Concerto: Sting

StingEbbene sì, anch’io ero tra i tanti che sabato scorso in piazza Duomo a Milano hanno assistito al concerto di Sting offerto dal Cornetto Algida. Bisogna dire che non erano certo le condizioni ideali per ascoltare un concerto: in una piazza dall’acustica discutibile, lontanissimo dal palco, la cui visibilità mi era in parte preclusa dal monumento a Vittorio Emanuele II. Per giunta anche gli schermi giganti servivano a poco, visto che dovevano avere assoldato un regista di telenovelas: per la quasi totalità del tempo ha inquadrato il faccione di Sting in primissimo piano. Persino durante gli assoli di Dominic Miller preferiva inquadrare la faccia di quest’ultimo invece della chitarra. Davvero pessimo.
Nonostante tutto questo, devo dire che il concerto mi è molto piaciuto e sono contento di esserci stato. Sting si è presentato con una formazione ridotta all’osso: solo due chitarristi e un batterista, mentre lui si è tenuto il basso. Già questo lasciava presagire un ritorno al rock, dopo tanti anni di arrangiamenti jazzati che, dopo il fenomenale esordio di The Dream of the Blue Turtles, erano da tempo diventati maniera. Ma non avrei mai osato sperare che Sting facesse un concerto interamente basato sui brani dei Police e dei suoi primi album solisti, tralasciando totalmente la parte più recente e noiosa della sua carriera.
E qui devo aggiungere una nota personale. Io considero Sting uno dei più grandi autori di canzoni del secolo scorso. I Police sono stati il primo gruppo autenticamente rock che abbia mai seguito (ero alle medie!). E ricordo ancora quando acquistai The Dream of the Blue Turtles, e lo scetticismo per la prima prova solista di Sting si trasformò gradatamente in sconfinata ammirazione per un disco splendido. Tutto questo durò, più o meno, fino a Ten Summoner’s Tales. Poi l’incantesimo si ruppe bruscamente: Mercury Falling è un disco che a tutt’oggi non sono mai riuscito ad ascoltare per intero, da quanto è noioso. E Brand New Day e Sacred Love hanno seguito più o meno la stessa sorte: dischi inutili, tanto levigati e curati quanto assolutamente privi di idee. Mi sono detto: peccato, Sting ha finito le energie creative, succede. Però nel fondo del cervello mi era rimasto il dubbio: forse sono io che non so apprezzare questi dischi meno immediati, me li scarco da Internet o me li faccio masterizzare dagli amici, li ascolto due  volte e poi li metto via. I dischi degli anni Ottanta dovevo risparmiare un mese prima di comprarli, per questo li ascoltavo religiosamente e ne captavo ogni sfumatura. Beh, ora è stato proprio Sting in persona a togliermi ogni dubbio: se persino lui ha ritenuto opportuno presentare un solo brano dei suoi ultimi dieci anni di carriera, vuol dire che quei dischi sono delle merde, da dimenticare senza appello, e stop.
Per il resto, il concerto è stato quello che ci si poteva aspettare da Sting: lui canta ancora passabilmente bene e regge perfettamente il palco, la band era molto professionale, e soprattutto lui riesce a ogni tour a rinnovare i propri brani riarrangiandoli in modo non scontato. In questo concerto la trasformazione più riuscita è stata quella di When the World Is Running Down You Make the Best of What’s Still Around, che da semplice canzoncina è diventata una cavalcata rock-psichedelica alla Cream. La meno riuscita, invece, quella di If You Love Somebody Set Them Free, che rallentata perde la sua ragione d’essere.
In definitiva, si potrà anche dire che Sting è un musicista al tramonto, visto che le canzoni che ha presentato, eccettuata
Desert Rose, hanno tutte più di dodici anni di età. Però uno che come se niente fosse ti suona venti brani come questi (e volendo ne avrebbe ancora in serbo parecchi: pensate a Don’t Stand So Close to Me, Invisible Sun, Tea in the Sahara…) merita profondo rispetto.

Questa la scaletta (dell’identità dei brani sono sicuro, non altrettanto dell’ordine):

Message in a Bottle

Synchronicity II

Walking on the Moon

If I Ever Lose My Faith in You

Englishman in New York (sull’arpeggio di Mad about You)

Spirits in the Material World

Shape of My Heart

Driven to Tears

Every Little Thing She Does Is Magic

Why Should I Cry for You?

Fields of Gold

A Day in the Life

If You Love Somebody Set Them Free

When the World Is Running Down You Make the Best of What’s Still Around (con un accenno di Voices Inside My Head)

Roxanne (con un accenno di So Lonely)

Desert Rose

Next to You

Every Breath You Take

Fragile

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Libro: La porta di Tolomeo

Questo romanzo è il terzo di una trilogia fantasy, detta di Bartimeus, dal nome del genio-demone che ne costituisce uno dei principali punti di vista (i tomi precedenti sono L’amuleto di Samarcanda e L’occhio del golem). Gli altri due personaggi principali sono un mago-bambino (che diventa adolescente nel corso della serie) e,a partire dal secondo libro, una ragazza sua coetanea. Detto così, sareste autorizzati a credere che questo sia l’ennesimo, maldestro tentativo di lucrare sul successo di Harry Potter creando un prodotto simile. Ma sbagliereste. Perché la trilogia scritta da Jonathan Stroud ha personalità da vendere e ben poco di derivativo; anzi, è una delle cose più originali che mi è capitato di leggere in campo fantasy.

Ciò che più colpisce in questa serie è la totale assenza di un Bene da difendere. I maghi dominano il mondo, ma sono una genìa avida e arrogante che fa un pessimo uso del proprio potere. E il mago-bambino Nathaniel, lungi dall’essere un eroe, entra in scena motivato dalla vendetta, e si trasforma col tempo in un ragazzo davvero sgradevole, tanto che al suo confronto il mostruoso e alieno Bartimeus appare un personaggio positivo. Insomma, nessuna leziosaggine: spesso risulta difficile distinguere tra i protagonisti della storia e i loro avversari, e se ci si appassiona al loro destino è per una scrittura di ottima qualità, che costruisce attentamente la suspense e dosa alla perfezione azione e umorismo. Oltretutto i romanzi si mantengono entro dimensioni accettabili, e non lasciano cliffhanger in sospeso, anche se è fortemente consigliato leggerli in successione corretta.

In questo terzo romanzo ritroviamo Nathaniel diciassettenne e ministro dell’informazione, e cioè propagandista per una guerra inutile e sanguinosa ai margini dell’impero. Kitty vive nascosta a Londra, alla ricerca di un piano per infrangere il potere dei maghi. Quanto a Bartimeus, schiavo perenne di Nathaniel che lo teme troppo per lasciarlo libero, è ormai indebolito e ridotto all’ombra di se stesso. I tre si ritroveranno loro malgrado insieme a fronteggiare un complotto, e per risolvere la situazione diventerà estremamente importante ciò che avvenne a Bartimeus duemila anni prima, ad Alessandria d’Egitto. La porta di Tolomeo non deluderà certamente il lettore; al contrario, credo sia il miglior libro della serie. L’umorismo di Bartimeus procura alcuni momenti di grande ilarità, ma il clima generale è ancora più cupo di quello dei tomi precedenti, fino a sfociare in un oscuro finale ambientato in una Londra devastata e piena di cadaveri, che non stonerebbe in un romanzo di Stephen King. E Stroud conferma ancora una volta la sua originalità e il suo coraggio, con una conclusione amara che dribbla tutte le ovvietà. Per intenditori.

 

(Questa recensione appare anche su Il Leggio).

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Teatro: Anplagghed

AnplagghedComplice la munificità di Samsung, mercoledì scorso ho avuto occasione di vedere Anplagghed, il nuovo spettacolo di Aldo, Giovanni & Giacomo. Ne sono uscito divertito, ma non esaltato.
Lo spettacolo è una collezione di scenette dal filo conduttore ancora più esile del solito. La messinscena del regista Arturo Brachetti è sontuosa, e sfrutta in modo spettacolare e azzeccato inserti filmati ed effetti speciali. Gli sketch,  però, sono sempre quelli, con giusto una lieve rinfrescatina. C’è sempre Giacomo che fa il vecchietto rompiscatole. C’è sempre Aldo che fa il teppista furbo (solo che, invece che con Giovanni controllore, si scontra con Giacomo vigile). C’è lo sketch già visto della consegna degli Oscar… insomma, variazioni sul tema (con l’eccezione della scenetta ambientata nel museo d’arte moderna, probabilmente la più azzeccata), e niente più.
Quello che salva lo spettacolo sono loro, che sono indubbiamente bravissimi, e anche simpatici. Soprattutto, si divertono: nonostante lo spettacolo sia in giro già da mesi, sono stati costretti a interrompersi perché una battuta improvvisata da Aldo ha fatto morire dal ridere gli altri due! Anche la comprimaria Silvana Fallisi se la cava discretamente (trovo allucinante il fatto che non abbia neppure il nome in cartellone; e sì che nella vita è la moglie di Aldo!).
In conclusione, mi sono divertito, ma se avessi dovuto spendere i soldi del biglietto credo che mi sarei pentito di non avere atteso il passaggio in TV o in DVD.

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Film: Inside Man

Inside ManUn gruppo di rapinatori mascherati irrompe in una banca di New York e prende decine di persone in ostaggio. I negoziatori della polizia si preparano a un lungo assedio. Ma piano piano il detective Frazier si rende conto che questa non è la solita rapina, che nessuno vuole veramente quello che dice di volere, e che è in atto un complicatissimo gioco delle parti. Non voglio rivelare altro della trama di un film in cui una parte considerevole del divertimento proviene dalle continue sorprese e rivolgimenti. Dirò però che questo è un film da vedere assolutamente, e che Spike Lee ha fatto centro una seconda volta dopo La venticinquesima ora, facendo dimenticare le tante opere poco riuscite degli anni recenti.
Per chi vuole divertirsi, Inside Man è un thriller come non se ne facevano più da un sacco di tempo: quasi del tutto privo di violenza, con dialoghi scoppiettanti perfettamente cesellati, e in grado di tenere alta la suspence fino alla fine. Certo, a volere essere pignoli la trama non è il massimo della verosimiglianza, e qua e là si intravede qualche buco (possibile che sia così facile entrare armati e mascherati in una banca di New York? Laggiù non usano metal detector e porte automatiche? E Christopher Plummer non è un po’ troppo in forma per essere uno che aveva trent’anni ai tempi della Seconda Guerra Mondiale?). Ma il gioco della regia è tanto sapiente da non far pesare questi difetti. Sono stupendi i continui flash-forward con cui vengono presentati gli interrogatori del dopo-rapina, in un sottile gioco che passa gradatamente allo spettatore informazioni essenziali senza mai lasciargli capire come stanno veramente le cose. Gli interpreti rendono tutti al massimo (in particolare il protagonista Denzel Washington), e Spike Lee sa sempre perfettamente dove mettere la macchina da presa.
Basterebbe per fare un ottimo film. Ma in più c’è il sottotesto, che dimostra come anche oggi sia possibile fare del cinema scopertamente commerciale senza per questo rinunciare a dire qualcosa. Inside Man è pieno di situazioni paradossali e illuminanti (dall’ostaggio sikh che, liberato, viene trattato come un terrorista, al rapinatore che rimane orripilato dalla violenza di un videogioco), che vanno gradatamente a comporre un quadro inquietante, in cui la verità è sconosciuta a tutti, i cattivi sono in realtà migliori di tanti altri, i buoni hanno qualcosa da nascondere, i ricchi e i potenti fanno quello che vogliono mentre la gente terrorizzata non capisce nulla. Ci voleva un thriller di buona fattura per darci una perfetta descrizione del mondo di oggi. Imperdibile.

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Film: L'era glaciale 2 – il disgelo

Ice Age 2Il film L’era glaciale è stato una piacevole sorpresa tra le animazioni degli ultimi anni. Senza vantare la sofisticazione stilistica delle animazioni della Pixar, riusciva a combinare una comicità "fisica" reminescente dei grandi cartoni animati della Warner (non a caso produttrice) con una storia non banale e dei personaggi riuscitissimi. Inevitabile un seguito, con gli stessi personaggi. Questa volta Sid il bradipo, Manny il mammut e Diego la tigre dai denti a sciabola devono scappare da una colossale inondazione dovuta alla fine dell’era glaciale. Lungo la strada Manny, che è depresso perché teme di essere rimasto l’ultimo della propria specie, incontrerà invece un mammut femmina. La cosa però gli procurerà dei grattacapi, in quanto la possibile compagna è stata allevata da una famiglia di opossum, ed è fermamente convinta di essere una di loro…
Dal punto di vista strettamente filmico, L’era glaciale 2 non riesce a uguagliare il prototipo. La storia non sempre è coerente: il personaggio di Diego, per esempio, risulta fuori posto all’interno di un branco di erbivori, e il suo dramma personale – quello di vincere la paura dell’acqua – appare un po’ debole rispetto al resto della vicenda. Considerato dal punto di vista del puro divertimento, tuttavia, il film risulta anche più riuscito del precedente, e assicura risate continue sia ai bambini che agli adulti. Gran parte del merito va allo sfortunatissimo scoiattolo Scrat, un perdente di statura pari al gatto Slivestro o a Wile E. Coyote, i cui tentativi di acchiappare la sempre sfuggente ghianda costituiscono un film nel film, forse la parte migliore del tutto.

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Film: La famiglia Omicidi

La famiglia OmicidiNon lasciatevi ingannare dal faccione di Rowan Atkinson sui manifesti: La Famiglia Omicidi non ha nulla a che vedere con la comicità demenziale e fisica di Mr. Bean, ma è invece una commedia nera inglese di stampo classicissimo, per non dire retrò. Il suddetto Atkinson è pastore anglicano in un minuscolo villaggio britannico, e si perde dietro noiosissime incombenze senza accorgersi che la famiglia va a rotoli: la moglie trascurata si lascia sedurre dal buzzurro maestro di golf americano, la figlia si porta a letto mezzo paese, il figlio è vessato dai bulli della scuola. A mettere a posto le cose ci penserà la neoassunta governante, che nasconde un piccolo segreto: è appena uscita da un manicomio criminale dove è stata rinchiusa per quarant’anni dopo aver fatto a pezzi il marito e la di lui amante. La dolce Grace, così si chiama, insegnerà alla famigliola che tutti i problemi si risolvono: bastano buonsenso, comprensione, e un corpo contundente per sbarazzarsi di tutti coloro che ostacolano la pace familiare.
A volerli cercare, di difetti a questo film se ne troverebbero parecchi. Il colpo di scena finale è telefonatissimo, il personaggio di Atkinson fa al massimo sorridere, ma mai ridere, quello della figlia non è sviluppato a sufficienza, e in generale si sentirebbe il bisogno di un po’ di prevedibilità in meno e di qualche gag in più. Persino la musica sembra una cattiva imitazione di Morricone. Tuttavia, nonostante tutto questo, il film funziona, grazie soprattutto all’estrema professionalità degli attori (sempre grandissima Maggie Smith, ma ottimi anche Kristin Scott Thomas e Patrick Swayze) e a una levità tutta inglese, che conduce senza parere a una morale inquietante: la tranquillità della famiglia poggia su un bel po’ di cadaveri. Mica male, per quello che si presenta come un film di puro intrattenimento! In definitiva, più interessante di molti film più blasonati.

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Concerto: Eugene Chadbourne Quartet – Adrian Belew Trio

Eugene ChadbourneAdrian BelewAvevo proprio voglia di ricominciare ad ascoltare musica dal vivo, e cosa c’è di meglio di un doppio concerto all’interno della gloriosa rassegna Suoni & Visioni? Per giunta proprio in contemporanea con il duello politico in TV. Che disgrazia! Ora non saprò per chi votare!

Sono arrivato a concerto iniziato perché ho sbagliato una svolta e mi sono perso nel dedalo di viuzze a senso unico che circonda il teatro Ciak. Stava già suonando Eugene Chadborne. Non dovrei farlo, ma confesso che non lo avevo mai sentito nominare. Solo dopo essere tornato a casa ho scoperto che ha collaborato con gente come John Zorn o Charlie Haden, mica gli ultimi della classe. Oltre che da lui, che alternava il banjo alla chitarra elettrica, il quartetto era formato da un batterista, un pianista, e un tipo che alternava bassi con pochissime corde (tra cui uno che sembrava costruito con uno spazzolone per pulire i pavimenti, con una sola corda, che si suonava orientando il manico snodabile) a flauti giapponesi shakuhachi.
Se la formazione può apparire bizzarra, la musica lo era ancora di più. Si spaziava un po’ dovunque, da standard jazz classici come Summertime a improvvisazioni free, dal bluegrass al burlesco (l’esecuzione di Summertime è stata punteggiata da interventi vocali di Chadbourne che imitava Janis Joplin: "I’m so happy I came back from the dead here in Milan!"). Mi spiace di non essere riuscito a seguire del tutto i testi, che dovevano essere piuttosto divertenti ("George W. Bush ebbe un’idea grandiosa: ricostruiamo New Orleans in Iraq!"). Nel complesso sospendo il giudizio, perché è difficile giudicare un artista del genere dopo meno di un’ora di concerto. Comunque la performance non mi ha annoiato.

Poi è stato il turno del grande Adrian Belew. Si esibiva in trio (chitarra, basso e batteria, gli ultimi due affidati a Mike Gallaher e Mike Hodges). Mi aspettavo che il concerto fosse dedicato alla presentazione degli ultimi album: Side One, che era appunto un trio, Side Two  e magari anche il futuro Side Three. Invece mi sono trovato di fronte a tutt’altro. Adrian ha iniziato da solo, creandosi un loop di sottofondo (con un piccolo incidente: si era dimenticato di accendere l’ampli) e improvvisandoci sopra, mettendoci dentro anche un’esecuzione strumentale di Within You, Without You dei Beatles. Dopodiché è entrata la band, e si è visto quale sarebbe stato il tono del concerto: repertorio scelto in buona parte tra i vecchi successi, arrangiamenti minimali incentrati interamente sul suo virtuosismo chitarristico, diversi strumentali, niente chitarra-synth, pezzi tutti già aggressivi in partenza e qui "tirati" fino allo spasimo. Insomma, pare che Adrian abbia voluto dare sfogo alla sua anima più genuinamente rock, e suonare alla buona senza preoccuparsi d’altro. Devo dire che la cosa non mi è affatto dispiaciuta, perché vederlo suonare è uno spettacolo, e senza fronzoli lo si nota ancora di più. Ha sempre una naturalezza estrema, sembra non sforzarsi affatto, come se sapesse sempre esattamente come reagirà la chitarra, qualunque cosa le faccia. Lo aiutava una sezione ritmica davvero impressionante. Inizialmente mi era sembrata piuttosto sottotono, ma poi mi sono reso conto che suonavano cose di una complessità allucinante, e che non lo avevo notato prima solo perché, dietro la chitarra di Adrian, anche un disastro ferroviario sembrerebbe sottotono. Non vi dico la mia sorpresa quando ho scoperto che il bassista Mike Gallaher in realtà è un chitarrista e non aveva mai suonato il basso prima di questo tour!
Non ho riconosciuto tutti i brani, ma posso dirvi che ha recuperato anche brani vecchi o vecchissimi come Big Electric Cat o Young Lions. La parte del leone l’ha fatta comunque il repertorio dei King Crimson, di cui ha eseguito Dinosaur e Three of a Perfect Pair, concludendo poi trionfalmente con Elephant Talk e Thela Hun Ginjeet. Il concerto si è interrotto bruscamente alle 23.30 causa vincoli di rumorosità del teatro, ed è davvero un peccato: Adrian ha detto che fosse stato per lui sarebbe andato avanti tutta la notte. In ogni caso, mi sono davvero goduto il concerto. Unica pecca: il volume da sangue dal naso: si poteva tenere un po’ più basso, Adrian aveva sul palco delle casse tali che da sole avrebbero già riempito lo spazio acustico del teatro!

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Film: Wallace & Gromit in La maledizione del coniglio mannaro

GromitDopo tre splendidi cortometraggi, finalmente approdano al lungometraggio gli adorabili Wallace & Gromit, personaggi di plastilina animati dagli studi inglesi Aardman al ritmo di tre secondi di film al giorno (ci sono voluti cinque anni per finirlo!). In questo episodio lo strampalato inventore Wallace ha organizzato un servizio per proteggere dal flagello dei conigli gli orti dei suoi compaesani, che vivono tutti in funzione di un concorso per verdure giganti organizzato da Lady Campanula Tottington. Ovviamente Wallace si caccerà nei guai, questa volta a causa di un coniglio mannaro che semina il terrore nei campi, e toccherà ancora una volta al suo fidato e intelligentissimo assistente, il cane Gromit, cavarlo di impaccio.
Il film è delizioso e mantiene inalterati i pregi degli episodi precedenti: personaggi di plastilina che sembrano vivi per l’espressività della mimica e la precisione dei tic, umorismo inglese spesso molto sottile, fatto di piccoli dettagli, il tutto all’interno di una trama strampalata ma coerente che cita atmosfere e inquadrature di tanti classici del cinema senza che mai il gioco diventi fine a se stesso. Il successo incontrato dalla Aardman con Galline in fuga ha portato in dote una maggiore ricchezza produttiva, che si può notare, per esempio, dalla colonna sonora di Hans Zimmer, che non ha nulla da invidiare a quella di un vero film d’azione. C’è anche qualche gag un po’ più "adulta" (irresistibile il coniglio mannaro che palpa il sedere a Gromit travestito da coniglia mannara). Forse la lunga durata fa risaltare quello che è un pregio ma anche un limite dei personaggi creati da Nick Park: il loro essere così totalmente inglesi, legati a una società di piccoli villaggi che non esiste più e che, più che essere satireggiata, viene trattata con una bonomia un po’ nostalgica. Ma perché cercare il pelo nell’uovo? Più di tanti altri film questo è autentico cinema, in cui ogni inquadratura è pensata, ogni singolo dettaglio è un parto diretto della fantasia dell’autore, e i personaggi che "parlano" di più sono quelli muti. Guardatelo (ma anche i cortometraggi!).

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Film: Broken Flowers

Broken flowersPensavo: dev’essere successo qualcosa a Jim Jarmusch. Com’è possibile che per tutta la sua carriera lui abbia girato film che sembravano improvvisati sul momento insieme agli attori (e probabilmente lo erano), e poi di colpo, a partire da Dead Man, si sia messo a sfornare film che sembrano pensati in ogni minimo dettaglio, in cui ogni particolare sembra rimandare a un altro?
Poi però ho letto che Jarmusch ha dichiarato di aver scritto la sceneggiatura di Broken Flowers in dieci giorni. E allora? O mi sto immaginando tutto, oppure a forza di improvvisare quest’uomo ha imparato a scodellare film completi nel tempo in cui altri registi non girano neppure una scena.
Comunque sia, la storia di Broken Flowers è piuttosto semplice. Don Johnston (ogni riferimento a Don Giovanni è puramente trasparente) è un seduttore cinquantenne depresso. Piantato dall’ultima amante, riceve una lettera non firmata in cui una donna lo informa di avere avuto un figlio da lui diciannove anni prima. Roso dalla curiosità, Don si reca in visita alle cinque donne che, secondo i suoi calcoli, potrebbero essere le autrici della missiva, rintracciate con l’aiuto di un vicino col pallino delle investigazioni. La ricerca diventerà un viaggio dentro il suo passato, cercando di portare a galla ciò che avrebbe potuto essere e forse si è verificato, e lo lascerà più confuso che mai.
Broken Flowers va accuratamente evitato da chi non tollera i ritmi lenti o pretende che un film risponda a tutte le domande che suscita. Gli altri potranno godersi un’opera al tempo stesso amara e divertente, piena di sorprese e di umorismo bizzarro. Bill Murray è semplciemente strepitoso (c’è chi dice che è manierato, ma parlare di maniera perché il suo personaggio somiglia un po’ a quello di Lost in Translation mi pare fuori luogo), ma lo sono anche le cinque attrici che interpretano ruoli diversissimi da quelli abituali, spesso irriconoscibili senza trucco e glamour. Persino la colonna sonora  (a base di jazz etiope di Mulatu Astatke) è insolita e notevole. Tutta la mia ammirazione va comunque a Jarmusch, che dopo Dead Man e Ghost Dog allinea un altro personaggio memorabile e un altro genere affrontato con successo (dopo il western e il film d’azione, la commedia sentimentale). Il tutto  con uno stile personalissimo, fatto di lunghe inquadrature in cui l’attenzione dello spettatore può spaziare per cogliere dettagli essenziali (come gli oggetti rosa che costituiscono il nascosto filo conduttore di questo film). Un altro così e lo eleggo mio regista preferito.

P.S.: Per onestà intellettuale, devo informarvi che c’è chi non la pensa al mio stesso modo. Ecco un esempio.

P.P.S.:Mi rammarico inoltre di avere impiegato tanto tempo a commentare questo film che nel frattempo è uscito dalle sale. Faccio proposito di essere più sollecito.

P.P.P.S.: Sì, lo so, sto facendo solo recensioni molto positive… ma non è colpa mia se ho visto dei film che mi sono piaciuti. E poi, in generale, a me i film piacciono. Devono avere un difetto grave perché io scriva una recensione negativa.

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Film: I segreti di Brokeback Mountain

Brokeback MountainSono andato a vedere questo film con la quasi certezza di annoiarmi. Per quanto apprezzi molto Ang Lee, ho una discreta allergia per la categoria dei film d’amore (ricordo ancora il tedio provato durante la visione di I ponti di Madison County dell’insospettabile Clint Eastwood), e temevo che Brokeback Mountain rientrasse in tale categoria (complice anche un trailer piuttosto fuorviante). Ma sbagliavo. Perché, pur essendo una storia d’amore, questo film non ha nulla di sdolcinato, e l’ho seguito senza annoiarmi per tutti i 134 minuti della sua durata.
Quello che fa la differenza è il paesaggio del Wyoming. E non perché Ang Lee abbia girato inquadrature da cartolina (che pure non mancano), ma perché è il contesto a rendere drammatica la storia dei due cowboy Ennis e Jack. Il film inizia con una silenziosa attesa che sembra quasi quella che apre C’era una volta il West di Sergio Leone. Ed è proprio un residuo del selvaggio West quello che vediamo, che ha perso tutto il fascino ma in cui è rimasta tutta la carica di violenza e disperazione. Non c’è nulla di romantico nella vita grama che i due fanno al seguito di un gregge di pecore in alta montagna, e proprio per questo l’improvviso scoccare della scintilla tra idue cowboy acquista una drammaticità assente da quei film in cui l’omosessualità è qualcosa su cui si può scherzare (come nel pur ottimo film di esordio di Ang Lee, Il banchetto di nozze). Il regista ha il grande merito di evitare scene didascaliche, e di far percepire allo spettatore il peso della discriminazione che incombe sui due protagonisti in modo quasi del tutto implicito, e proprio per questi più efficace. Forse nella seconda parte il film avrebbe potuto dilungarsi un po’ meno, ma è un difetto veniale per un’opera che ha sicuramente meritato la pioggia di riconoscimenti ricevuta.
Ottimi gli interpreti,  che vengono progressivamente invecchiati fino al doppio della loro età anagrafica: Heath Ledger sembra uno Steve McQueen redivivo, e anche l’ex-Donnie-Darko Jake Gyllenhaal è perfettamente in parte. In conclusione, un film che mi sento di raccomandare senza esitazioni.

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