Wildwood

More about Wildwood“Come avessero fatto cinque corvi a sollevare un bimbo di dieci chili Prue non lo capiva proprio, ma era certamente l’ultima delle sue preoccupazioni. Se avesse dovuto fare un elenco delle sue preoccupazioni in quel momento, mentre osservava incantata dalla panchina del parco i cinque corvi che portavano via suo fratello Mac, capire come potessero riuscirci era davvero l’ultima della lista.”

Quello che avete letto è l’incipit, davvero entusiasmante, di Wildwood, romanzo fantastico per ragazzi scritto da Colin Meloy, meglio noto per essere il cantante e l’autore dei testi dei Decemberists, e illustrato da sua moglie Carson Ellis.
Apprezzo molto i testi bizzarramente fantastici di Meloy, e appena ho saputo di questo libro me lo sono subito procurato. Quando poi ho letto l’incipit, ho pensato di trovarmi di fronte a uno di quei libri appassionanti che non riesci a mettere giù finché non hai girato l’ultima pagina. Purtroppo però le mie speranze sono andate deluse: dopo i primi capitoli, Wildwood si trasforma rapidamente in una lettura banalotta e piena di potenzialità non sfruttate.
Il problema principale del libro, a mio avviso, è l’ambientazione. La Landa Impenetrabile che si trova subito fuori Portland si rivela infatti un bosco privo di caratteristiche spaventose o  insolite, tranne una: è abitato da animali parlanti. Dato però che questi animali convivono con gli esseri umani e si comportano in tutto e per tutto come loro, la trovata si esaurisce molto in fretta, anche perché l’autore è molto vago nello spiegare come funzioni una società in cui predatori e prede vivono e lavorano fianco a fianco. Per il resto, la Landa è un patchwork di elementi disparati e poco amalgamati tra loro: atmosfere rurali, eserciti armati archi e moschetti, automobili, ville patrizie, templi grecizzanti in rovina, mistici zen… tutto troppo casuale per essere convincente, ma non sufficientemente bizzarro per essere affascinante. E manca, secondo me, la sensazione di essere in un angolo dimenticato dell’Oregon: a parte la presenza di coyote, la Landa potrebbe trovarsi ovunque.
Anche dei personaggi si può dire la stessa cosa: sono tutti piuttosto stereotipati, e nessuno risulta memorabile.  Anche Alexandra, la “cattiva”, è alquanto priva di spessore, anche perché le vicende che l’hanno portata a volersi vendicare del bosco, e che potevano risultare interessanti se bene inserite nella trama,  vengono invece raccontate in modo piuttosto sommario.
Persino la protagonista Prue, che all’inizio promette molto bene, rapidamente cessa di evolversi, dato che le sue caratteristiche di ragazzina moderna e volitiva alle prese con un mondo fuori dalla sua esperienza finiscono in secondo piano, poiché la trama non le dà occasioni per tirarle fuori. Non ci sono enigmi da risolvere, e nemmeno dilemmi etici da superare. Quasi tutto il romanzo si riduce a una sequela di inseguimenti e battaglie (e lascia anche un po’ perplessi questa enfasi sul valore guerresco, con ragazzini dodicenni che combattono e uccidono).
Non si può dire che il libro sia brutto, e immagino che un ragazzino possa apprezzarlo, ma a mio avviso i libri per ragazzi migliori sono quelli che anche un adulto può leggere, e io mi sono discretamente annoiato, nonostante io sia un discreto consumatore del genere, da Harry Potter a Bartimeus. Nel complesso non me la sento di consigliarlo.

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In fondo il buio

Worlorn è un pianeta vagabondo, diventato abitabile solo per pochi anni in occasione del suo passaggio accanto a una supergigante rossa. Le popolazione umane dei Sistemi Esterni lo hanno scelto come sede di un grande Festival, ma ormai il pianeta è stato abbandonato e sta per ritornare nel buio. Quando Dirk, seguendo il richiamo di un antico amore, arriva su Worlorn, lo trova abitato da poche decine di persone, tra cui gli appartenenti a una civiltà imbarbarita il cui  codice d’onore lui non riesce a comprendere, e che potrebbe metterlo in pericolo…

Il colossale successo, anche italiano, della serie televisiva Game of Thrones ha affollato le librerie di lettori in crisi di astinenza da opere di George R. R. Martin. Il quale, prima di cimentarsi nella smisurata saga A Song of Ice and Fire da cui la serie e tratta, aveva già alle spalle vari decenni di carriera come autore (non solo di fantasy, ma anche di fantascienza e horror). A prendersi il compito di riportare in libreria le vecchie opere di Martin è la benemerita casa editrice romana Gargoyle, che dopo l’horror Il battello del delirio pubblica ora il romanzo di esordio di Martin, il fantascientifico In fondo al buio (il prossimo sarà il thriller di ambientazione rock con elementi fantasy Armageddon Rag).
Il romanzo è uscito nel 1977 col titolo Dying of the Light, ed è già stato pubblicato in Italia da Armenia e poi da Fanucci col titolo La luce morente. Gargoyle lo ripropone in una nuova traduzione di Tarallo e Tintori; non so come fossero le precedenti, ma questa versione mi pare di buona qualità, e non ho riscontrato problemi (io avrei tradotto in italiano i nomi con un significato inglese, come Challenge, Ironjade ecc., ma è questione di gusto personale). Da criticare invece i troppi refusi e il titolo, decisamente meno evocativo ed elegante rispetto al precedente (e poi, a mio avviso, non si dovrebbe cambiare il titolo di un libro già edito, se non per ottimi motivi).
Ho detto che In fondo il buio è un libro fantascientifico, ma è vero solo fino a un certo punto. Lo è in quanto ambientato in un plausibile futuro dell’umanità, senza magia e affini; tuttavia la storia sfrutta pochissimo gli elementi tecnologici, e avrebbe potuto essere ambientata anche in un universo fantasy facendo pochissimi cambiamenti. Peraltro i riferimenti scientifici, anche se scarsi, sono ben curati (¹).
Sostanzialmente i punti di forza di In fondo il buio sono due. Il primo è l’ambientazione: Worlorn è uno scenario affascinante. Martin non ci sommerge di dettagli come farebbero altri autori, e molto resta indeterminato, ma ci dà tutte le informazioni necessarie perché possiamo percepirlo come un mondo con una sua identità e che sta lentamente ma inesorabilmente morendo. Anche le descrizioni delle città abbandonate, ciascuna con le peculiarità della razza che l’ha costruita, sono affascinanti. In particolare Kryne Lamiya, la città musicale che canta incessantemente la vanità del tutto, è un’invenzione degna del miglior Ballard.
Il secondo punto di forza è l’interazione tra i personaggi. Già agli esordi Martin aveva la dote che gli ha permesso di ottenere tanto successo con le Cronache del ghiaccio e del fuoco, e cioè la capacità di creare personaggi non stereotipati, con personalità complesse e credibili. In Martin non esistono figure positive e negative, ognuno ha i propri limiti e le proprie motivazioni con cui il lettore può empatizzare, tutti commettono errori, e spesso non è facile determinare chi abbia ragione e chi torto. Il risultato è una trama avvincente e imprevedibile.
In fondo il buio è la storia di un uomo che, avvicinandosi alla vecchiaia, si trova a vivere su un pianeta che è la perfetta metafora della vanità dell’esistenza umana, e deve affrontare la prospettiva della morte e dell’oblio nella consapevolezza di non aver raggiunto i propri obiettivi e di non essere stato all’altezza di ciò che voleva diventare. Nel confrontarsi con la cultura retrograda e ostile di Alto Kavalan, Dirk troverà nuovi modi per definire se stesso, e ne uscirà cambiato in modo sorprendente, anche se il finale del tutto antitrionfalistico lo lascerà comunque pieno di dubbi ad affrontare un destino incerto.
Nel complesso il libro è una lettura molto piacevole e non risente dei suoi 35 anni di età. È un ottimo esempio di come si possa costruire un romanzo con una notevole dose di azione in modo non banale e con personaggi ricchi di spessore. Non arrivo a definirlo indispensabile (il suo difetto principale: è un po’ troppo monotematico), ma chi apprezza Martin e la sua abilità nel distillare psicologie può acquistarlo a colpo sicuro. Lo sconsiglierei unicamente a chi apprezza solo il lato tecnologico della fantascienza e a chi ama i ritmi concitati (è un romanzo a lenta combustione: prima che i conflitti tra i personaggi si scatenino deve trascorrere quasi metà della trama). In ogni caso grazie a Gargoyle per riportare in libreria gemme dimenticate della fantascienza (il mese prossimo sarà il turno di Città delle Illusioni di Ursula K. LeGuin.).
 
(¹): Per esempio, ho molto apprezzato che la descrizione del sistema di sette stelle che Worlorn ha sfiorato rispetti la meccanica celeste: i sei soli più piccoli che circondano la supergigante ruotano tutti sulla stessa orbita a 60° l’uno dall’altro, occupando i rispettivi punti lagrangiani, e quindi il sistema è intrinsecamente stabile. La cosa non ha alcuna importanza per la trama e può essere colta solo da chi conosce la meccanica spaziale, ma è il tipo di dettaglio che mi fa stimare l’autore.
Vale anche la pena di notare, anche se Martin non poteva saperlo quando scrisse il romanzo, che i pianeti vagabondi come Worlorn potrebbero essere estremamente comuni nella nostra Galassia. Secondo un recente studio del professor Chandra Wickramasinghe potrebbero essere più numerosi delle stesse stelle.

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365 racconti sulla fine del mondo

È disponibile da ieri, pubblicato da Delos Books, il volume 365 racconti sulla fine del mondo. Il titolo è del tutto autoesplicativo: si tratta di 365 racconti brevissimi (2000 caratteri al massimo ciascuno), ognuno collocato in una data dell’anno in corso e sul tema della fine del mondo, attualmente tanto di moda (se state pensando che il 2012 è bisestile e quindi le storie dovrebbero essere 366, sappiate che ad Alan D. Altieri è stato concesso il doppio dello spazio, estendendosi su 28 e 29 febbraio).
Motivo principale per cui vi parlo di questa antologia è che contiene anche un mio miniracconto, intitolato Cielo blu e posizionato al 26 novembre. È quello che si può definire un “racconto espresso”: dal momento in cui ho cominciato a scriverlo a quello in cui è stato accettato nell’antologia è passata poco più di un’ora! Dubito che un mio exploit del genere si ripeterà mai più. 😀
Ho partecipato volentieri all’iniziativa perché mi offriva la possibilità di mettermi alla prova, ma inizialmente consideravo l’operazione una “furbata”: con 365 autori, basta che ciascuno ne compri tre copie è se si superano già le 1000 copie vendute, assicurando un buon ritorno economico; facile perciò che si pensasse a soddisfare la vanità degli autori più che l’interesse del lettore generico. Devo dire però che mi sono completamente ricreduto; il libro ha una bella veste grafica, viene ben promosso (e si parla già di future edizioni), ma soprattutto, dai primi racconti che ho letto, mi sembra che la qualità sia piuttosto alta. Del resto, vedo che tra gli autori ci sono non solo esordienti, ma anche vari nomi noti e della cui abilità di scrittori mi fido.
Se tutto questo vi ha incuriosito, il libro lo trovate qui. Se poi doveste comprarlo, fatemi sapere cosa ne pensate del mio racconto.

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Flashback

More about FlashbackTra un quarto di secolo, gli Stati Uniti sono precipitati in una profonda decadenza. Non solo hanno completamente perso lo status di superpotenza e sono ridotti a vassalli di Stati più ricchi, non solo sono devastati da secessioni, criminalità, terrorismo e rivolte interne, ma la quasi totalità della popolazione è ormai dipendente dal flashback, una droga che consente di rivivere a piacere i propri ricordi preferiti. Proprio a causa del flashback, che usa di continuo per far rivivere il ricordo della moglie Dara, uccisa in un incidente stradale, Nick Bottom è stato cacciato dalla polizia e ha abbandonato il figlio adolescente. Quando però un ricco magnate giapponese, il cui figlio è stato assassinato sei anni prima, gli offre una forte somma per riaprire l’indagine rimasta senza colpevoli, Nick accetta di malavoglia l’incarico.

Soltanto un paio di mesi fa avevo scritto che, finché Dan Simmons avesse continuato a scrivere libri eccezionali come Drood, delle sue opinioni politiche mi sarebbe importato poco. Purtroppo però quelle opinioni hanno finito col tracimare anche nei suoi libri, e il risultato è qualcosa che definire impresentabile è ancora poco.
Ma andiamo con ordine: in primo luogo dimenticatevi le fantasmagoriche invenzioni di romanzi come Hyperion: Flashback è un thriller ambientato in un futuro molto vicino al nostro presente. La fattura è professionale, e la trama è avvincente a sufficienza da volerlo leggere fino in fondo, ma come romanzo di indagine non spicca particolarmente, anche a causa dei personaggi piuttosto stereotipati. Il protagonista è un ex-poliziotto che usa la droga per rivivere il ricordo della moglie morta, e al suo fianco c’è un giapponese tutto di un pezzo che ha giurato di fare seppuku in caso di fallimento della missione: non è roba particolarmente originale, e a volte si ha l’impressione di leggere una specie di cocktail tra Strange Days e Black Rain (del resto i riferimenti cinematografici hanno una parte importante nel romanzo). Certo, in quasi 600 pagine si trova qualche buona idea (ho apprezzato particolarmente le magliette animate da intelligenze artificiali, come pure il riferimento shakespeariano che Simmons riesce a innestare sul suo protagonista), ma certamente non al livello cui l’autore ci ha abituato.
La parte “interessante” del romanzo non dovrebbe però essere l’indagine, ma lo sfondo, l’ambientazione in una versione decaduta degli Stati Uniti. Ed è qui che nascono i problemi. Perché Simmons ci ha riversato una visione politica talmente rozza, estremista e reazionaria da far apparire tutti i candidati repubblicani alle ultime primarie come dei timidi moderati.
Il Male in Flashback è rappresentato dall’Islam, che non solo ha unificato tutto il Medio Oriente, il Nordafrica e parte dell’Asia in un unico Califfato, con triplice capitale a Teheran, Riad e Damasco (evidentemente le eterne rivalità tra sunniti e sciiti sono state miracolosamente accantonate), ma si è anche mangiato buona parte dell’Europa, avvolgendola in una cappa oscurantista. E già qui si potrebbe dire perlomeno che Simmons non è stato molto originale: tanto per fare un esempio, molti dei racconti dell’antologia italiana Sul Filo del Rasoio si svolgono in scenari simili, e sarebbe legittimo aspettarsi da uno dei massimi autori statunitensi qualcosa di più innovativo dello spauracchio che da anni viene agitato dall’ultradestra USA. Ma al di là di questo, va detto che l’Islam viene descritto da Simmons con toni che sfiorano (e forse raggiungono) il razzismo, e che sarebbero più adatti alla terra di Mordor che non a una delle principali religioni del pianeta. L’Islam di Simmons sembra perseguire l’odio e il Male al di là di qualunque logica politica. Nel romanzo il Califfato è la principale superpotenza mondiale e gli Stati Uniti ne sono diventati succubi al punto da permettere che si costruisca una moschea su Ground Zero e vi si festeggi ogni giorno l’anniversario dell’11 settembre, ma gli islamici non sono comunque soddisfatti e lanciano attentati suicidi sugli USA con cadenza praticamente giornaliera. E, nonostante Israele sia stato abbandonato dagli USA, cosa che dovrebbe averlo reso inerme o quasi di fronte alla superpotenza islamica, il Califfato ha preferito distruggerlo con 11 bombe atomiche, rendendolo inabitabile e facendo piovere radiazioni anche sui palestinesi (se questa visione non vi sembra abbastanza faziosa, aggiungo che gli israeliani, con lo spirito pacifista che li ha sempre contraddistinti, nel romanzo hanno rinunciato spontaneamente alla rappresaglia nucleare che avevano il potere di scatenare). Nessun personaggio del libro prende mai le difese dell’Islam, e persino le nazioni dell’Estremo Oriente che non hanno mai avuto attriti con la religione di Maometto pensano che si tratti di una minaccia gravissima. Per usare le parole di uno dei personaggi, l’Islam è

una barbarica religione del deserto intenzionata a dominare la Terra e a trattare le religioni conquistate come schiavi meno che umani.

Non mi metto neppure a elencare i motivi per cui affermazioni simili siano del tutto prive di basi storiche o politiche e andrebbero semplicemente rifiutate da qualunque persona sensata (d’accordo, lo dice un personaggio, non lo dice Simmons, però nulla lascia pensare che l’autore possa non condividere la sostanza di questo pensiero).
Fosse solo questo, si tratterebbe soltanto di un caso di isterismo islamofobo abbastanza comune negli USA post-11-settembre. Purtroppo c’è anche dell’altro. Simmons, sempre per bocca dei suoi personaggi e senza esporre alcun punto di vista contrario, nel corso del romanzo ci spiega perché gli USA sono caduti in decadenza e sono impotenti di fronte all’avanzata dell’Islam. E la colpa è degli intellettuali terzomondisti, che si sono stupidamente interrogati sulle colpe dell’America aprendo le porte ai nuovi Hitler; dei pacifisti, che hanno perseguito un’assurda politica di disarmo mentre il nemico si armava; degli ecologisti, che hanno reso l’America dipendente da tecnologie costose e destinate al fallimento (sì, perché nel mondo degradato descritto da Simmons ci sono migliaia di pale eoliche inutilizzate per mancanza di manutenzione, mentre le centrali nucleari, chissà perché, funzionano benissimo; il riscaldamento globale, invece, è solo una ciarlataneria priva di fondamento scientifico); dei programmi a favore delle minoranze, che hanno dato il potere a incapaci e corrotti invece che a chi lo meritava veramente; e infine di Barack Obama, che con i suoi costosi progetti di equità sociale ha portato il Paese alla bancarotta.
Contro Obama Simmons ha il dente particolarmente avvelenato: per lui le timidissime riforme dell’attuale presidente, credeteci o no, stanno trasformando gli USA in un Paese socialista. E si va ancora oltre: Simmons non spiega in modo molto chiaro cosa sia avvenuto (forse un po’ di pudore ce l’ha anche lui), ma nel mondo che descrive i Repubblicani non esistono più, e il loro pensiero si può ascoltare solo su radio clandestine. Ebbene sì: nel paese del maccartismo, per Dan Simmons è sufficiente che un presidente voglia dare l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini per evocare il partito unico e la dittatura del proletariato.
Devo aggiungere altro? Mi sembra che il quadro sia chiaro. Flashback è un fanta-thriller scritto con una buona tecnica (e per questo nella mia rubrica su XL si prenderà una risicata sufficienza), ma è anche un libro becero, razzista e, sì, anche profondamente ignorante. Come un letterato del livello di Simmons possa esprimersi politicamente in questo modo, per me resterà un mistero, ed è forse un sintomo di quell’incombente decadenza degli USA che con questo libro l’autore intenderebbe contrastare.
La cosa più triste è proprio che, come metafora, il libro funziona comunque nel rappresentare il popolo statunitense come perso in un artificiale sogno di glorie passate mentre il suo Paese va in pezzi. Simmons crede di aver descritto i propri compatrioti, ma in realtà ha descritto se stesso: un uomo che pensa che negando tutti i problemi, cercando un nemico esterno e mandandogli contro i ranger del Texas a cavallo tutto si risolverà. Esca dal sogno, mister Simmons.

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BitCity Magazine

BitCity Magazine - numero 0
Ciao a tutti!
Contrariamente a quanto avevo promesso (ma sono sicuro che ve lo aspettavate), ultimamente ho latitato un po’ dal blog. Il motivo è, ne più ne meno, il sovraccarico di lavoro.
Una delle cose che mi hanno portato via molto tempo è una nuova rivista che è uscita pochi giorni fa. Si chiama BitCity Magazine, ed è un periodico dedicato alla tecnologia. Al momento è previsto che esca una volta al mese, e solo in formato elettronico: potete leggerla sul sito, scaricarla in formato PDF per leggerla offline e, prossimamente, anche installare sul vostro smartphone o tablet apposite app per la lettura, in formato iOS o Android.
È ovviamente un parere di parte, ma sono convinto che la rivista sia ben fatta, con una bella grafica e articoli non banali. Soprattutto, è completamente gratuita. Potete leggerla o scaricarla senza pagare un centesimo, e così sarà anche per i prossimi numeri.
Di conseguenza, mi fareste un grande piacere se la scaricaste e leggeste. Ancora più grande sarebbe il piacere se faceste sapere a tutti i vostri contatti, amici e conoscenti che la rivista esiste.
Mi piacerebbe inoltre mi diceste che cosa vi piace della rivista, cosa invece non va, e cosa vorreste vedere sui numeri futuri. E sarebbe ancora meglio se, invece che farlo commentando qui o scrivendomi in privato, lo faceste su Facebook, su Twitter o su Google+.
Grazie e buona lettura!

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I bit della memoria

Anche se l’ipotesi che la mente sia un “software” è ancora molto controversa, viene comunque spontaneo paragonare il cervello a un computer, che usa i vari organi del corpo come periferiche ed elabora i dati che da essi riceve. Tuttavia, anche se questa idea è molto ben radicata, in realtà siamo parecchio lontani dall’aver capito in che modo il cervello opera sui dati. Se fosse simile a un computer, dovrebbe avere l’equivalente di una RAM per la memoria a breve trmine, e di un disco rigido (o SSD, se vogliamo fare i moderni) per quella a lungo termine. finora non sapevamo quali fossero gli equivalenti cerebrali di questi componenti; non sapevamo, cioè, come il cervello “fissa” i ricordi.  Gli esperimenti passati portano a ritenere che il formarsi di un ricordo equivalga al rafforzarsi di una determinata connessione tra alcuni neuroni del cervello, che li porta a scambiarsi impulsi elettrici secondo uno schema fisso. Queste connessioni, tuttavia, decadono in un tempo abbastanza breve, mentre i nostri ricordi possono rimanere per una vita intera. Ci deve essere quindi un meccanismo con cui il cervello “salva” queste connessioni per poi poterle ricreare quando servono.
Ora un gruppo di scienziati ha ipotizzato un meccanismo con cui questo processo può avvenire. Si tratta di una proteina, indicata col simbolo CaMKII, che viene prodotta durante il processo di creazione delle connessioni sinaptiche e va poi a legarsi con l’interno dei neuroni. In tale proteina rimane memorizzata la forma della connessione che l’ha generata.
La cosa più interessante è che le informazioni che vengono salvate nella proteina sono in forma binaria, come quelle dei computer: la proteina è di forma esagonale, e a ogni vertice può esserci o meno un gruppo fosfato. La presenza o assenza di questi gruppi equivale a un bit di informazione (0 o 1). La differenza rispetto ai computer è che, essendo gli elementi di proteina esagonali, un “byte” è composto da 6 bit invece che da 8.
Naturalmente il fatto che abbiamo scoperto la natura di questi bir non significa che siamo pronti a leggere i ricordi del cervello… ma il traguardo si è avvicinato un po’.
Maggiori informazioni sull’argomento nell’articolo che ho pubblicato su Nòva 24 di domenica scorsa, che potete leggere facendo clic qui sotto:

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Le insidie del pesce-bufalo

Pesce-bufalaCiao a tutti.
Mi rendo conto solo ora che sono più di tre settimane che non pubblico alcun post. Non era mia intenzione fermarmi per tanto tempo. In questi giorni sono presissimo con molti progetti, di molti dei quali non posso ancora parlare ma che sicuramente emergeranno presto anche su questo blog.
In ogni caso, da questo momento riprendono più o meno regolarmente le pubblicazioni. E volevo cominciare raccontandovi una cosa che mi è successa ieri.
Tutto è cominciato da un tweet di William Gibson che rimandava a un articolo sugli scacchi. Ho deciso di fare clic perché l’accoppiata Gibson/scacchi sembrava interessante. E sono arrivato a un’interessante intervista pubblicata in inglese da un sito specializzato tedesco, in cui Vasik Rajlich, autore di un apprezzato software per il gioco degli scacchi, descriveva il modo in cui aveva utilizzato molti mesi di tempo macchina su un supercomputer a 30 core per analizzare completamente la più comune apertura, il gambitto di re, e verificare la correttezza dell’analisi compiuta a suo tempo da Bobby Fischer su di essa. In pratica aveva computato ogni possibile partita giocabile dopo quell’apertura, per verificare, assumendo che ambedue i giocatori giocassero nel modo migliore possibile, quali risposte risultavano vincenti e quali perdenti. Il programmatore proseguiva spiegando come alla base di questo risultato ci fosse un algoritmo in grado di eliminare le partite “sicuramente perse” senza calcolarle fino in fondo, riducendo così di molto la quantità di calcoli da fare. Infine spiegava come l’analisi compiuta da Fischer fosse sostanzialmente corretta, ma non del tutto: alcune contromosse apparentemente perdenti risultavano invece vincenti, e viceversa.
Appena terminata la lettura dell’intervista, mi sono detto: questo è un risultato di portata storica. Considerato che all’inizio di una partita il bianco ha solo 20 possibili mosse per aprire, è evidente che basta impiegare una potenza di calcolo di un solo ordine di grandezza superiore per analizzare l’intero gioco degli scacchi. Era l’argomento ideale per un articolo: di sicuro interesse scientifico, ma anche pieno di spunti interessanti per “l’uomo della strada”. Il pezzo mi si stava già scrivendo in testa da solo: avrei cominciato citando la famosa leggenda sull’origine degli scacchi, in cui l’inventore del gioco chiede in cambio un chicco di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza e così via, giungendo a un numero esorbitante, per dare al lettore l’idea di quante possibili partite esistano e di quanto fosse straordinario l’essere riusciti ad analizzarle tutte in blocco. Dovevo solo decidere a quale testata l’argomento interessasse di più.
A quel punto è arivato un secondo tweet di William Gibson, in realtà un retweet di un suo follower che lo informava che si era trattato di un pesce d’aprile. Gli stessi autori dello scherzo spiegano che la potenza di calcolo necessaria per fare una cosa del genere è superiore di 25 ordini di grandezza rispetto a quella oggi disponibile.
A quanto pare ci ero cascato completamente. La mia unica consolazione è quella di essere in buona compagnia. Non solo prima di me ci era cascato William Gibson, ma pare che gli autori siano stati tempestati di richieste di interviste da giornali e televisioni di tutto il mondo!
Credo che questo episodio mi abbia impartito una sana lezione di giornalismo. Mi piace pensare che, se avessi veramente dovuto scrivere un articolo su questo argomento, avrei comunque scoperto lo scherzo prima di arrivare alla pubblicazione. Ma cosa sarebbe successo se, invece che scrivere per settimanali e mensili, io fossi stato il redattore di un quotidiano? Molto probabilmente avrei buttato dentro la notizia senza troppe verifiche per evitare che ci arrivasse prima qualcun altro. Ed è così che nascono le bufale.
Credo sia necessario tenere presenti le seguenti regole:

  • Mai fidarsi ciecamente dell’autorità. William Gibson è una persona informatissima sugli argomenti più disparati e all’avanguardia, ma nemmeno lui è infallibile: infatti in questo caso ha diffuso una notizia falsa credendola vera. Non bisogna mai dare per scontato che qualcuno abbia già controllato la veridicità della notizia prima di noi.
  • Se è plausibile, non vuol dire che sia vero. Se mi avessero detto semplicemente che un supercomputer era riuscito a calcolare tutte le possibili partite a scacchi, avrei risposto senza esitare che era impossibile. Ma questo pesce d’aprile ha minato il mio scetticismo descrivendo una tecnica per diminuire l’ordine di grandezza dei calcoli necessari. Una spiegazione del tutto plausibile, se non fosse che la riduzione non è sufficiente. Anche le affermazioni plausibili vanno verificate.
  • Attenzione agli argomenti che non si conoscono abbastanza. Io so giocare a scacchi, ma non sono certamente un esperto. L’articolo-pesce era pieno di indizi che suggerivano la sua vera natura. Un esperto di scacchi avrebbe trovato incredibili le conclusioni cui giungeva l’analisi, e si sarebbe insospettito, mentre io non ci trovavo niente di strano. È facilissimo prendere cantonate negli argomenti di cui si ha solo un’infarinatura.

Ovviamente queste regole non sono facili da applicare. La verità è che, se io scrivessi solo di argomenti che conosco assolutamente alla perfezione, e solo dopo aver verificato ogni singola affermazione contenuta nell’articolo, probabilmente non scriverei più nulla. Tuttavia oggi i tempi del giornalismo sono diventati talmente rapidi che diventa obbligatorio non abbassare mai la guardia. Non si sa mai quando il pesce-bufalo potrà colpire.

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Computer quantici

La produzione di un chip quantico a 16 bit D-Wave

Dal nome sembrerebbero un gadget tratto da qualche gioco di ruolo di fantascienza come Eclipse Phase. Ma in realtà i computer quantici sono qualcosa che potrebbe esistere presto (o forse già esiste) e che potrebbe far fare all’informatica un salto in avanti di portata incalcolabile.
Cos’è un computer quantico? Sappiamo tutti che, per manipolare l’informazione, i computer riducono tutto in bit, cioè cifre binarie che possono assumere il valore di 0 o 1. Il processore del computer con cui state leggendo questo post possiede un registro in cui sono salvati i bit su cui sta lavorando (probabilmente 32 o 64 bit), e a ogni ciclo di funzionamento compie delle operazioni matematiche su questi bit cambiandone il valore.
I bit in questione sono rappresentati dallo stato di componenti all’interno del processore. In un computer normale si tratta di componenti macroscopiche (per modo di dire, perché nei chip odierni ci vuole un microscopio molto potente per vederle; ma comunque si tratta ancora di oggetti formati da un bel numero di atomi). In un computer quantico, invece, per rappresentare queste unità minime di informazione si utilizzano particelle subatomiche. Per esempio, si può decidere che se o spin (momento angolare) di un elettrone è in un verso, vale 0, altrimenti vale 1.
I bit codificati in questo modo vengono chiamati qbit. Che ci si guadagna? Il punto è che, quando si lavora in questa scala di grandezze, entra in gioco la meccanica quantistica, che ci dice che lo stato di una particella non è mai definito, ma è una sovrapposizione di tutti gli stati possibili, a meno che un osservatore non lo vada a verificare. In pratica lo spin del nostro elettrone, mentre non lo guardiamo, non va né del tutto in un senso né nell’altro, ma è un mix delle due possibilità. Questo, che a prima vista potrebbe sembrare un problema, può essere utilizzato a nostro vantaggio per certi tipi di calcoli. Per esempio, se  vogliamo risolvere un problema che richiede di verificare il valore di una funzione per n valori diversi e poi farne la media, con un computer classico dobbiamo eseguire il calcolo n volte. Se invece usiamo un computer quantico i cui qbit possono assumere simultaneamente n valori diversi, è possibile eseguire il calcolo una sola volta e ottenere un risultato che, statisticamente, sarà pari alla media di tutti i risultati, risparmiando un gran numero di cicli di calcolo. Al crescere del numero dei qbit, la quantità dei cicli di calcolo risparmiati cresce esponenzialmente, tanto che un computer quantico con varie centinaia di qbit a disposizione potrebbe facilmente superare la potenza di tutti i computer oggi disponibili per l’umanità.
Ovviamente, una cosa è enunciare il principio, un’altra è metterlo in pratica. “Scrivere” un dato usando singole particelle subatomiche richiede componenti estremamente sofisticate, che stiamo cominciando a malapena a concepire. Inoltre, perché sia possibile lavorare con i qbit, occorre sfruttare un’altra proprietà della meccanica quantistica, che è l’entanglement. In pratica, se una serie di particelle viene prodotta da un unico processo quantistico, e poi andiamo a misurare una proprietà di una di esse (che, come abbiamo visto prima, è indefinita fino al momento dela misura), faremo diventare definita la proprietà non solo della particella misurata, ma di tutte le particelle coinvolte. Questo ci aiuta a misurare in una sola volta lo stato di tutti i qbit, ma nondimeno, al crescere del loro numero, produrre insiemi di qbit legati dall’entanglement diventa molto complicato. Infine, perché tutto questo abbia un senso occorre che non ci siano influenze dal mondo esterno: qualunque interfernza causa la decoerenza, cioè interrompe l’entanglement e rende impossibile leggere il valore dei qbit. Per evitare la decoerenza occorre prendere misure drastiche, come lavorare vicino allo zero assoluto.
Il D-Wave One, primo computer quantico commerciale

Nonostante tutto questo, esiste già chi produce un computer quantico: l’azienda canadese D-Wave ha recentemente venduto alla Lockeed-Martin per dieci milioni di dollari un primo esemplare di computer quantico, il D-Wave One. C’è però chi è scettico: un esperto del settore come Scott Aaronson ha dichiarato più volte che al momento attuale non esiste una tecnologia in grado di fare ciò che D-Wave dichiara (anche se ultimamente si è dichiarato disposto a rivedere il proprio giudizio di fronte a prove più approfondite).
Tuttavia c’è chi è ancora più scettico, e ritiene che i computer quantici siano una bufala, “Il moto perpetuo del 21esimo secolo”, qualcosa che è fisicamente impossibile costruire. Secondo costoro, al crescere del numero dei qbit cresce la difficoltà di leggerne i valori isolando il segnale dal rumore, e si raggiungerà ben presto un limite massimo oltre il quale i computer quantici non potranno andare. Un limite che non permetterà di usarli per scopi effettivamente utili. Aaronson non è d’accordo, e sul suo blog ha lanciato una sfida: pagherà 100.000  $ a chi dimostrerà in modo convincente che esiste un limite fisico, e non solo tecnologico, alla costruzione di computer quantici di potenza a piacere.
È una sfida che ha un sapore filosofico. Non si tratta solo di risolvere un problema tecnico, ma di andare a vedere se il mondo del tutto controintuitivo dei quanti, in cui non c’è nulla di definito e ogni cosa assume più stati contemporaneamente, è confinato nel regno dell’infinitamente piccolo, o se invece noi possiamo sfruttare le sue proprietà nel mondo macroscopico per effettuare un calcolo.  Finora chi si bocciava le teorie quantistiche come impossibili o assurde ha sempre avuto torto, vedremo come andrà questa volta.
Su questo tema ho scritto un articolo pubblicato sulla prima pagina di Nòva 24 di domenica 5 marzo. Potete leggerlo facendo clic quì sotto:

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Radio ga-ga

Stanotte ritorno in diretta su Radio Popolare per un po’ di chiacchiere, musica e fantascienza. Come sempre la trasmissione è a un orario infame: dalle 0.45 all’1.00 e (dopo la replica di La Caccia) dall’1.20 fino a molto tardi.
Parleremo sicuramente del romanzo Morire per vivere di John Scalzi, di cui ho già parlato qui. Del trentennale della morte di Philip K. Dick. Di un’antologia di racconti fantastici sorprendentemente bella che sto leggendo. Della mia nuova rubrica su XL. E, come sempre, di tutto quello che ci viene in mente.

Forse metterò online i file della trasmissione e forse no, perciò, se volete essere sicuri di sentirla, non vi rimane che stare svegli e fare clic all’ora giusta sul link qui sotto:

Diretta Radio Popolare

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Dalla visto da me

Lo so, sono due giorni che chiunque ripropone canzoni di Lucio Dalla e ormai ne avete abbastanza. Il bello di Dalla, però, è che la sua importanza non si esaurisce in una decina di brani famosi: era un musicista poliedrico, e ha lasciato un enorme repertorio in cui ognuno può andare a cercare ciò che lo colpisce di più. Quindi mi concedo di commemorarlo a modo mio; del resto oggi è il suo compleanno.
Non sono stato un fan di Dalla. Ho scoperto il rock piuttosto tardi, nel 1979 o giù di lì: avevo 13 anni, cominciavo timidamente ad ascoltare i Police, e quelli che unanimemente vengono considerati i dischi più straordinari del cantautore bolognese erano già usciti, decisamente troppo sofisticati perché allora potessi capirli. Li ho scoperti molto tempo dopo.
Tuttavia Dalla ce l’avevo ben presente, anzi, era quasi uno di famiglia. Questo perché era stato il presentatore della prima edizione di Gli eroi di cartone. Era un programma della TV dei ragazzi della RAI, che proponeva vari cartoni animati. Il mio preferito era Nembo Kid (cui in Italia avevano affibbiato il nome autarchico di Superman, ma in realtà era, credo, Hawkman), ma il bello della trasmissione era che facevano vedere anche tanti classici, dando loro un inquadramento storico e anche tecnico, spiegando cioè come venivano fatti. Era il 1970, avevo cinque anni.
Pensateci bene: era la RAI ingessata di Bernabei, quella che per tanti anni abbiamo deprecato, in cui era proibito dire “membro” e per una battuta sul Presidente della Repubblica si rischiava il posto. Però era anche quella in cui ai bambini si proponeva un programma che, senza minimamente essere noioso (io non me ne perdevo una puntata!), era anche culturale nel senso migliore del termine. E lo facevano condurre a un cantautore 27enne irsuto, che per giunta usava come sigla una canzone nonsense a base di scat e jazz, come questa:

Fumetto era stata incisa l’anno prima nel secondo album di Dalla, Terra di Gaibola, e credo sia rimasta nel cuore di tanti bambini dell’epoca. Per esempio in quello di Makkox, evidentemente. Ecco, sono grato a Dalla per quella trasmissione, di cui ricordo ben poco, ma dalla quale sono sicuro di avere imparato tantissimo.
L’altra canzone che vi propongo è di diversi anni più tardi, del 1985. Proviene da Viaggi Organizzati, album in cui Dalla comincia la collaborazione con Mauro Malavasi, cosa che ancora oggi molti vituperano. A me invece il suono molto elettronico di quel periodo (non solo di questo disco ma anche di altri dischi italiani, come E già di Lucio Battisti) piace tuttora molto. Ma, al di là dell’arrangiamento, Washington è una gran bella canzone. Ed è tra l’altro un autentica canzone fantascientifica, non della fantascienza favolistica cui occasionalmente ricorrono i cantautori nostrani, ma proprio fantascienza vera, lo spaccato di un mondo complicato e disperato. E Dalla la interpreta benissimo con una tensione che sale lentamente fino a esplodere nel finale.
Per molti anni, quando si parlava di Dalla, io citavo Washington e la risposta piu frequente che ottenevo era “Huh?”. Mi fa piacere che Luigi Bernardi mi abbia detto che lui la considera una delle più belle canzoni italiane di sempre.

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