuori Portland si rivela infatti un bosco privo di caratteristiche spaventose o  insolite, tranne una: è abitato da animali parlanti. Dato però che questi animali convivono con gli esseri umani e si comportano in tutto e per tutto come loro, la trovata si esaurisce molto in fretta, anche perché l’autore è molto vago nello spiegare come funzioni una società in cui predatori e prede vivono e lavorano fianco a fianco. Per il resto, la Landa è un patchwork di elementi disparati e poco amalgamati tra loro: atmosfere rurali, eserciti armati archi e moschetti, automobili, ville patrizie, templi grecizzanti in rovina, mistici zen… tutto troppo casuale per essere convincente, ma non sufficientemente bizzarro per essere affascinante. E manca, secondo me, la sensazione di essere in un angolo dimenticato dell’Oregon: a parte la presenza di coyote, la Landa potrebbe trovarsi ovunque.
Anche dei personaggi si può dire la stessa cosa: sono tutti piuttosto stereotipati, e nessuno risulta memorabile.  Anche Alexandra, la “cattiva”, è alquanto priva di spessore, anche perché le vicende che l’hanno portata a volersi vendicare del bosco, e che potevano risultare interessanti se bene inserite nella trama,  vengono invece raccontate in modo piuttosto sommario.
Persino la protagonista Prue, che all’inizio promette molto bene, rapidamente cessa di evolversi, dato che le sue caratteristiche di ragazzina moderna e volitiva alle prese con un mondo fuori dalla sua esperienza finiscono in secondo piano, poiché la trama non le dà occasioni per tirarle fuori. Non ci sono enigmi da risolvere, e nemmeno dilemmi etici da superare. Quasi tutto il romanzo si riduce a una sequela di inseguimenti e battaglie (e lascia anche un po’ perplessi questa enfasi sul valore guerresco, con ragazzini dodicenni che combattono e uccidono).
Non si può dire che il libro sia brutto, e immagino che un ragazzino possa apprezzarlo, ma a mio avviso i libri per ragazzi migliori sono quelli che anche un adulto può leggere, e io mi sono discretamente annoiato, nonostante io sia un discreto consumatore del genere, da Harry Potter a Bartimeus. Nel complesso non me la sento di consigliarlo.

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In fondo il buio

Worlorn è un pianeta vagabondo, diventato abitabile solo per pochi anni in occasione del suo passaggio accanto a una supergigante rossa. Le popolazione umane dei Sistemi Esterni lo hanno scelto come sede di un grande Festival, ma ormai il pianeta è stato abbandonato e sta per ritornare nel buio. Quando Dirk, seguendo il richiamo di un antico amore, arriva su Worlorn, lo trova abitato da poche decine di persone, tra cui gli appartenenti a una civiltà imbarbarita il cui  codice d’onore lui non riesce a comprendere, e che potrebbe metterlo in pericolo…

Il colossale successo, anche italiano, della serie televisiva Game of Thrones ha affollato le librerie di lettori in crisi di astinenza da opere di George R. R. Martin. Il quale, prima di cimentarsi nella smisurata saga A Song of Ice and Fire da cui la serie e tratta, aveva già alle spalle vari decenni di carriera come autore (non solo di fantasy, ma anche di fantascienza e horror). A prendersi il compito di riportare in libreria le vecchie opere di Martin è la benemerita casa editrice romana Gargoyle, che dopo l’horror Il battello del delirio pubblica ora il romanzo di esordio di Martin, il fantascientifico In fondo al buio (il prossimo sarà il thriller di ambientazione rock con elementi fantasy Armageddon Rag).
Il romanzo è uscito nel 1977 col titolo Dying of the Light, ed è già stato pubblicato in Italia da Armenia e poi da Fanucci col titolo La luce morente. Gargoyle lo ripropone in una nuova traduzione di Tarallo e Tintori; non so come fossero le precedenti, ma questa versione mi pare di buona qualità, e non ho riscontrato problemi (io avrei tradotto in italiano i nomi con un significato inglese, come Challenge, Ironjade ecc., ma è questione di gusto personale). Da criticare invece i troppi refusi e il titolo, decisamente meno evocativo ed elegante rispetto al precedente (e poi, a mio avviso, non si dovrebbe cambiare il titolo di un libro già edito, se non per ottimi motivi).
Ho detto che In fondo il buio è un libro fantascientifico, ma è vero solo fino a un certo punto. Lo è in quanto ambientato in un plausibile futuro dell’umanità, senza magia e affini; tuttavia la storia sfrutta pochissimo gli elementi tecnologici, e avrebbe potuto essere ambientata anche in un universo fantasy facendo pochissimi cambiamenti. Peraltro i riferimenti scientifici, anche se scarsi, sono ben curati (¹).
Sostanzialmente i punti di forza di In fondo il buio sono due. Il primo è l’ambientazione: Worlorn è uno scenario affascinante. Martin non ci sommerge di dettagli come farebbero altri autori, e molto resta indeterminato, ma ci dà tutte le informazioni necessarie perché possiamo percepirlo come un mondo con una sua identità e che sta lentamente ma inesorabilmente morendo. Anche le descrizioni delle città abbandonate, ciascuna con le peculiarità della razza che l’ha costruita, sono affascinanti. In particolare Kryne Lamiya, la città musicale che canta incessantemente la vanità del tutto, è un’invenzione degna del miglior Ballard.
Il secondo punto di forza è l’interazione tra i personaggi. Già agli esordi Martin aveva la dote che gli ha permesso di ottenere tanto successo con le Cronache del ghiaccio e del fuoco, e cioè la capacità di creare personaggi non stereotipati, con personalità complesse e credibili. In Martin non esistono figure positive e negative, ognuno ha i propri limiti e le proprie motivazioni con cui il lettore può empatizzare, tutti commettono errori, e spesso non è facile determinare chi abbia ragione e chi torto. Il risultato è una trama avvincente e imprevedibile.
In fondo il buio è la storia di un uomo che, avvicinandosi alla vecchiaia, si trova a vivere su un pianeta che è la perfetta metafora della vanità dell’esistenza umana, e deve affrontare la prospettiva della morte e dell’oblio nella consapevolezza di non aver raggiunto i propri obiettivi e di non essere stato all’altezza di ciò che voleva diventare. Nel confrontarsi con la cultura retrograda e ostile di Alto Kavalan, Dirk troverà nuovi modi per definire se stesso, e ne uscirà cambiato in modo sorprendente, anche se il finale del tutto antitrionfalistico lo lascerà comunque pieno di dubbi ad affrontare un destino incerto.
Nel complesso il libro è una lettura molto piacevole e non risente dei suoi 35 anni di età. È un ottimo esempio di come si possa costruire un romanzo con una notevole dose di azione in modo non banale e con personaggi ricchi di spessore. Non arrivo a definirlo indispensabile (il suo difetto principale: è un po’ troppo monotematico), ma chi apprezza Martin e la sua abilità nel distillare psicologie può acquistarlo a colpo sicuro. Lo sconsiglierei unicamente a chi apprezza solo il lato tecnologico della fantascienza e a chi ama i ritmi concitati (è un romanzo a lenta combustione: prima che i conflitti tra i personaggi si scatenino deve trascorrere quasi metà della trama). In ogni caso grazie a Gargoyle per riportare in libreria gemme dimenticate della fantascienza (il mese prossimo sarà il turno di Città delle Illusioni di Ursula K. LeGuin.).
 
(¹): Per esempio, ho molto apprezzato che la descrizione del sistema di sette stelle che Worlorn ha sfiorato rispetti la meccanica celeste: i sei soli più piccoli che circondano la supergigante ruotano tutti sulla stessa orbita a 60° l’uno dall’altro, occupando i rispettivi punti lagrangiani, e quindi il sistema è intrinsecamente stabile. La cosa non ha alcuna importanza per la trama e può essere colta solo da chi conosce la meccanica spaziale, ma è il tipo di dettaglio che mi fa stimare l’autore.
Vale anche la pena di notare, anche se Martin non poteva saperlo quando scrisse il romanzo, che i pianeti vagabondi come Worlorn potrebbero essere estremamente comuni nella nostra Galassia. Secondo un recente studio del professor Chandra Wickramasinghe potrebbero essere più numerosi delle stesse stelle.

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