OUIJA

Racconto di Marco Passarello

Questo racconto, pubblicato nell’antologia “Fanta-Scienza 2” è finalista al premio Italia nella categoria “racconto su pubblicazione professionale”

“Sentite, ma se capitasse a voi, la vorreste avere un’ouija?”

Il pensiero arrivò chiaro e forte nello spazio comune. Forse era di Stan? Di solito era Stan il primo che emergeva con un pensiero definito dal mare di sensazioni vaghe con cui iniziava la connessione collettiva.

“Io i miei pensieri preferirei tenermeli per me, compresi gli ultimi, grazie! Se dipendesse da me non sarei nemmeno qui adesso a sentirmi in testa le vostre cazzate.” Quella era Mara, ovviamente. Lo diceva sempre che connettersi con gli altri membri della squadra prima di uscire in combattimento non le piaceva. Adesso che la conversazione mentale si stava animando, però, diventava difficile associare ai soggetti i tanti pensieri accavallati.

“Non hai qualcuno a cui ti piacerebbe lasciare un segno di te dopo morto? Voglio dire, se crepiamo di sicuro i nostri corpi non torneranno a casa…”

“Ma la finite con questi discorsi tirasfiga?! La connessione dovrebbe servire a creare spirito di corpo, non a deprimerci tutti, cazzo!!!”

“Io se ce la lasciassero usare la vorrei, sì! Avete sentito la storia di quel pompiere che è morto nell’incendio di Toronto? Era in rotta con la moglie, ma le ha lasciato un’ouija in cui le chiedeva perdono. La moglie si è commossa e ha voluto un figlio suo dopo la morte…”

“Bella stronzata. Invece delle storie sdolcinate delle news dovreste ascoltare quelle che circolano sui social, che sono un po’ diverse. Forse allora vi passerebbe la voglia.”

“Tipo?”

“Tipo: ho sentito di due del gruppo che ha attaccato le Kurili tre anni fa. Uno ha il presentimento che non tornerà, e insiste con l’altro per fare un patto: se uno dei due muore, l’altro si impegna a portare la sua ouija alla moglie. Solo che così gli tira un po’ di sfiga…”

“Io continuo a ripetervelo che questi discorsi tirano sfiga, ma voi non mi date retta…”

“…sì, insomma, perché alla fine non muore quello del presentimento, ma l’altro. Si becca in pieno un missile da un drone e ci resta. A quel punto il tizio si sente tenuto a rispettare il patto. Recupera l’ouija dal relitto del mech dell’amico, si prende un congedo, torna in patria, va a cercare la moglie del morto e le consegna la registrazione. Il coglione gliela dà senza neppure sentirla, sono cose private, dice. La moglie si collega all’ouija, e si incazza come una iena. Perché a quanto pare il tipo, subito prima di crepare, non stava pensando alla moglie, ma all’amante!”

Ilarità generale, i pensieri si accavallavano e poi sembrarono fondersi in ondate di rilassatezza e cameratismo. C’era persino qualche immagine fugace, che riusciva a superare per qualche istante il filtro che limitava la condivisione delle menti ai pensieri consci e volontari. Non era per la conversazione, era per queste vampate di unificante emozione collettiva che era utile connettersi prima della missione. Finché tutto non si interruppe bruscamente.

“Molto interessante, però ora vi dico due cose. Primo: vi ricordo che le ouija sono vietate. Le regole le conoscete. Se uno di voi se ne fa trovare una nel mech, gli trattengo metà della paga oltre a fargli un culo così. Secondo: è ora. Interrompete la connessione, agganciate i vostri cervelletti vuoti ai mech, e seguite il piano prestabilito.”

Quella era Kyra. Era implicito nell’ordine dato, ma l’avrebbe riconosciuta comunque: i suoi pensieri trasudavano sempre autorità e minaccia, qualunque fosse l’argomento. Miki si scollegò immediatamente, terrorizzato che la comandante potesse leggergli nel pensiero e scoprire il suo segreto: lui un’ouija l’aveva installata.

Erano andati insieme dal tipo che le vendeva, lui, Ben e Maurice. Avevano sborsato una cifra invereconda e si erano fatti spiegare come installarla tra i circuiti del mech e l’interfaccia cervello-macchina, in modo che non fosse visibile senza smontare tutto quanto. “Non se ne accorgerà nessuno”, si erano detti, e ora Miki si chiedeva fino a che punto fosse vero. Si domandò anche quanto fosse probabile, nel caso fosse morto davvero, che Ben e Maurice gli sopravvivessero e uno dei due si prendesse la briga di andare a recuperare la capsula con i dati. A quel pensiero la strettissima cabina di pilotaggio del mech gli sembrò ancor più simile del solito a una bara. Meglio non pensarci. Si sistemò bene in testa il casco con gli elettrodi, e diede l’ordine mentale di connessione.

L’elefante giaceva nella polvere come un enorme giocattolo sgonfio. L’unico occhio visibile era spento e fissava il vuoto. Sopra l’occhio un foro netto, gocciolante poche stille di sangue bruno, indicava il punto di entrata del proiettile che aveva ucciso il colosso. La proboscide, protesa di fronte al muso, abbracciava il corpo di un essere umano, come se il suo ultimo pensiero fosse stato quello di proteggerlo, o di trovare una rassicurazione cercandone il contatto fisico. Ma anche l’umano era morto, insanguinato e irrigidito in una posa grottesca.

La camera indugiò ancora per qualche secondo sui due corpi, poi l’immagine cominciò a dissolversi mentre il broadcast cerebrale terminava. Togliendosi la cuffia con gli elettrodi per la trasmissione mentale, Fabrizio si chiese se avesse fatto bene a chiudere la sua presentazione con quella foto. Di certo era eloquente: l’uomo e l’elefante uniti nella morte rendevano alla perfezione il sentimento di armonia violata che qualunque persona dotata di sensibilità avrebbe dovuto provare di fronte all’attacco alla riserva di Fidia. Si chiese però che impressione avrebbe potuto fare a giudici anziani ed esperti, che trattavano d’abitudine casi di quel genere. Il rischio era che non solo non ne rimanessero impressionati, ma lo percepissero come un ingenuo tentativo di manipolazione. Non era un buon segno che il giudice van der Berg fosse uscito dall’aula durante la trasmissione, anche se presumibilmente aveva continuato a seguirla. Lo osservò mentre tornava al suo scranno per riprendere l’udienza, sperando di cogliere dai movimenti qualche indizio sulle sue reazioni. Ma se le immagini lo avevano colpito non lo dava proprio a vedere: attraversò l’aula con il passo sicuro e spensierato di un ventenne. Deve avere un esoscheletro sotto gli abiti, si disse Fabrizio: a ottantacinque anni suonati nessuno cammina così. Si chiese se la chioma di capelli grigio ferro fosse una parrucca per nascondere la cuffia con gli elettrodi che gli permettevano di comandarlo col pensiero, o se invece se li fosse fatti impiantare direttamente nella scatola cranica. Forse…

“Avvocato?”

“La ascolto, giudice.”

“Le stavo dicendo: la ringraziamo per aver esaurientemente riassunto gli eventi di cinque anni fa. Ora però veniamo al punto: lei ha ricordato che all’epoca nessuno dei partecipanti al raid fu catturato vivo, non ci furono superstiti, e non fu possibile recuperare alcun indizio sui mandanti della strage. Quali sono, quindi, le nuove prove che consentirebbero di riaprire il caso?”

“Ci arrivo subito, giudice. Le nuove prove derivano da una perlustrazione ad ampio raggio finanziata dal marito della dottoressa Gustafsson, una delle vittime della strage, nel tentativo di individuare i mandanti. Questa ha portato alla scoperta, lo scorso 27 novembre, del relitto di uno dei mech usati nel raid. All’interno c’era il cadavere dell’uomo che lo pilotava. L’esame del DNA ne ha rivelato l’identità: si tratta di Miki Mair, mercenario di origine austriaca, di cui effettivamente non si avevano più notizie dall’epoca del raid. A quanto sembra, l’uomo è rimasto ferito in circostanze non chiare, forse per fuoco amico. Si è allontanato ed è andato a nascondersi nella boscaglia col suo mech a diversi chilometri di distanza, ma è deceduto per le ferite riportate.”

“Lei stesso, avvocato, ha detto che i mech che hanno partecipato al raid erano stati accuratamente privati di ogni segno identificativo e che tutte le memorie digitali erano criptate. Questo faceva eccezione?”

“In un certo senso sì, giudice. Questo mercenario aveva trasgredito alle norme di sicurezza che gli avevano imposto, installando quella che nel gergo militare si chiama un’ouija.”

“Un’ouija? Di cosa si tratta?”

“Il nome deriva dalle OUIJA board, le tavolette usate nelle sedute spiritiche per parlare con i morti. Si tratta di un dispositivo che mantiene in memoria gli ultimi pensieri registrati dall’interfaccia uomo-macchina del mech. Chi l’ha concepita è convinto che in questo modo un soldato ucciso sia in grado di inviare, in un certo senso, un messaggio da oltre la morte. Qualcosa che i suoi cari potranno riprodurre in sua memoria.”

“Davvero questo sistema funziona?”

“Non è chiaro. L’installazione è vietata da tutti i regolamenti militari perché rischia di rendere disponibili al nemico informazioni sensibili. Si raccontano aneddoti al riguardo, ma chi ne ha usufruito non ha interesse a rendere pubblica la cosa. Tuttavia per la Corte questo ha un’importanza relativa. Anche se il mercenario defunto non fosse riuscito a utilizzare l’ouija per inviare un ultimo messaggio ai vivi, il dispositivo ha comunque registrato alcuni suoi pensieri. Dalla cui analisi esiste la possibilità di estrarre indizi sui mandanti del raid. Chiedo quindi che l’ouija estratta dal relitto venga acquisita agli atti come prova, e che venga autorizzata un’analisi del contenuto.”

“È stato chiarissimo, avvocato. Purtroppo questo Tribunale non può accogliere la sua richiesta.”

“Come?!” Fabrizio era rimasto talmente sorpreso da dimenticarsi di rivolgersi al giudice con l’abituale formula di cortesia. Van der Berg non diede segno di averlo notato.

“Abbiamo appena ricevuto una richiesta da parte dell’Associazione per la Protezione del Pensiero. In base alla Dichiarazione sull’Inviolabilità della Mente, votata il mese scorso dall’ONU, e quindi riconosciuta anche da questa corte, si richiede che da tutti i procedimenti siano escluse le prove ottenute attraverso la lettura o la registrazione dei pensieri senza il consenso degli interessati. Sono incline ad accogliere la richiesta, che mi pare legalmente fondata. Pertanto aggiorno il processo alla prossima udienza, che si terrà tra un mese. Per allora, avvocato, dovrà essersi procurato altre prove che consentano di riaprire il caso, oppure essere in grado di presentare fondate ragioni per cui il tribunale dovrebbe fare un’eccezione e ammettere questa prova. Tenga presente che l’Associazione manderà un rappresentante legale a sostenere il suo punto di vista. Buona giornata, la seduta è tolta.”

Il portellone del container si apri sulla tranquillità della notte africana. Miki avanzò con cautela per evitare di urtare le pareti metalliche, poi si alzò in piedi. Era lo stesso spiazzo che aveva visto di giorno, quando era arrivato: uno pseudocantiere semiabbandonato, ovunque segni di pneumatici nella polvere, uno scavo lasciato a metà, container sparpagliati a casaccio come cubi giocattolo abbandonati da un enorme bambino. Il luogo perfetto dove assemblare un piccolo commando di mech senza che nessuno se ne accorgesse.

Ora però vedeva tutto diversamente. Rispetto ai suoi ricordi il mondo si era rimpicciolito, ma era anche divenuto in qualche modo più reale, aveva acquistato maggiore definizione e profondità. Guardandolo attraverso gli occhi robotici del mech riusciva a vederlo a trecentosessanta gradi, e nello stesso tempo a cogliere dettagli minuscoli come le macchioline di ruggine sul metallo dei portelloni. Era notte, ma grazie agli amplificatori di luminosità lo vedeva quasi come se fosse giorno.

Fece un primo passo avanti e si inebriò della sensazione di potenza che gli dava indossare quel corpo robotico. Sì, perché quando era connesso era quello il suo corpo, possente e metallico, e non aveva cognizione della carne e del sangue che giacevano immobili in quella che ora percepiva come la sua pancia. Qualche altro passo e cominciò a inoltrarsi nella boscaglia, facendosi largo tra gli alberi come se fossero erbacce. Si ricordò che era per quello che era lì. A differenza di molti suoi compagni non amava sparare e uccidere. Ma essere dentro un mech, quello sì. Qualunque altra cosa passava in secondo piano.

Regolò la velocità. Sarebbero arrivati nei pressi dell’obiettivo alle prime luci dell’alba. Solo allora Kyra avrebbe rivelato alla squadra cosa dovevano fare.

Il locale era un trionfo di mogano e palissandro. Appena entrati si sentiva il profumo di antico dei legni esotici mescolarsi a quello dei liquori. La clientela si beava dell’atmosfera, fingendo di non sapere che tutto era stampato in 3D in modo da simulare alla perfezione il look and feel del mobile d’epoca, inclusi i graffi, i cerchi di bicchiere sovrapposti e le bruciature di sigaretta sulla superficie dei tavoli. Fabrizio si guardò intorno, cercando di capire chi fossero i frequentatori. L’ispezione lo rassicurò: gran parte degli avventori era immersa in silenziose conversazioni private a due o a tre, gli sguardi resi vacui non dall’alcool, ma dal flusso di comunicazioni da cervello a cervello mediato dalle interfacce digitali. L’incontro che aveva in programma non avrebbe dato troppo nell’occhio.

Gudrun lo aspettava seduta a uno dei tavoli più appartati. Fabrizio si era organizzato per arrivare con cinque minuti di anticipo, eppure lei non solo lo aveva preceduto, ma aveva anche già ordinato due drink identici, bicchieri alti contenenti un liquido di colore indefinibile, erbe non identificate e una bacchetta di vetro per mescolare. Doveva avere colto lo sguardo sospettoso di lui perché, dopo avergli rivolto un gran sorriso e avergli fatto cenno di sedersi, gli disse: “Ciao Fabrizio! Spero che mi perdonerai se ho ordinato anche per te. Ho un’udienza tra due ore e devo rivedere alcuni dettagli, per cui non ho molto tempo. Ma non preoccuparti, è il loro cocktail migliore, è buono davvero! Dai, colleghiamoci subito e cominciamo!”

Fabrizio fece cigolare orribilmente la sedia pseudoantica spostandola con una mano sola, mentre con l’altra cercava goffamente in tasca la cuffia con gli elettrodi. Lei non ne aveva bisogno: tra i capelli biondi perfettamente acconciati portava una specie di tiara di metallo argentato, un piccolo capolavoro di design che nascondeva gli elettrodi in modo elegante ma funzionale. Fabrizio si chiese quanto costasse un oggetto del genere, e quanto apparisse goffo lui con in testa la cuffia sgraziata acquistata a casaccio all’aeroporto quando la precedente lo aveva lasciato a terra, e che non si era più curato da sostituire. Si sentì prendere dallo sconforto. Non vedeva Gudrun dai tempi dell’università, e già allora gli sembrava appartenere a un livello diverso, cui lui non avrebbe mai potuto aspirare. Quando si era reso conto che una degli avvocati dell’Associazione per la Protezione del Pensiero era una ragazza con cui aveva goffamente flirtato quando era matricola, aveva sperato che questo gli desse un appiglio insperato per raggiungere un accordo. Ora che era venuto al dunque, però, aveva la sensazione opposta: che non sarebbe mai riuscito a farsi prendere sul serio. Ma ormai era tardi per cambiare idea: fece un respiro profondo, e avviò la connessione.

La connessione mentale diretta gli faceva sempre un’impressione strana, un po’ come ammucchiarsi con degli estranei in un ascensore molto stretto. Aveva dovuto adeguarsi, dato che ormai da diversi anni era diventata la modalità standard delle conversazioni ufficiali e d’affari, in quanto permetteva di evitare ambiguità e fraintendimenti. Però non si era mai sentito a suo agio: quell’intimità forzata lo metteva in imbarazzo. Anche se in teoria il filtro lasciava passare solo ciò che consciamente si voleva proiettare verso l’interlocutore, in pratica si percepiva sempre anche altro, sprazzi frammentari che lasciavano intuire i processi mentali altrui. Lui odiava l’idea che qualcuno potesse sbirciargli nella mente, ma c’era chi non aveva di questi problemi. All’università si sussurrava che Gudrun fosse tra quelli che avevano provato a fare sesso mantenendo la connessione attiva e il filtro disattivato… unione totale, dicevano. Ecco, e se lei avesse percepito che lui stava pensando a quello?! Meglio lasciar perdere e partire col discorso.

“Gudrun, vengo subito al punto. Sto cercando di far riaprire un caso molto importante: quello del raid contro la colonia di Fidia. Ricordi senz’altro di cosa si tratta: un commando meccanizzato ha attaccato la stazione di ricerca all’interno dell’unico territorio in cui si sta sperimentando una forma di autogoverno degli elefanti. Hanno ucciso tutte le persone, umane ed elefantine, che si trovavano nell’area. Nessuno è sopravvissuto. Quasi tutti gli assalitori sono rimasti vittime del contrattacco delle forze governative. Qualcuno è riuscito a fuggire, nessuno è stato catturato, rimangono ancora in gran parte oscure le ragioni del raid, sono del tutto ignoti i mandanti. Ora io credo di avere una possibilità di inchiodare i responsabili di uno dei peggiori crimini di questo secolo. Ma per riuscirci devo trovare il modo di accedere ai pensieri registrati di uno degli esecutori. Come puoi percepire, non ho alcun interesse a indebolire l’efficacia della Dichiarazione sull’Inviolabilità della Mente. Ma in un caso del genere, in cui da un lato la mente da tutelare è ormai scomparsa, e dall’altro c’è un crimine di estrema gravità, credo che…”

“È escluso.”

“Gudrun, io penso che dovreste considerare…”

“Fabrizio, se avessi saputo che volevi chiedermi questo non ti avrei fatto sprecare tempo per incontrarmi. Non pensare che io sottovaluti l’importanza di quello che stai facendo, tutt’altro. Ma la prevenzione dei crimini futuri è più importante della punizione di quelli ormai compiuti. Io percepisco quanto tu sia coinvolto, ma credo che anche tu possa percepire che non è per un puntiglio da legulei che ti dico di no. Ho ricevuto testimonianze sui crimini già commessi attraverso le interfacce cervello-macchina, e sono devastanti. La Dichiarazione di Inviolabilità sarà solo un piccolo argine a tutto questo, e non possiamo indebolirlo. Non possiamo far passare il principio che i pensieri umani possano essere violati, se c’è un buon motivo. Sono sicura che anche tu te ne renda conto. Dovrai trovare un altro modo per raggiungere il tuo obiettivo. E non dubito che ce la farai. Sei uno bravo.”

Muovo un lento passo avanti, e mi godo la sensazione del suolo che cede sotto il mio peso enorme.

Nel momento in cui sento che mi sorregge, sono tutt’una con la terra, mi inebrio della sua canzone.

Mi parla di miei simili lontani, troppo distanti per essere visti ma le cui voci profonde mi accarezzano i piedi.

Sento i loro messaggi rassicuranti e rispondo a mia volta, faccio vibrare il mio diaframma con la stessa voce grave.

So che tra poco percepirò le loro risposte, e saprò esattamente dove si trovano e dove stanno andando.

E mentre sono completamente immersa nel mio essere elefante, dalla mia mente emerge una domanda.

“Cosa si prova a essere un pipistrello?”

Se lo chiedeva un filosofo prima che io nascessi. Intendeva esprimere un paradosso.

Per lui era evidente che solo un pipistrello avrebbe potuto rispondere in modo sensato a questa domanda.

E che la risposta sarebbe stata comprensibile solo a un altro pipistrello.

Eppure, in questo momento io so cosa si prova a essere un elefante.

Almeno, credo di saperlo.

Di certo so molte cose che quel filosofo non aveva modo di conoscere.

So cosa si prova a gravare sulla savana con sei tonnellate di peso.

So cosa si prova ad ascoltare con le mie zampe possenti le vibrazioni del terreno, e per loro tramite capire dove si trovano i miei simili a grande distanza.

So cosa si prova ad avere una proboscide che è insieme naso bocca mano braccio e tante altre cose

Lo so in modo così profondo che quando mi scollego e torno a essere donna a volte ne sento acutamente la mancanza.

So cosa si dicono tra loro gli elefanti, ho imparato il loro linguaggio che non è fatto solo di suoni, è pieno di sottigliezze che gli esseri umani non riescono ad afferrare, e che nessuna lingua umana potrebbe tradurre.

Certo, qualcuno potrebbe sostenere che sapere tutte queste cose non equivale a sapere cosa si prova a essere un elefante.

Potrebbe dire, per esempio, che un elefante a passeggio nella savana non si chiederebbe mai cosa si prova a essere un pipistrello.

E su questo avrebbe forse qualche ragione, sebbene dopo averli studiati a lungo mi sia resa conto che non c’è limite a quanto il comportamento di un elefante possa sorprendere.

In effetti non potrei negare di sapere tante cose che nessun elefante sa.

Per esempio so come funziona questa curiosa rete piena di minuscoli elettrodi.

L’abbiamo delicatamente avvolta intorno al cranio dell’elefantessa che abbiamo battezzato Fiona.

(Il suo nome elefantino è un suono che gli esseri umani non sono in grado di pronunciare.)

La rete mi permette di condividere tutto ciò che prova Fiona, e di fondere parzialmente la mia mente con la sua.

(Questo mentre il mio corpo umano è disteso immobile in una baracca del campo base con addosso un casco.)

Grazie a questa cuffia posso fare tante cose che un elefante normalmente non può fare.

Per esempio comunicare con Bernie la bufaga, l’uccellino che ogni tanto mi cammina sulla schiena.

Anche lui ha una cuffia di elettrodi in testa, molto più piccola, che gli ho messo io.

Bernie a volte passeggia sulla mia schiena e mi libera gentilmente dagli insetti che mi infastidiscono.

(A volte per la verità mi infastidisce lui, succhia il sangue dalle mie piaghe, ma lo lascio fare perché gli voglio bene.)

Se voglio posso ascoltare i pensieri di Bernie e vedere coi suoi occhi.

(E sicuramente nessun elefante è mai riuscito a vedere la propria schiena come faccio io quando la vedo con gli occhi di Bernie!)

Però sono convinta che fondendo la mia mente con quella di Fiona riesco ad avvicinarmi molto a sapere cosa si prova a essere un elefante.

Persino i miei pensieri assumono un ritmo diverso, più elefantino.

Certo, questo modo di conoscere può avere anche svantaggi.

Posso trovarmi a provare sensazioni che preferirei evitare.

Sensazioni da cui la civiltà umana mi ha sempre schermato.

La fame, il dolore, la paura, il disgusto, nelle loro forme più pure.

Ma non mi sono mai sottratta, le ho fatte mie e ho imparato qualcosa.

In questo preciso momento però, per la prima volta, vorrei sottrarmi.

Le sensazioni che provo sono orribili, qualcosa che non avrei mai voluto sperimentare, nemmeno per curiosità scientifica.

Le vibrazioni che assorbo con le mie zampe sono quelle dei passi di orribili giganti metallici all’attacco.

Sono quelle di esplosioni che fanno tremare la terra tutto intorno.

Percepisco l’angoscia e il dolore dei miei amici umani ed elefantini.

Impazzisco dal terrore, la mia mente umana non riesce a mantenere il controllo.

Viene violentemente strappata dal mio corpo di elefante.

È questo morire?

Jean-Claude Dupuis accolse il resoconto di Fabrizio quasi senza batter ciglio. Si limitò ad annuire aggrottando le sopracciglia, come se mentalmente avesse già archiviato la brutta notizia e stesse pensando alla mossa successiva. Fabrizio avrebbe preferito di gran lunga che avesse dato in escandescenze o si fosse disperato. Come del resto sarebbe stato normale aspettarsi da una persona che, dopo aver impiegato cinque anni del proprio tempo e tutte le proprie risorse a cercare un indizio che conducesse a chi aveva ingaggiato gli assassini di sua moglie, aveva appena saputo che l’unico risultato ottenuto era probabilmente inutilizzabile. Invece Dupuis se ne stava di fronte a lui con la mesta, tranquilla attenzione di chi ha già ricevuto dalla vita il colpo più doloroso possibile, e pertanto è in grado di sopportare ogni ulteriore insulto senza batter ciglio, cosa che faceva sentire Fabrizio orribilmente in colpa. Quando il marito della dottoressa Gustafsson lo aveva avvicinato per chiedergli quale fosse il modo migliore di agire dopo aver trovato il relitto del mech e l’ouija, lui gli aveva fortemente consigliato di attenersi alla legalità e di consegnare il reperto al Tribunale Internazionale senza alterarlo, per avere la certezza che le prove rimanessero valide. Aveva accettato con entusiasmo di perorare di fronte al Tribunale la riapertura del processo. Avrebbe fatto meglio a consultare prima un collega esperto di diritto noetico, il quale forse gli avrebbe fatto notare che l’imminente entrata in vigore della Dichiarazione sull’Inviolabilità della Mente avrebbe creato problemi. Era stato arrogante, aveva visto l’occasione di farsi un nome con un caso che aveva scosso l’opinione pubblica e non aveva valutato i rischi…

“Abbiamo un mese di tempo per elaborare una soluzione, ma ho sondato gli avvocati dei protezionisti del pensiero e non ho trovato appigli. Il nostro sarà il primo processo in cui la Dichiarazione si applicherà a un caso concreto, e temo che la Corte non vorrà indebolirla creando fin da subito un precedente negativo. Per cui sono costretto a dirle che… che..”

“Possiamo fare un tentativo diverso” lo interruppe Dupuis, fermando con un gesto il suo tentativo di giustificarsi.

“Un tentativo? Di che… genere?”

“C’è un’altra cosa che è emersa dalle ricerche a Fidia. Finora non gliene avevo parlato, perché è una situazione talmente bizzarra che temevo mi avrebbe messo in cattiva luce se le avessi chiesto di sfruttarla. Ma al punto in cui siamo, sono disposto a fare anche questo tentativo. Però richiede di andare sul posto, in Africa”. Dupuis lo fissò con quei suoi occhi colmi di tristezza. “Lei è disposto ad aiutarmi?”

Fabrizio valutò rapidamente la situazione. Si trattava di lasciare l’Aia, mollare tutto quello di cui si stava occupando e andare in Tanzania, per un tempo indefinito, a raccogliere prove che persino il suo cliente riteneva improbabili, e che gli avrebbero fatto fare la figura dell’idiota di fonte alla Corte. In pratica di scavarsi la fossa a livello professionale. Improponibile.

“Certamente, signor Dupuis. Partirò il prima possibile. Mi spieghi tutti i dettagli, poi prenoterò un aereo”.

A volte succedeva che ci andassero di mezzo i civili. Non ci si poteva fare nulla, Miki se l’era ripetuto in più di un’occasione quando aveva visto cadere qualcuno che aveva avuto la sfortuna di trovarsi nel mezzo di un’operazione. Questa volta però era stato diverso. Non gli era mai capitato che i civili non fossero danni collaterali, ma l’obiettivo principale.

Quando le istruzioni erano arrivate, con l’ordine di distruggere tutto tranne alcuni edifici e di non lasciare superstiti, le aveva lette diverse volte cercando di capire perché mancassero indicazioni sull’entità delle difese da superare e sulla potenza di fuoco del nemico. Poi aveva eseguito gli ordini, perché non si entra a far parte della squadra di Kyra se non sviluppando la capacità di obbedire senza esitazione. E con un obiettivo così inerme aveva potuto tenersi a distanza e sparare senza vedere troppo da vicino le conseguenze dei suoi colpi.

Tuttavia, una volta cessato il fuoco, quando era entrato coi compagni all’interno del perimetro, aveva visto i corpi a decine e si era reso conto di avere appena partecipato a qualcosa che difficilmente il mondo avrebbe perdonato o dimenticato. Ed era con vergogna che capiva un’altra cosa: avrebbe potuto continuare a far finta di non vedere i corpi umani, ma quello che gli aveva trapassato la coscienza in modo indelebile erano gli elefanti accasciati a decine. Quegli esseri colossali, eppure del tutto inermi di fronte alle loro armi, gli erano parsi vittime di un atto sacrilego, la loro morte un danno irreparabile all’equilibrio del mondo.

Mentre osservava sgomento la scena aveva visto un elefante che si muoveva ancora. Senza nemmeno accorgersene aveva deviato per dirigersi verso di lui, ma non l’aveva mai raggiunto. Kyra gli aveva urlato “Sta indietro!”, e poi aveva fatto esplodere con un colpo il cranio dell’animale ferito.

“Che cazzo, Kyra?! Perché sprechi munizioni contro un elefante?” aveva urlato a sua volta Miki, per sfogare l’angoscia che gli stava montando dentro.

“Non capisci niente, imbecille! Non possiamo rischiare di lasciarne vivo nemmeno uno. In questo territorio gli elefanti sono considerati persone. Potrebbero farli testimoniare contro di noi. E puoi stare certo che, se un tribunale collega uno di noi a quello che è successo oggi, siamo finiti. Se vedi un elefante ancora vivo, sparagli!”

Fabrizio scese dal fuoristrada, e per un attimo si sentì mancare. Il calore che saliva dal terreno polveroso cotto dal sole abbagliante era più di quanto fosse preparato ad affrontare, di certo più di quanto il suo abito termoregolante potesse contrastare con efficacia. Dopo i chilometri percorsi sul terreno accidentato, era il colpo di grazia per il suo fisico. Si sforzò di non mostrare il proprio disagio e avanzò tendendo la mano verso l’uomo alto e dalla pelle nerissima che era venuto ad accoglierlo. “Absko Njoroge?”, chiese.

“Sono io” fu la risposta, in un inglese privo di accento. Fabrizio si rammaricò di non aver sfruttato il viaggio in aereo per impiantarsi un po’ di swahili nel cervello. La buona educazione lo avrebbe richiesto.

“Grazie per essere venuto a prendermi” disse, guardandosi intorno. A cinque anni di distanza le ferite del raid si erano in gran parte rimarginate, ma c’erano ancora diverse tracce di quanto era avvenuto: edifici diroccati, una pila di rottami di mezzi militari. Al centro del piazzale una stele con un uomo e un elefante abbracciati nel dolore ricordava le vittime dell’attacco. Uomini ed elefanti, spesso ambedue dotati di cuffia per la connessione neurale, sembravano occupati a fare cose che Fabrizio non aveva modo di comprendere. “Questa è la sede del governo degli elefanti?”

Absko sorrise divertito. “Anche se parliamo di autogoverno degli elefanti, non deve pensare che ci sia qualcosa di simile a un governo umano. Gli elefanti si conoscono tutti tra loro, e ci sono delle matriarche la cui opinione è rispettata da tutti, ma non hanno leggi paragonabili a quelle umane. Se a un elefante non piace la decisione del gruppo, semplicemente se ne va da un’altra parte. Rispetto a prima che arrivassero le interfacce neurali, la differenza importante è che ora noi siamo in grado di parlare con loro. Abbiamo dotato alcuni esemplari più influenti di interfacce permanenti, che funzionano a distanza ravvicinata Possiamo provare a spiegare quali sono i nostri problemi, e loro ci spiegano i loro. Possiamo evitare di prendere decisioni che vadano contro il loro sentire. Ci hanno chiesto finora una sola cosa: che una piccola sezione di questo territorio fosse interdetta agli umani, senza eccezioni. Ovviamente gliel’abbiamo concessa, e cerchiamo di far rispettare il divieto. Ma mi ha molto colpito il fatto che l’unico desiderio che hanno espresso sia stato un posto dove poter stare lontano da noi.”

“E come hanno reagito a quello che è successo qui?”

Absko alzò le spalle. “Dal punto di vista di un elefante, quello che è avvenuto qui non è nulla di eccezionale. Subiscono stragi da parte degli esseri umani da centinaia di anni. Ci sono abituati. Sono tornati, hanno reso omaggio ai loro morti, e ai morti umani che conoscevano, e poi hanno ripreso la vita di prima. Abbiamo chiamato la comunità Fidia, che in swahili significa ‘risarcimento’. Ma non credo che ci sia nulla che possa risarcirli di quanto hanno perduto.”

Qui non c’è nulla.

Qui non c’è nulla.

Qui non c’è nulla.

Questo limbo grigio può rendermi pazza. È stato orribile morire, sparire dal mondo proprio mentre intorno a me si compiva la strage di tutti i miei amici e collaboratori, umani ed elefantini. Ho perso i sensi, forse Fiona è stata colpita, mi avevano avvertito che l’esperienza della morte condivisa può essere molto traumatica. Ma la cosa più orribile è stata risvegliarmi e non ritrovare il mio corpo. Sono qui, sono io, ma non c’è null’altro. Non ci sono sensazioni, né da fuori né da dentro di me. Non ho modo di sapere quanto tempo è passato. In me cresce il terrore che questa sia la morte. Forse morire è questo, un’eternità di nulla fuori dal mondo? Può essere che nella distruzione di Fidia anche il mio corpo umano sia rimasto ucciso, e di me non resti più niente. Devo provare a essere razionale, scacciare questa idea. Ma l’unica alternativa che mi viene in mente è altrettanto terribile. Qualcuno sta usando la mia interfaccia cervello-macchina per mantenermi isolata. E il motivo può essere uno solo. In qualche modo hanno saputo del coltan e vogliono interrogarmi. Ho letto cose orribili su quello che si può fare a una persona attraverso un’interfaccia come la mia. Possono causarmi i dolori più atroci, i terrori più abietti stimolandomi il cervello, senza neppure toccare il mio corpo. Quanto potrò resistere? Ha senso che provi a resistere? Non posso mentire, possono capire se sto mentendo. E allora forse

Paura Paura Paura Paura Paura Paura Paura Paura Paura Paura

Questa non è la mia paura. Questa non sono io.

Paura Paura Paura Armi Spari Cacciatori Fuoco Morte Paura Paura

Bernie. Questo è Bernie. Il canale di comunicazione con Bernie si è ripristinato. Chi mi tiene prigioniera non deve essersene accorto. Bernie, non sono mai stata così felice di vederti.

Hanna Hanna Hanna Cosa fare? Hanna Hanna Hanna

Stai calmo Bernie, stai calmo! Sì, sono io. Ci sono ancora. Devi stare calmo, fare quello che ti dico. Cerca qualcuno!

“Dottor Njorobe, il signor Dupuis è stato molto vago su quello che dovremmo cercare. Mi ha detto che me lo avrebbe saputo spiegare meglio lei. Io sono un avvocato, non mi intendo molto di quello che fate qui. Mi può illuminare?”

“Si usa anche nel suo Paese l’espressione ‘memoria da elefante’?”

“Sì. Ma pensavo fosse solo un modo di dire.”

“Non lo è.“ Ad Adsko sì illuminava il viso quando parlava di elefanti. “Hanno una memoria eccezionale, superiore a quella umana. Purtroppo anche i mercenari del commando lo sapevano, e hanno fatto in modo di non lasciarne vivo nemmeno uno. Sapevano che un elefante avrebbe potuto riconoscerli anche a distanza di anni. E, ora che sono legalmente persone, almeno qui nella riserva di Fidia, la loro testimonianza avrebbe valore legale.”

“Vorrebbe dirmi che c’è un elefante scampato alla strage?” Fabrizio rise suo malgrado. “Abbia pazienza, mi riesce difficile immaginare un elefante che si nasconde e non si fa trovare…”

“Tutti gli elefanti che erano presenti fisicamente qui sono morti. Ma c’era un elefante, anzi, un’elefantessa, che era dotata di un impianto di connessione cerebrale molto sofisticato. Consentiva il collegamento senza fili a chilometri di distanza, cosa che richiede tecnologie molto costose, perché la trasmissione dei pensieri ha bisogno di una banda larghissima. Esiste la possibilità che attraverso questa connessione quell’elefantessa possa avere appreso qualcosa di utile rimanendo lontana, e quindi scampando alla strage.”

“Come mai non è stata cercata subito?”

“Lo abbiamo fatto. Non l’abbiamo trovata, e abbiamo pensato che fosse morta. Senonché l’interfaccia ha ripreso a funzionare, dopo un lungo periodo di silenzio.”

“Allora l’avete ritrovata?!”

“Non esattamente.”

“Mi scusi, ma non capisco.”

“Nemmeno noi capiamo. Il problema è che quell’interfaccia non la indossa più un elefante.”

Miki aveva messo il mech in standby, si era tolto il casco, era uscito dalla cabina, era sceso fino a terra usando i gradini a scomparsa sulla schiena del gigante metallico, e aveva mosso qualche passo. Il sole era sorto da poco, ma già si intuiva che la giornata sarebbe stata rovente. Il piano prevedeva una sosta di due ore, e nella prima lui era considerato a riposo, mentre nella seconda era di sentinella.

Non capiva minimamente il senso di quella fermata. Anche se le contromisure elettroniche impiegate subito prima dell’attacco avevano quasi sicuramente impedito a chiunque di dare l’allarme, rimanere sul posto era molto pericoloso: se i governativi li avessero scoperti avrebbero attaccato in forze. Se avesse avuto buon senso, sarebbe rimasto all’interno del mech, pronto a combattere. Ma aveva sempre meno voglia di prendere parte attiva a quella missione, alla quale aveva aderito con troppa leggerezza.

Aveva sperato di sperimentare un po’ di atmosfera africana con quella passeggiata, ma si stava rendendo conto che tutto ciò che percepiva era l’odore di morte ed esplosivo causato dal loro attacco. Stava per fare dietrofront, quando qualcosa gli sfrecciò di fronte al naso. E poi ancora. E ancora, emettendo un stridio sguaiato. Era un uccello. Ma non aveva mai visto un uccello comportarsi così.

Una volta attirata la sua attenzione, l’uccello volò verso uno dei pochi edifici che avevano lasciato in piedi. Poi si posò a terra, si voltò verso Miki ed emise ancora quello strano verso.

“Mi sta chiamando?” si chiese Miki incredulo. Provò ad avvicinarsi. L’uccello sembrò attenderlo, ma poi, quando lo aveva quasi raggiunto, decollò di nuovo e si spostò più lontano. Ancora verso l’edificio.

Absko smise di avanzare attraverso le erbe alte della savana. Mantenendo il dito sul grilletto, ma senza imbracciare il fucile che teneva a tracolla, osservò a lungo il paesaggio di fronte a loro, in cerca di potenziali pericoli. Poi si voltò verso Fabrizio.  “La zona è questa. Io mi fermo qui: se avanzassimo in due non si farebbe trovare. Vada avanti e faccia il tentativo. Non si scordi che si tratta di un animale selvaggio. Non faccia niente che possa indurlo a sentirsi minacciato. Se riuscirà a evitarlo, ha buone probabilità di tornare indietro sano. Io l’ho fatto già due volte. Che riesca a ottenere quello che vuole, è altra questione.”

“Non sarebbe meglio se lasciassi qui il fucile, allora?”

Absko rise, una risata breve e gutturale che gli scoprì per un attimo i denti bianchissimi. “Proprio no. Il fucile è la sua garanzia di tornare indietro sano. Deve farsi riconoscere come un pari, non come una preda. Semplicemente, eviti di puntarlo a meno che non sia certo che la sta attaccando. In tal caso spari senza perdere troppo tempo a prendere la mira: è un’arma intelligente in grado di riconoscere i bersagli e correggere il tiro. Buona fortuna!”

Fabrizio strinse la grande mano nera che il ricercatore gli porgeva, lasciandola con riluttanza. In quel momento tutto il suo piano gli appariva come una clamorosa assurdità. Ma ormai non era possibile tirarsi indietro; piuttosto si sarebbe lascato mangiare. Rivolse ad Absko un tentativo di sorriso, sospettando che gli fosse invece uscita una smorfia di terrore; gli voltò le spalle e cominciò ad addentarsi con prudenza nella savana, un passo dopo l’altro.

Il caldo era insopportabile. Il sudore continuava a colargli dalla fronte sugli occhi, facendogli provare il lancinante desiderio di togliersi di testa la cuffia con gli elettrodi. Ma non poteva arrischiarsi a levarla neppure per un secondo. Si passò per l’ennesima volta la mano sul viso, poi strizzò gli occhi per proteggersi dal bagliore del sole. Non c’era niente in vista. Si stava chiedendo quanto avrebbe dovuto avanzare prima di darsi per vinto, quando il pensiero risuonò nella sua testa, chiaro e comprensibile nonostante tutta la sua alienità.

“So che cosa vuoi. Non te lo darò.”

L’edificio aveva un grande atrio. Le vetrate erano andate infrante per le onde d’urto delle esplosioni, e c’erano cocci dappertutto, ma per il resto non era molto danneggiato. Nell’atrio c’erano Kyra, Helmut e Sven. I due uomini stavano trasportando il corpo di una donna con la testa imprigionata in un casco. Miki notò i lunghi capelli fermati da un nastro viola che spuntavano da sotto l’interfaccia.

“Ecco, mettetela lì”, ordinò Kyra, indicando un divano. “Abbiamo avuto una bella fortuna. Doveva essere in connessione con qualche animale quando abbiamo attaccato. Le contromisure elettroniche che abbiamo usato per silenziare la rete devono aver causato una brusca disconnessione. Quando sei collegato in maniera profonda con un’altra mente una cosa del genere può causare confusione, o anche svenimento, come in questo caso. Non si è nemmeno tolta il casco, e questo gioca a nostro favore.”

“Cos’è quell’affare, Kyra?”, chiese Helmut, indicando un apparecchio con un ampio display e un grosso cavo che si collegava al casco della donna distesa.

“Un’interfaccia mente-cervello come quella che usate per comandare i mech, ma molto più sofisticata. Per il momento la sto usando per impedirle di riconnettersi al suo corpo. La tengo prigioniera dentro al suo cervello, per così dire.”

“E poi?”

“E poi… se avessimo tempo, potrei scandagliarle la mente ed estrarre qualunque informazione. Ma il tempo non ce l’abbiamo, tra due ore al massimo dobbiamo scomparire. Quindi,” proseguì Kyra, infilandosi a sua volta un casco, “dovrò sottoporla a degli shock un po’ rozzi, ma spero efficaci. Se non ho perso la mano, in mezz’ora al massimo sarà disposta a qualunque cosa, pur di farmi smettere. E allora mi dirà la posizione del giacimento di coltan che si trova all’interno della riserva di Fidia.”

“Coltan? È quello il nostro obiettivo? E come sappiamo che c’è?”

“La dottoressa si è rivolta a un funzionario governativo. Il territorio qui risulta nominalmente di proprietà della nazione degli elefanti. Glielo hanno dato pensando che non ci fosse niente di valore. Lei pensava di trattare col governo per ottenere un territorio più grande per gli elefanti in cambio del permesso di sfruttare il coltan. Ma il funzionario era sul libro paga della Dilei. E invece di parlare col governo lo ha detto alla Dilei, che ha ingaggiato noi. Una volta saputo dov’è il coltan, troveranno il modo di prendersi il giacimento, e magari farlo passare per un atto di generosità, visto che nessun altro conosce il valore di quel terreno. Ora state zitti, mi devo collegare e concentrare.”

Miki osservò disgustato il ghigno feroce di Kyra mentre si apprestava a entrare nella mente di quella poveretta. Di che cosa orribile si era reso complice. Ma non poteva fare nulla. Anzi, gli conveniva allontanarsi in fretta, prima che si accorgessero che li aveva visti e decidessero magari che era un testimone scomodo da eliminare. Si voltò e vide di nuovo l’uccello, che trascinava la coda per terra in modo strano. Cercò di capire cosa facesse.

Vide dei solchi nella polvere. Tracciavano la parola H E L P.

La leonessa era a una ventina di metri da Fabrizio, che immediatamente provò a calcolare quanto avrebbe impiegato a coprire la distanza che li separava. Anche la stima più ottimistica era decisamente troppo poco per i suoi gusti, quindi si sforzò di non pensarci. Ma era difficile: l’animale proiettava senza filtro i suoi pensieri, che arrivavano a Fabrizio a ondate violente e selvagge. Per ora prevaleva un misto di curiosità e diffidenza che cercavano di prendere il sopravvento l’una sull’altra, ma sotto si intravedeva qualcosa di molto più violento e pericoloso. Fabrizio ringraziò di avere inserito un filtro ai propri pensieri, altrimenti la sua paura sarebbe risultata evidente, e non serve un etologo per capire che non bisogna far sapere a un leone di aver paura.

Si sforzò di guardare la bestia negli occhi. La testa della leonessa aveva una forma strana, e si rese conto che era perché intorno al cranio era avvolta una cuffia interfaccia cervello-macchina dimensionata per un elefante. Era veramente un capolavoro tecnologico: come gli aveva spiegato Adsko, si trattava di un dispositivo adattativo, dotato di intelligenza sufficiente per trovare il miglior adattamento possibile al cervello che aveva a disposizione. Trovando un leone al posto di un elefante, aveva impiegato diversi mesi per rimettersi a funzionare… ma ce l’aveva fatta.

“Tu vuoi l’elefantessa” disse la leonessa nella sua testa. I concetti erano formati rozzamente ma, nella traduzione della macchina, gli risultavano perfettamente comprensibili, con una perentorietà che non aveva mai percepito nella comunicazione umana. “Non ti dirò dov’è. L’ho detto all’altro umano. Lei ha dato a me il dono per sentire i pensieri.”

“A cosa ti serve questo dono?” Fabrizio cercava di mimare i pensieri secchi e semplici della leonessa, ignorando se questo lo aiutasse in qualche modo a farsi capire.

“Parlo con altri elefanti. Faccio accordi. Io non attacco bambini di elefanti. Loro mi lasciano passare. Anche con altro umano ho fatto accordi. Mi ha detto quanto mi posso avvicinare. Io rispetto limite, lui mi lascia in pace. Dono utile.”

Fabrizio non immaginava che avrebbe mai potuto apprezzare il pragmatismo di un leone. Ma doveva concentrarsi su quello che era venuto a fare. Si chiese perché Dupuis l’avesse mandato qui. Come poteva riuscire a ottenere dall’animale quello che un etologo esperto non aveva ottenuto?

“Perché l’elefantessa ha dato a te il dono?”

“Lei non lo vuole più. Lei non vuole più sentire pensieri di altri nella sua testa.”

“Te lo ha detto lei?”

“Lo hanno detto altri elefanti. Lei non può parlare con me. Non ha più il dono.”

“Devi portarmi da lei.”

“Non lo farò. Perché dovrei farlo?”

Già, perché dovresti? – si chiese Fabrizio – Come posso spiegare a parole a un leone il perché? Forse è questo il punto: non posso spiegarlo a parole.

Seguendo un’ispirazione improvvisa, disattivò il filtro dei suoi pensieri. Ora non c’erano barriere tra lui e la mente della bestia. Si concentrò sul senso di quello che voleva dire. Sono venuto a fare giustizia. Cercò nella propria mente il modo di trasmettere il concetto di giustizia. Pensò alla prima volta in cui aveva ragionato in termini di giusto e di ingiusto. Era all’asilo, e il problema era chi avrebbe potuto salire sull’altalena. Stava per scartare quell’idea e passare ad altro, ma percepì un’inattesa risonanza. Dalla mente della leonessa gli pervenne un’immagine vivida come se fosse un ricordo suo. Una madre leonessa che porgeva la preda ai figli. Una sorella prepotente che menava zampate per prendersi la parte migliore. Un ruggito improvviso che metteva fine alla disputa. Giustizia!

Fabrizio non seppe dire per quanti secondi o minuti fosse rimasto con i propri pensieri mescolati a quelli della leonessa. Né quanto di quei pensieri lei avesse capito. Ma alla fine di tutto qualcosa fu chiaro.

“Proverò ad aiutarti a fare giustizia”.

Miki fece ripartire il suo mech e si allontanò. Dapprima lentamente; poi, constatato che nessuno sembrava prestargli attenzione, si diresse con decisione verso la boscaglia, e nessuno lo richiamò indietro. Una volta al riparo degli alberi si accovacciò in modo da non essere più visibile, e spense il trasponder. Ora per i suoi compagni, o per chiunque altro, non sarebbe stato facile individuarlo, finché non avesse riacceso i motori. Lui invece poteva ancora vedere loro.

Rimase per qualche secondo a contemplare quello che aveva davanti. I grandi corpi degli elefanti, caduti a terra; quelli più piccoli degli esseri umani. Gli edifici in fiamme, le colonne di fumo. I suoi compagni, enormi giganti metallici, che si aggiravano indifferenti in quello sfacelo. Il mech di Kyra accovacciato e fermo di fronte all’unico edificio rimasto intatto, come un gargoyle guardiano, mentre lei era all’interno a fare qualcosa di terribile a quella donna sopravvissuta.

Fece un respiro profondo. Sapeva che la decisione era presa, inutile tergiversare.

Si collegò in rete, e inviò un messaggio.

A Fabrizio sembrava di vivere in un sogno. Dove altro poteva succedergli di seguire un leone per chilometri verso un luogo sconosciuto, lungo una pista che solo il passaggio di centinaia di elefanti poteva aver creato? Era stanchissimo, e temeva che la leonessa avesse sopravvalutato le sue povere risorse di essere umano. Ma doveva andare avanti. Sperava solo che Absko stesse tenendo d’occhio il suo segnale e fosse pronto a recuperarlo al momento giusto.

Quando stava quasi per crollare, di fronte a sé vide una scena che gli parve ancora più onirica. Da una macchia di arbusti mezzi secchi sorgeva un grande cartello con la scritta:

ELEPHANTS ONLY ZONE – NO HUMANS ALLOWED – NO TRESPASSING

Vicino al cartello c’era un gruppo di elefanti disposti a semicerchio e ben distanziati. Alcuni portavano in testa interfacce neurali. Fabrizio sentì su di sé i loro sguardi tra il solenne e il minaccioso.

“Non puoi passare” dissero diverse voci nella sua testa. I pensieri degli elefanti erano completamente diversi da quelli della leonessa. Sembravano svilupparsi con un ritmo diverso. Erano meno confusi, ma forse anche più alieni per lui.

“Non voglio entrare nel vostro territorio sacro” trasmise Fabrizio. “Entrerà la leonessa per me. So che la conoscete, non vi farà del male. Lasciatela passare. Porterà il mio messaggio a Fiona.”

Gli elefanti non dissero nulla. Fabrizio percepì un rilassamento nella situazione, senza che alcuno di loro avesse cambiato posizione o emesso un verso. Silenziosamente la leonessa sgattaiolò tra loro e sparì in mezzo agli arbusti.

Fabrizio si sedette su una pietra resa quasi rovente dal sole, e si rassegnò ad aspettare… per quanto? Si sforzò di non apparire impaziente. Pregò che la termoregolazione del suo abito continuasse a funzionare. Vide il sole salire lentamente verso lo zenit, e diventare sempre più caldo e sfolgorante. Gli elefanti si davano il cambio, a turno andavano a rinfrescarsi in qualche pozza fuori vista, ma per il resto rimanevano ritti, agitando le orecchie.

Era così spossato che quasi non sentì il fruscio di arbusti. L’elefantessa fece la sua comparsa. Sembrava molto vecchia. Un orecchio era stato bucato da un proiettile: doveva comunque essersi trovata molto vicina al campo al momento del raid. Si avvicinò a Fabrizio a passi lenti. Lo fissò in modo che gli parve interrogativo.

Fiona non indossava più un’interfaccia neurale. Fabrizio aveva un unico argomento per convincerla. Mise una mano in tasca e tirò fuori quello che Dupuis gli aveva dato. Era il nastro viola che la dottoressa Gustaffson portava addosso al momento della morte. Lo tenne appallottolato nella mano, tese il braccio in avanti. Fiona allungò la proboscide, lo annusò a lungo.

L’ondata di emozione che squassò l’elefantessa, Fabrizio ne era certo, era percettibile anche senza interfaccia neurale. Fiona alzò la proboscide, cacciò un poderoso, addolorato barrito.

Poi si fece del tutto silenziosa. Piegò un ginocchio, e chinò il capo. Fabrizio si avvicinò, e con delicatezza le sistemò in testa l’interfaccia neurale.

Sentì la tristezza di Fiona invadergli i pensieri. “Ora dovrai ricordare, Fiona. Te la senti?”

La connessione si interruppe al termine della registrazione, ma i giudici della corte rimasero a lungo immobili, senza neppure togliersi le cuffie. Nessuno proferì parola per due minuti buoni.

Doveva essere stata dura per loro rimanere collegati fino in fondo. Lo stesso Fabrizio, che pure aveva raccolto la testimonianza e se l’era trasmessa più volte nel cervello prima di presentarla alla corte, si sentiva scosso dopo averla sperimentata ancora. Non era solo l’orrore di quell’orribile interrogatorio. Era assistervi con la mediazione di una mente non umana. La memoria dell’elefantessa Fiona riportava con esattezza ogni dettaglio, ma lo caricava anche di sensazioni aggiuntive. La sua testimonianza trasudava orrore e condanna per le azioni delle creature aliene e incomprensibili che erano gli esseri umani: noi. Un uomo non poteva sperimentare quella testimonianza senza provare vergogna.

Lo sguardo del giudice Van der Berg esprimeva esattamente lo stesso sentimento.

“Avvocato, questa corte ha deciso di ammettere la testimonianza da lei raccolta come prova. E, sulla base di tale prova, riteniamo ci siano ragioni sufficienti per riaprire il procedimento di indagine contro gli autori e i mandanti del raid contro la comunità di Fidia. Le faccio i complimenti per la sua tenacia, e anche per avere stabilito un precedente: è la prima volta che la testimonianza di un elefante viene accolta in una corte internazionale.”

Gli occhi di Jean-Claude Dupuis avevano una luce diversa. Non si poteva dire che non fossero tristi, no. Ma quell’ansia febbrile che trasmettevano si era spenta. Era un uomo che, per la prima volta in cinque anni, aveva smesso di inseguire qualcosa. Quella luce ripagava Fabrizio di tutti gli sforzi fatti.

“Ci vorrà del tempo ora, signor Dupuis, ma è solo questione di aspettare. Dobbiamo ringraziare la memoria prodigiosa degli elefanti. Anche se Fiona non era in grado di capire tutto ciò a cui ha assistito, è riuscita a riportare le conversazioni in modo sufficientemente preciso. L’indagine avviata riuscirà a risalire al funzionario che ha tradito sua moglie, e da lui, si spera, ai dirigenti della Dilei che hanno organizzato il raid.”

“Io non so come ringraziarla. Anche se non mi restituisce mia moglie, in qualche modo questo dà di nuovo un senso alla mia esistenza.”

“È vero, non potremo mai restituirle sua moglie. Ma c’è ancora una piccola cosa che possiamo fare per lei.”

Di fronte allo sguardo interrogativo di Dupuis, Fabrizio tirò fuori di tasca un’unità di memoria.

“C’è una parte della deposizione di Fiona che non ho trasmesso agli atti perché non rilevante per il processo. Ma che è rilevante per lei. La dottoressa Gustaffson si rendeva conto che non l’avrebbero lasciata in vita. E, in quelli che sapeva essere i suoi ultimi istanti, ha dettato a Fiona un messaggio destinato a lei, signor Dupuis. Ed è qui registrato, grazie alla memoria da elefante.”

Dupuis prese la cassetta con mani tremanti. “Non so se avrò mai il coraggio di connettermi a questa registrazione”, balbettò con gli occhi pieni di lacrime. “Ma grazie.” Strinse la mano a Fabrizio, e uscì di corsa dall’ufficio.

Un attimo dopo Gudrun fece capolino dall’altra porta. “Non volevo farmi vedere. Capirei benissimo quell’uomo se ce l’avesse con me.”

“Credo sia comunque acqua passata”, rispose Fabrizio.

“Tu al suo posto vorresti sapere cosa passava per la testa di tua moglie in quei momenti?”

“Sono felice di non dovermi porre la domanda. Ma temo che problemi del genere dovremo porceli sempre più spesso.”

L’attacco colse di sorpresa non solo il commando, ma anche Miki, che pure se lo aspettava. Uno dei mech di guardia sul perimetro esterno esplose all’improvviso con estrema violenza. Miki provò una fitta di senso di colpa. Il pilota non poteva essere sopravvissuto. Si chiese chi fosse: Mara, forse? Poi arrivarono i droni, e la situazione si fece confusa. Presero di mira i mech con missili e cannoni a tiro rapido. I suoi compagni risposero al fuoco e spararono fumogeni e chaff per rendersi meno facili da acquisire come bersagli. Nel giro di pochi secondi diventò molto difficile seguire la battaglia. E allora Miki si concentrò sull’edificio che gli interessava. Vide Kyra uscire di corsa, arrampicarsi sul suo mech e chiudere il portello. Il mech prese vita e si alzò in piedi. Poi puntò uno dei suoi cannoni verso l’edificio e sparò, disintegrandolo in una grande esplosione che non avrebbe lasciato testimoni in vita.

Miki urlò. Tutto quello che aveva fatto non era servito a niente. Non era bastato a salvare la vita di quella persona, una persona che era stata capace di conquistarsi la devozione di un uccello della savana. Si sentì pervadere da una rabbia impotente, mentre i suoi istinti di soldato prendevano il controllo. Non pensò nemmeno mentre acquisiva il bersaglio e attivava i cannoni. Fece fuoco sul mech di Kyra che, avendo tutte le difese concentrate sul difendersi dai droni, fu colpito in pieno. Una gamba si stacco dal corpo e il gigante rovinò a terra, prendendo fuoco.

Non fece in tempo a esultare. Tutti gli allarmi stavano suonando. Sparando aveva rivelato la propria posizione, e diversi avversari lo stavano acquisendo come bersaglio. Addio alla sua idea di rimanere nascosto e arrendersi ai governativi. Non capì neppure se a sparargli per primo fu uno dei droni oppure uno dei compagni che aveva intuito il suo tradimento. Vide un lampo e poi il buio.

Nell’ultima frazione di secondo si ricordò che i suoi pensieri venivano registrati, e cercò di formulare un messaggio. Ma il suo istante di coscienza finale fu illuminato dalla consapevolezza di non aver mai detto a Ben o Maurice a chi avrebbero dovuto recapitare la sua ouija, se mai l’avessero trovata.

—FINE—

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