Memento – I sopravvissuti

More about Memento

Le Detonazioni hanno trasformato la Terra in un luogo desolato: la civiltà è distrutta, e tutti gli umani sono stati trasformati in esseri deformi, fusi con oggetti, tra di loro e con la terra stessa. Si sono salvati solo i Puri, cioè coloro che abitano un enorme rifugio chiamato la Sfera, e attendono che il pianeta ritorni abitabile. Pressia, una ragazza la cui mano destra è fusa con una testa di bambola, è in fuga per evitare, al compimento dei 16 anni, di essere arruolata a forza nella milizia. Nel frattempo il suo coetaneo Partridge, figlio del leader della Sfera, fugge dal rifugio alla ricerca della madre, dopo aver scoperto che potrebbe essere sopravvissuta e nascosta da qualche parte all’esterno…

La fantascienza sarà pure moribonda, ma deve conservare almeno un po’ del suo appeal se Julianna Baggott, affermata autrice di romanzi sentimentali e per ragazzi, ha deciso di scrivere una distopia postcatastrofica nel segno della fantascienza più classica. Ammetto di essermici accostato con molto sospetto, timoroso di trovarmi di fronte all’ennesimo polpettone sentimentale a sfondo fantastico per adolescenti. Fortunatamente non è stato così: Memento – I sopravvissuti è un libro serio, non sdolcinato (anzi, a dirla tutta alquanto depressivo) e con qualche ambizione. Non è però un libro particolarmente riuscito, per i motivi che dirò.
La cosa migliore del romanzo è l’ambientazione: l’autrice mostra fantasia e abilità nel creare una galleria di personaggi deformi (il mio preferito è El Capitan, che si porta addosso il fratello minore come un doppio inseparabile, una specie di riedizione del Joe-Jim Gregory di Heinlein), destreggiandosi tra uno scoperto simbolismo e il puro gusto del bizzarro.
Il problema è che l’autrice riesce a sfruttare tali atmosfere solo in piccola parte. La trama è molto complicata ma priva di vere sorprese e, pur descrivendo un mondo degradato e violento, sembra sempre fermarsi un passo prima dal risultare autenticamente scioccante. La cosa meno riuscita sono i dialoghi, legnosi e talvolta ingenui. Ma soprattutto, il messaggio di fondo appare troppo scontato, e non va al di là di un generico antiautoritarismo con qualche venatura femminista.
Alla fine il risultato è un né-carne-né-pesce che rischia di non soddisfare nessuno: troppo deprimente per chi cerca il puro intrattenimento, troppo blando e schematico per gli autentici appassionati del genere. Per giunta, il finale è piuttosto interlocutorio: l’autrice intende scrivere altri due volumi prima di concedere agli eroi di compiere il loro destino. Grazie, ma credo che mi fermerò qui.

Share Button

Fantascienza XL

Dall’altro ieri è in edicola il primo numero col nuovo stile della rivista XL che, pur avendo mantenuto il nome, è in formato più compatto (e a mio avviso, di più comoda lettura).
Il motivo di cui ve ne parlo, però, non è il nuovo stile, bensì due nuove rubriche che saranno gestite dal sottoscritto. Una sarà un piccolo spazio destinato alle recensioni di nuove uscite di fantascienza, all’interno di X-Voto – Libri. L’altra sarà una rubrica di diverse pagine denominata Futurama, in cui presenteremo ogni mese un racconto di fantascienza d’epoca, illustrato da un artista moderno, e con un breve commento da parte mia. Questo mese si comincia con Ray Bradbury, di cui presentiamo un estratto da Cronache Marziane, splendidamente illustrato dall’amico Franco Brambilla.
Inutile dirvi quanto mi faccia piacere poter parlare di fantascienza ai lettori di una testata ad amplissima diffusione come XL. In particolare, quando il direttore Luca Valtorta mi ha proposto di occuparmene nel corso di una chiacchierata durante Lucca Comics & Games, pensavo di avere trovato il lavoro ideale. Cosa c’è di meglio di essere pagato per scegliere dei bei racconti classici? C’è però il rovescio della medaglia, e cioè che la scelta deve sottostare a diversi limiti, il più grosso dei quali è la lunghezza. Lo spazio a disposizione sulle pagine di XL sembra tanto, ma alla fine si tratta di meno di 20.000 caratteri, quando la stragrande maggioranza dei racconti celebri ne misura almeno 30.000, e spesso molti di più. Oltre a questo, il racconto deve offrire spunti per le illustrazioni, e deve incontrare non solo il mio gusto ma anche quello della redazione. Insomma, certe volte trovare un candidato è veramente difficile. Il che non toglie che si tratti di una bellisisma sfida, che sto affrontando con piacere e che cercherò di svolgere nel migliore dei modi. Sono graditissimi i suggerimenti (anche se, ovviamente, non è detto che possa seguirli, perlomeno non tutti).
Se il tempo me lo consentirà, cercherò di svolgere regolarmente approfondimenti su questo blog, sia per quanto riguarda i racconti di Futurama, sia per i romanzi segnalati.

Share Button

Morire per vivere

La Terra ha ormai colonizzato un gran numero di pianeti, ma una legge-quarantena che protegge il nostro mondo dalle contaminazioni proibisce a chi se ne va di ritornare indietro. John Perry ha 75 anni, è appena rimasto vedovo, e non si aspetta più molto dalla vita. Accetta perciò di arruolarsi nelle Forze di Difesa Coloniale: dovrà combattere per due anni o più, ma in cambio, dicono, ritornerà artificialmente giovane…

È ormai rarissimo che in Italia vengano tradotti romanzi inediti di fantascienza  (fatta eccezione per quelli ispirati a film, TV o videogiochi). Lode quindi a Gargoyle che ha portato in Italia il primo volume della fortunata serie di John Scalzi, Old Man’s War.
La lettura del libro mi ha dato fin dall’inizio una sensazione di “vecchia fantascienza”, sia in senso positivo che negativo. Da un lato, fa piacere leggere un romanzo che non è un thriller mascherato, e nemmeno si basa su ipotesi scientifiche tanto esotiche da essere difficile da seguire, come spesso capita con i testi moderni. Dall’altro, però, l’opera presenta alcune mancanze che sono disposto a perdonare ai classici, ma non alla narrativa di questo millennio.
La prima cosa che colpisce della scrittura di Scalzi è che rinuncia a tutti gli abusati meccanismi che gli scrittori di genere odierni utilizzano per creare tensione: non ci sono narrazioni parallele, cambiamenti di punto di vista, flash-back o flash-forward. La narrazione è lineare, in prima persona e segue un unico personaggio. Questo può sembrare semplicistico, ma mi sono convinto che sia un pregio: Scalzi sa tenere viva l’attenzione del lettore sulla propria storia senza trucchi non necessari, e non è da tutti.
L’altra caratteristica notevole di Scalzi è l’originale ed efficace miscuglio di stili. Le scene di battaglia sono rappresentate con un convincente equilibrio tra avventura e crudo realismo, degno dei migliori romanzi d’azione. Gli alieni, invece, sono descritti con un paradossale umorismo nero che fa pensare quasi a un Robert Sheckley o a un Douglas Adams. Infine, il vero filo conduttore dell’opera è il tentativo del protagonista e dei suoi compagni di rimanere umani pur essendo catapultati in un mondo totalmente alieno con corpi e menti artificiali. Un tema non nuovo, ma che l’autore tratta seguendo una malinconica vena introspettiva, l’autentico pregio del romanzo.
Dal punto di vista del realismo tecnologico, alcune parti sono convincenti, altre molto meno. Mi è piaciuta molto la descrizione dei corpi dei soldati, del computer che hanno installato nella testa e dell’uso che ne fanno. Ho però forti dubbi sul fatto che una futura guerra interstellare si combatterà scaricando migliaia di fanti sulla superficie dei pianeti. Da questo punto di vista, trovavo più convincente Fanteria dello spazio (il libro, non il film), dove i “fanti” spaziali usano armature, volano, sparano armi nucleari e si muovono a centinaia di chilometri l’uno dall’altro. Mi è difficile credere una battaglia contro gli alieni somiglierebbe al Vietnam o allo sbarco in Normandia.
Più in generale, a parte la descrizione dell’esercito, manca un serio tentativo di creare un mondo credibile nel suo insieme dal punto di vista economico, sociale o tecnologico. La società delle colonie spaziali non viene mai mostrata, mentre le scene ambientate sulla Terra hanno un sapore addirittura retrò, potrebbero svolgersi negli anni Cinquanta. Paradossalmente, alle reclute vengono distribuiti dei “PDA” su cui scrivere usando uno stilo: roba che era già nei negozi quando il romanzo è uscito, e che oggi è già obsoleta (persino il termine PDA non si usa più!).
Quello che però non sono proprio riuscito a digerire in Morire per vivere è il sottinteso politico di fondo. Questo viene esplicitato in un discorso che un ufficiale fa alle reclute: la guerra è brutta, ma necessaria e inevitabile. Le risorse dell’Universo sono scarse, ed essere meno aggressivi significherebbe rimanere indietro rispetto alle altre razze e soccombere. Talvolta si può trovare una soluzione pacifica, ma nella maggioranza dei casi le culture aliene sono troppo diverse dalla nostra per trovare un terreno comune. Quindi la guerra è l’unica soluzione. E non solo la guerra difensiva, ma anche quella offensiva: una delle operazioni militari descritte è un attacco preventivo a una civiltà “concorrente”, la cui società ed economia vengono chirurgicamente devastate, riportandole a un’era preindustriale e riducendo la popolazione alla carestia e al caos.
So che non bisogna confondere le opinioni di un personaggio con quelle dell’autore, tuttavia Scalzi, perlomeno nel corso di questo romanzo, non ci offre alcuna visione alternativa. A qualcuno viene il dubbio che le cose potrebbero andare un po’ diversamente, ma né il protagonista né i suoi amici pensano mai di mettere in discussione la struttura di cui fanno parte. L’unico personaggio che si ribella viene rappresentato come un idiota sognatore che si fa ammazzare in modo ridicolo senza concludere nulla. L’esercito, d’altra parte, viene descritto come un’organizzazione dura e severa ma anche giusta ed efficientissima, del tutto scevra da bullismo, disorganizzazione, corruzione o incompetenza.
Inutile usare giri di parole: a mio avviso Morire per vivere trasuda militarismo, e fa un elogio della guerra e dell’imperialismo che riecheggia alla perfezione le posizioni dell’amministrazione Bush sullo “scontro di civiltà”. Probabilmente era difficile aspettarsi altro da un autore che ha fatto di Robert Heinlein il proprio modello, ma resto comunque molto deluso. Specie dopo aver letto romanzi come Il ritorno delle furie o Black Man di Richard Morgan, che descrivono azioni militari sposandole a un’analisi politica di ben altro colore (e spessore).
Riassumendo: Morire per vivere è un romanzo avvincente, divertente e ben scritto, che mescola in modo proporzionato azione pura, umorismo e la storia toccante di un uomo che rinasce in un mondo nuovo. Tuttavia per goderselo bisogna essere capaci di astrarsi dalla visione politica discutibile che l’autore usa come sfondo.
Concludo accennando alla traduzione, che si lascia leggere ma è sicuramente migliorabile. Anche se la scrittura piana di Scalzi volta in italiano rimane scorrevole e briosa, nel caso di espressioni idiomatiche o insolite la traduttrice ha preso più volte fischi per fiaschi. Un esempio: la frase “No shit”, che significa all’incirca “Sul serio”, “Vuoi scherzare” o “Proprio così”, viene tradotta letteralmente con un “No, merda” privo di senso.
AGGIORNAMENTO: Ho intervistato via e-mail John Scalzi (persona molto gentile e professionale), che di fronte alle mie domande “politiche” ha preso un po’ le distanze dalla mia interpretazione. Ne riparleremo tra qualche settimana, quando pubblicherò l’intervista.

Share Button

Il ciclo di vita degli oggetti software

More about Il ciclo di vita degli oggetti softwareSu Data Earth, uno dei tanti ambienti virtuali a disposizione del pubblico (qualcosa di simile a una versione estremamente sofisticata di Second Life) vengono venduti i “digenti”, creature domestiche virtuali, dotate di intelligenza artificiale e in grado di apprendere. Se per alcuni non sono più che giocattoli, per altri diventano l’equivalente di figli che vanno educati e protetti. Col tempo si presentano problemi che nessuno si aspettava. Cosa succede se la piattaforma software che li ospita diventa obsoleta? Come finanziare le tecnologie che possono consentire loro di continuare a esistere e ad apprendere?  In che forma legale si può garantire loro tutela e autodeterminazione? E soprattutto, bisogna lasciarli liberi anche quando non condividiamo le loro scelte?

È indiscutibile che Ted Chiang sia tra gli autori più interessanti e talentuosi della fantascienza contemporanea. Ogni sua opera affronta problemi scientifici, epistemologici o filosofici da un punto di vista totalmente inedito, e lo fa con strumenti stilistici ogni volta differenti e sorprendenti. Ha il rigore scientifico di un Greg Egan, ma riesce nello stesso tempo a risultare molto più leggibile anche ai profani, e a coinvolgere emotivamente il lettore in modo molto più approfondito.
Non fa eccezione questo suo primo approccio al romanzo (comunque molto breve). L’obiettivo di Il ciclo di vita degli oggetti software (esplicitato in un’interessante intervista pubblicata su Robot #64), è quello di fornire un punto di vista nuovo rispetto alla visione narrativa dell’intelligenza artificiale. Questa, infatti è sempre stata rappresentata come qualcosa di compiuto, che nasce già pronto e superiore agli esseri umani. Tuttavia, fa notare Chiang, è molto improbabile che sia così. Molto probabilmente una vera intelligenza artificiale dovrà affrontare gli stessi problemi che affrontano gli umani, e cioè crescere gradatamente imparando dall’esperienza.
La lettura di questo libro mi ha fatto pensare a Bob Shaw, filtrato attraverso il minimalismo americano: un’idea semplice e ben definita, esplorata fino alle sue estreme e non immediatamente prevedibili conseguenze (ovverosia quello che la fantascienza dovrebbe sempre fare), attraverso una serie di quadretti familiari, descritti in maniera diretta e priva di orpelli.
Dal punto di vista delle idee, il romanzo di Chiang è quantomai stimolante. Forse è presto per dirlo, ma potrebbe essere uno di quei libri che portano a un cambiamento di paradigma: sarà difficile d’ora in poi immaginare a un’intelligenza artificiale prescindendo dai digenti e da quello che possono insegnarci. Come lettore, tuttavia, provo per la prima volta un briciolo di insoddisfazione nei confronti di un’opera di Chiang. Lo stile adottato in questo caso, estremamente distaccato e con continui salti temporali, rende difficile affezionarsi ai personaggi, proprio quando le situazioni descritte dall’autore implicano sentimenti profondi e coinvolgenti. Inoltre il romanzo termina proprio in un momento, l’equivalente dell’inizio dell’adolescenza per i digenti, che lascia il lettore con la curiosità di come si evolveranno le cose. Insomma, visto che Chiang si è cimentato per la prima volta in un romanzo, avrei preferito che non fosse un romanzo brevissimo, visto che i temi presentati avrebbero tranquillamente retto un maggiore approfondimento. Cionondimeno, resta una delle uscite fantascientifiche più interessanti degli ultimi tempi.
Il libro è uscito in Italia in un’ottima edizione della Delos Books. Chi sa bene l’inglese può anche leggerselo gratuitamente qui.

Share Button

Ci mancherai, Vic!

Vittorio Curtoni (foto: Selene Verri)

Ieri ci ha lasciato Vittorio Curtoni. Direttore di Robot (sia la vecchia, sia la nuova), critico e scrittore di fantascienza, traduttore di tantissimi scrittori (di genere e non), ma soprattutto una grande persona. Lo conobbi a Piacenza una decina di anni fa, in occasione di uno dei ritrovi che amava organizzare nella sua città per gli appasssionati di fantascienza di tutta Italia. Vittorio amava mangiar bene e discutere con passione di letteratura, musica e cinema con chiunque ne avesse voglia. Nonostante fosse un personaggio di statura mitologica nell’ambito della fantascienza italiana, trattava tutti da pari a pari. Aveva anche un carattere sanguigno, e non ci metteva nulla a mandarti a quel paese se gliene davi motivo. Ma ci piaceva anche per quello. Anzi, gli avevamo regalato un tridente, per consetirgli di guidarci attraverso Piacenza, nelle vesti di Curton Dimonio, alla ricerca del tortello migliore.

Di lui ricordo tanti momenti. Dalla volta che lo intervistai sulle pagine di Computer Idea (la mia prima intervista a uno scrittore!) a quando mi consacrò vincitore del concorso Sviccata, che consisteva nello scrivere il racconto più brutto possibile. Lo incontrai l’ultima volta un paio di anni fa, quando andai a visitarlo dopo una delle varie operazioni che aveva subito. Era provato ma non domo, e dichiarò che si sarebbe ritirato dall’attività di traduttore per dedicarsi finalmente a scrivere narrativa, per fare contenti tutti coloro che lo biasimavano per avere scritto troppo poco.

More about Bianco su neroAnche se in questi anni aveva smesso di organizzare ritrovi e mangiate, avevo sempre pensato che questa sua interruzione delle attività sociali fosse solo una parentesi, e che prima o poi l’avremmo rivisto agitare il suo tridente davanti a un piatto di tortelli. Invece se n’è andato all’improvviso, pochi giorni dopo l’uscita del primo, e purtroppo unico libro del suo nuovo corso di scrittore.

Ci mancheranno la sua intelligenza, la sua cordialità, la sua simpatia. Ci mancherà il Vic.

Premiazione Sviccata
Otto anni fa: Curtoni (a sinistra) si appresta a premiare un me stesso alquanto più giovane e magro di oggi (a destra) per aver scritto un racconto davvero immondo: "Gli Oscuri Dei di Transpheeraghs", che volle pubblicare anche su "Robot".

 

 

Share Button

The Windup Girl

More about The Windup GirlTra qualche secolo. L’esaurimento del petrolio ha provocato un crollo della società globale. Gran parte delle specie vegetali sono state spazzate via da orrende epidemie create dalle società agricole occidentali per costringere il mondo a usare i loro prodotti geneticamente modificati. Tra i pochi luoghi che si sono salvati dal caos c’è la Thailandia, protetta da draconiane leggi ambientaliste e dal possesso di una delle ultime banche di sementi non contaminate.
Mentre lo scontro tra ambientalisti e filooccidentali scuote il Paese, seguiamo le vicende di quattro personaggi. Anderson Lake, statunitense che si finge imprenditore, ma in realtà vuole impadronirsi dei segreti genetici thailandesi. Il suo segretario Hock Seng, paranoico rifugiato cinese pronto a qualsiasi imbroglio pur di ricostituire la perduta fortuna economica. Jaidee Rojjanasukchai, incorruttibile militare che si oppone al rilassamento delle leggi ambientaliste e al riavvicinamento con l’Occidente. E infine Emiko, una “ragazza caricata a molla”, donna artificiale giapponese costretta a prostituirsi per sopravvivere, poiché la sua stessa esistenza in Thailandia è un reato.

The Windup Girl arriva con le migliori presentazioni: doppia vittoria, all’Hugo e al Nebula, nel 2009, e uno strillo tratto da Time che proclama “il degno erede di William Gibson”. In effetti si tratta di un bel romanzo, avvincente e ben costruito, che si legge volentieri, anche se non è il capolavoro che tanti elogi rendevano lecito aspettarsi.
Paolo Bacigalupi (che per inciso non è italiano ma statunitense, e non sa neppure pronunciare il suo cognome) ha creato una trama molto solida, in cui le storie di quattro personaggi completamente diversi per appartenenza sociale ed etnica si incrociano di continuo senza che la cosa appaia forzata. A un certo punto uno dei quattro muore, ma continua a partecipare al romanzo sotto forma di fantasma nella testa di un altro personaggio, un virtuosismo letterario che ho molto apprezzato.
Il punto di forza del romanzo è l’ambientazione, una Bangkok assediata non solo dai nemici esterni, ma anche dal mare che minaccia di sommergerla. Lo scenario politico, in cui le tensioni dovute alla scarsità di cibo ed energia si mescolano a quelle di natura etnica e religiosa, è tra i più realistici che mi sia capitato di incontrare in un romanzo di fantascienza. Bacigalupi fa un ottimo lavoro nel mettere a confronto i modi di pensare derivati da culture diverse, aggiornandoli a un mondo in cui orribili malattie genetiche sono sempre in agguato e l’energia per fare quasi qualunque cosa deve provenire dal sudore di qualcuno.
La principale critica che muovo a The Windup Girl è di natura tecnologica. Per quanto il mondo evocato dal romanzo sia coerente e affascinante, l’ingegnere che è in me ha diverse obiezioni. Per cominciare, in caso di esaurimento del petrolio mi aspetterei un fortissimo incremento nell’utilizzo di fonti rinnovabili di energia. In particolare, un Paese costiero e tropicale come la Thailandia potrebbe sfruttare con grande efficienza il solare, l’eolico, le maree o il gradiente di salinità. Nulla di tutto ciò avviene nel romanzo, dove si utilizzano centrali termoelettriche a carbone dove indispensabile, e per il resto ci si arrangia con energia di origine umana o animale. Si gira una manovella persino per far funzionare una radiolina portatile, roba che anche oggigiorno potrebbe funzionare a energia solare. Una simile assenza di energie alternative è inspiegabile, tanto più che il livello tecnologico è rimasto elevato, e si vedono numerosi esempi di nuovi materiali.
Anche l’utilizzo di energia animale all’interno della produzione industriale (in particolare con l’uso di elefanti geneticamente modificati, detti megodonti) fa molto colore, ma sfugge alle regole della logica. Un elefante “funziona” a biomassa. Per quanto possa essere efficiente, la stessa biomassa che gli si dà come foraggio potrebbe essere trasformata in alcool e usata per far funzionare un motore, che occupa meno spazio di un elefante, non deve riposare, non sporca, non si ammala, richiede meno supervisione umana, e probabilmente ha anche un rendimento migliore in termini di sfruttamento delle calorie.
Del tutto assurdo poi è il fatto che l’energia venga immagazzinata sotto forma meccanica, torcendo molle ad altissima resistenza: chi ha disinventato dinamo, alternatore, accumulatore, batteria e motore elettrico?
Insomma, l’impressione è che Bacigalupi nel creare il suo mondo si sia fatto guidare più dal potenziale simbolico delle situazioni (ogni cosa appare “caricata a molla”, inclusa la ragazza artificiale che è il fulcro della vicenda) che non da un’analisi scientificamente ed economicamente solida. Il che, per un romanzo che tratta un tema così attuale come la scarsità di energia, a me pare un difetto non da poco.
Secondariamente, anche se ho ammirato l’abilità con cui Bacigalupi riesce a inserire il lettore in un mondo nuovo con un calibrato mix di neologismi e di termini provenienti dal thailandese, va detto che a volte si lascia andare a sciatte ripetitività. Per esempio, la parola “grimaces” viene usata letteralmente centinaia di volte per descrivere i personaggi; mi meraviglio che nessun editor (visto che all’estero esistono ancora) se ne sia accorto.
In conclusione, The Windup Girl è un romanzo con molti pregi, che si legge d’un fiato nonostante la lunghezza, e narra una vicenda molto reale in cui nessun personaggio è esente da ombre. Ne consiglio la lettura. Però per essere “il degno successore di William Gibson” occorre fare ancora un po’ di strada.

Share Button

La pesatura dell'anima

More about La pesatura dell'animaIn un Egitto alternativo interamente basato sulle biotecnologie, la poliziotta Naïma viene chiamata a far parte della squadra dei Sette, un gruppo eterogeneo che investiga su casi di omicidio. Usa metodi violenti e discutibili, ma c’è una ragione: se riesce a portare il colpevole al cospetto di Iside entro 24 ore, si può scambiare la sua anima con quella della vittima, riportandola in vita…

Clelia Farris è, a mio avviso, tra i migliori autori di fantascienza che abbiamo in Italia. I suoi romanzi hanno tutte le caratteristiche che vorrei trovare in  una buona opera del genere. In primo luogo, l’originalità: i tre titoli che ha pubblicato finora non fanno il verso a nessun filone della fantascienza anglosassone, e non si assomigliano nemmeno molto tra di loro: ogni libro è un’esperienza a sé. In secondo luogo, le idee: quella della Farris è una fantascienza che, pur senza addentrarsi in minuzie scientifiche o tecnologiche, non si limita a creare delle atmosfere, ma inventa situazioni realmente nuove e interessanti e le affronta in modo problematico, come accade nei capolavori del genere. Infine, la densità: non si accontenta certamente di una sola idea per romanzo, ma ce ne mette tante e le fa interagire tra loro in modo imprevedibile, dando davvero al lettore la sensazione di trovarsi in un mondo del tutto nuovo.
La pesatura dell’anima non fa eccezione. Già il tema principale, quello di una polizia in grado di far risorgere le vittime, è decisamente potente e pieno di implicazioni. Ma l’idea vincente è quello di ambientare il tutto in un mondo totalmente diverso dal nostro, un Egitto alternativo in un Universo alternativo, in cui l’uso dei metalli è proibito, le case e i mobili sono alberi modificati, mentre animali modificati fungono da mezzi di trasporto e di comunicazione. Un luogo tanto più affascinante in quanto viene dato per scontato: non c’è nessun personaggio che si prenda la briga di spiegarlo al lettore, che deve costruirselo nella sua mente decifrando frasi sibilline e neologismi. C’è persino un personaggio che parla uno slang malavitoso, che viene reso con un linguaggio del tutto campato in aria e pure perfettamente comprensibile, con un autentico virtuosismo letterario.
Dopo tanti elogi, però, devo dire che purtroppo La pesatura dell’anima non riesce a raggiungere i vertici di quello che finora è il capolavoro della Farris, Nessun uomo è mio fratello. Il libro diventa sempre più avvincente fino a circa metà; poi però è come se l’autrice ne perdesse il controllo. Troppi personaggi, con troppi cambi di punti di vista, che impediscono al lettore di immedesimarsi. Ma soprattutto, gradatamente il punto focale del romanzo cambia, passando dall’etica alla politica. Che sarebbe anche molto interessante, se non fosse che il sistema politico di questo Egitto inventato è descritto in modo troppo frammentario, e il lettore rimane spiazzato nel cercare di capire cosa stia realmente succedendo.
Nonostante questo, consiglio comunque la lettura di La pesatura dell’anima, un libro sorprendente che, anche se non perfettamente riuscito, rimane comunque parecchio sopra la media della fantascienza italiana,

Share Button

Delos nights

Poco più di un mese fa ho partecipato a una notturna di Radio Popolare che seguiva di poco la convention di fantascienza Italcon nell’ambito dei Delos Days. Qui sotto trovate l’audio della trasmissione. Oltre al sottoscritto e a Renato Scuffietti partecipavano Emanuele Manco, Luca Tarenzi e, telefonicamente, Alberto Cola.
Mi scuso per aver messo il tutto online così tardi. Purtroppo ho avuto qualche problema tecnico. Devo rinunciare a usare SoundCloud: il lettore online è bellissimo, ma lo spazio dell’account gratuito è troppo limitato, e quello a pagamento costa troppo. Quindi tutto è diviso in spezzoni di una decina di minuti in formato MP3.
Buon ascolto!
Notturna Delos Days 1
Notturna Delos Days 2
Notturna Delos Days 3

Notturna Delos Days 4

Notturna Delos Days 5
Notturna Delos Days 6
Notturna Delos Days 7
Notturna Delos Days 8
Notturna Delos Days 9

Share Button

Bruce Sterling su "Players"

Nel periodo in cui non riuscivo ad aggiornare con regolarità il blog, una delle tante cose che ho scordato di segnalarvi è che ho cominciato una collaborazione con Players. Si tratta di una bella rivista, con un’ottima grafica, che si rivolge in primo luogo ai videogiocatori ma che parla di tutto quanto c’è di interessante, musica, letteratura, cinema, TV e altro. Esce soltanto online, scaricabile in PDF oppure leggibile attraverso un bel sistema che si chiama Issuu, e sta sperimentando interessanti metodi per autofinanziarsi.
Sul numero 2 di Players ho pubblicato un articolo su Bruce Sterling per accompagnare un’intervista raccolta dalla redazione. È roba di diversi mesi fa, ma la segnalo perché sono sicuro che tra i frequentatori del blog c’è qualcuno cui può interessare e che non l’ha ancora letta.
Andate qui per leggere il numero su Issuu, e qui per scaricarlo in formato PDF.

Share Button

I guardiani del destino

Un giovane politico americano di successo incontra per caso quella che sembra essere la donna della sua vita. Ma dei misteriosi “Guardiani” gli ordinano di non rivederla più, in quanto non fa parte del “Piano”. Scopre così che le vite degli uomini sono costantemente monitorate e “corrette” e che il libero arbitrio è un’illusione…

The Adjustment Bureau (questo il titolo originale di I guardiani del destino) è tratto da un racconto di Philip K. Dick. Di per sé questo non è garanzia di buon risultato. Dick non è affatto uno scrittore facile da rendere al cinema: le sue trame o sono statiche o si muovono in troppe direzioni contemporaneamente, costringendo gli sceneggiatori a reinterpretarlo. Anche Blade Runner, ormai un archetipo cinematografico, riesce a essere un grande film proprio tradendo sottilmente in molti modi l’opera originale. Per il resto, nonostante Dick sia un autore saccheggiatissimo, c’è ben poco di cui gioire. I tentativi più ambiziosi, Atto di Forza di Verhoeven e Minority Report di Spielberg, cominciano bene ma gradamente perdono la carica eversiva dickiana per trasformarsi in banali film di genere. D’altra parte, A Scanner Darkly, nella sua eccessiva fedeltà al testo, risulta  ingessato e poco significativo. Screamers a mio avviso ha una sceneggiatura imbarazzante, Impostor non l’ho visto ma se ne parla malissimo, e quanto a Paycheck è stato talmente esecrato che mi viene quasi voglia di difenderlo (ma me ne guardo bene!). Insomma, i successi sono ben pochi, specie a fronte di altri film che hanno sfruttato temi dickiani ma senza farlo in modo esplicito, come The Truman Show, Dark City o Vero come la finzione, per citare i primi tre che mi vengono in mente.
Tutto queso per dire che il regista George Nolfi (sceneggiatore al debutto nella regia), per convertire in film il breve racconto The Adjustment Team, aveva in qualche modo l’obbligo di tradirlo. Il modo che ha scelto, però, mi è rimasto sul gozzo.
I guardiani del destino è la storia di un uomo che, come tanti personaggi di racconti di Dick (uno tra tutti: l’eccezionale La formica elettrica) scopre per caso che la realtà è completamente diversa da come la conosceva, e che quelle che riteneva di essere sue libere scelte di vita sono in realtà state pianificate da forze al di fuori del suo controllo. Nella fattispecie, da una casta di grigi burocrati che lavorano “dietro le quinte ” del mondo e si preoccupano di far succedere cose apparentemente per caso, in modo che tutti continuino a seguire un misterioso “Piano” il cui scopo nessuno sembra conoscere.
Più che nell’interpretazione non particolarmente memorabile di Matt Damon, il film ha il suo maggior pregio nella rappresentazione dei Guardiani, grigi e annoiati, i cui sofisticatissimi strumenti di controllo hanno sempre un aspetto sorpassato e banale, come appropriato per una burocrazia opprimente e ottusa. E la parte migliore del film è indubbiamente quella in cui il protagonista lotta in modo sempre più disperato contro lo strapotere dei guardiani.
Purtroppo però Nolfi decide di risolvere il film con un lieto fine che stride terribilmente con tutto ciò che aveva costruito fino a quel momento. Io non sono contrario pregiudizialmente al romanticismo e ai finali positivi, tuttavia trovo insensato (oltre che un tradimento totale dello spirito dickiano) partire un racconto che parla della mancanza di libertà della condizione umana per poi alla fine rivoltare la frittata e dire: “abbiamo scherzato, l’Uomo è libero di fare ci che vuole se si impegna abbastanza”. Peccato, perché il film avrebbe meritato, ma questo finale proprio non sta in piedi.

Nota: Per uno strano scherzo delle leggi sul copyright, il racconto originale The Adjustment Team è oggi fuori diritti e di pubblico dominio. Chi volesse leggerlo lo può fare qui.
 

Share Button