Jude è un giovane inglese che, negli anni ’60, si reca negli USA alla ricerca del padre perduto. Qui conosce i fratelli Max e Lucy, e decide di rimanere. I tre vanno ad abitare a New York insieme alla cantante Sadie, al chitarrista Jo-Jo e alla svagata Prudence, sperimentano l’esplosione della musica e della droga, partecipano alla contestazione, ma Max deve partire per il Viet Nam, la rivoluzione non è dietro l’angolo e il sogno finisce…
Se i nomi dei personaggi vi sembrano familiari c’è una ragione ben precisa: appaiono tutti nelle canzoni dei Beatles (tranne Max, a meno che non sia il diminutivo di Maxwell…). E infatti questo film è un musical la cui colonna sonora è formata da ben 33 canzoni dei Beatles (con un forte sbilanciamento verso il lato "lennoniano" delle composizioni), reinterpretate dagli attori stessi.
Dal punto di vista tecnico, Across the Universe è un quasi-capolavoro. Ottimo il lavoro svolto sulle canzoni, arrangiate in modo al tempo stesso rispettoso e inventivo, e inserite perfettamente all’interno del flusso del film. Eccezionali le coreografie di Daniel Ezralow, che rendono alla perfezione quel surrealismo lisergico tipico dell’epoca (ed espresso da film come Yellow Submarine). E, soprattutto, originalissima la regia che, con un uso particolarmente creativo della grafica computerizzata, riesce a fondere senza soluzione di continuità elementi realistici e fantastici, assecondando alla perfezione quella sensazione di poter mutare i sogni in realtà che sempre associamo agli anni ’60.
Tuttavia, se vado a chiedermi quale sia il senso ultimo dell’operazione, rimango molto perplesso. La regista e sceneggiatrice Julie Taymor è riuscita indubbiamente a creare un contrappunto visivo alle canzoni dei Beatles, frullandoci dentro un po’ tutto l’immaginario dell’epoca, e citando tutto il citabile (dalla metafora delle fragole e sangue al mitico concerto live sul tetto dell’edificio). Ma per dire cosa? A ben guardare, quello che troviamo in Across the Universe è lo stesso tipo di messaggio, per giunta espresso in modo quantomai vago e generico, che troviamo in qualunque film sugli anni ’60 degli ultimi quarant’anni: la gioventù aveva voglia di cambiare il mondo, poi il sogno è sfiorito a causa del settarismo e della violenza. Ci viene risparmiata la retorica sulla droga che uccide (ma non viene scelta alcun’altra strada, e l’intermezzo "lisergico" al centro del film, con Bono Vox a intepretare il Dr. Robert, rimane perciò un vicolo cieco all’interno del film), ma non quella sul radicalismo che degenera in violenza politica (negli USA???). Alla fine, il film si chiude con All you need is love e tutti gli screzi e le lacerazioni tornano magicamente a posto. Possiamo ancora credere a un finale così nel 2008?
In definitiva, Taymor ha realizzato una colossale, raffinata cartolina sugli anni ’60. Bella quanto si vuole, e tecnicamente perfetta. Però nient’altro che una cartolina, fatta per suscitare la nostalgia dei sessantenni e l’invidia dei ventenni per un passato mitico, ma che sul significato degli ideali di quell’epoca per il nostro presente, sul perché quei sogni siano più lontani oggi di allora, non dice assolutamente nulla.
l’arte è arte