Poco più di un mese fa ho partecipato a una notturna di Radio Popolare che seguiva di poco la convention di fantascienza Italcon nell’ambito dei Delos Days. Qui sotto trovate l’audio della trasmissione. Oltre al sottoscritto e a Renato Scuffietti partecipavano Emanuele Manco, Luca Tarenzi e, telefonicamente, Alberto Cola.
Mi scuso per aver messo il tutto online così tardi. Purtroppo ho avuto qualche problema tecnico. Devo rinunciare a usare SoundCloud: il lettore online è bellissimo, ma lo spazio dell’account gratuito è troppo limitato, e quello a pagamento costa troppo. Quindi tutto è diviso in spezzoni di una decina di minuti in formato MP3.
Buon ascolto!
Notturna Delos Days 1
Notturna Delos Days 2
Notturna Delos Days 3
Notturna Delos Days 4
Notturna Delos Days 5
Notturna Delos Days 6
Notturna Delos Days 7
Notturna Delos Days 8
Notturna Delos Days 9
Sandman Slim
James pensava che far parte di una congrega di maghi nella Los Angeles di oggi fosse molto divertente. Finché i suoi compagni non l’hanno tradito e spedito con un trucco all’Inferno. Da vivo. Solo che, per qualche strano motivo, James non è morto. È sopravvissuto e si è indurito. Tanto da assumere il nome di Sandman Slim e diventare un assassino al servizio di un principe demone, di cui gli stessi demoni hanno paura. Ora però è fuggito dall’Inferno con un trucco, ed è tornato a Los Angeles. Per vendicarsi.
Richard Kadrey è stato uno dei fondatori del cyberpunk, nonché l’autore, a mio avviso, di uno dei racconti di fantascienza più originali e provocatori mai scritti (Addio, Houston Street, addio, pubblicato in Italia nell’antologia Cavalieri Elettrici). Stupisce un po’ trovarlo come autore di un romanzo di urban fantasy. Chiariamo subito: Sandman Slim è un romanzo di puro intrattenimento, lontanissimo dalle opere concettuali e politicamente impegnate cui Kadrey ci aveva abituati. Cionondimeno lo consiglio a tutti, perché fa alla perfezione quello che un romando di intrattenimento dovrebbe fare, cioè avvincere e divertire.
Senza inventare nulla di davvero nuovo, Sandman Slim è un frullato di tutti gli ingredienti più sfiziosi che la recente letteratura (ma, direi, soprattutto il fumetto) ha creato in merito ad angeli e demoni. Hellblazer, Preacher, Hellboy ma, per certi versi, anche Harry Potter, forniscono il necessario background che Kadrey non si preoccupa più di tanto di spiegare, lasciando che il lettore trovi da solo la sua strada in una Los Angeles parallela piena di creature soprannaturali. Il tutto con un protagonista che, pur avendo acquisito poteri soprannaturali, è rimasto nell’intimo poco più che un adolescente, e affronta le situazioni più disperate sparando battutine come un Bruce Willis al massimo della forma.
Volendo, critiche al libro se ne potrebbero fare molte. Per esempio, nonostante si parli di Inferno e di demoni e si alluda spesso a orrori innominabili, di fatto il vero orrore non si tocca mai, e persino l’Inferno appare come poco più di un penitenziario in cui chi è abbastanza duro può persino vivere discretamente. Il che rende il libro leggibile anche dagli adolescenti, ma un po’ meno credibile. Inoltre Kadrey fa un lavoro eccellente nello smitizzare angeli e demoni, mostrando che sono tutti parte di uno stesso sistema, né buoni né cattivi in modo assoluto, ma entrambi grigi. Però poi si contraddice vistosamente introducendo dei “veri cattivi” di una malvagità totale. Insomma, come visione metafisica è molto hollywoodiana.
Infine, appare evidente che Kadrey ha previsto il libro come primo di una serie (infatti negli USA ne è già uscito un secondo e sta per uscirne un terzo), e perciò evita di sviluppare del tutto alcuni personaggi (che tiene in serbo per il futuro) e soprattutto conclude con un finale meno “definitivo” di quanto la trama avrebbe implicato.
Comunque sia io mi sono divertito parecchio a leggere Sandman Slim, che trabocca di trovate esilaranti e la cui tensione non cala assolutamente mai. E, quando ci si diverte tanto, si passa sopra volentieri a qualche difetto di fondo.
Questo è uno dei tanti libri che non ho avuto tempo di recensire ai tempi del vecchio blog. Lo faccio ora, un po’ perché è un libro che merita. Ma soprattutto perché è stato tradotto in italiano ed esce in questi giorni in libreria.
Non donna di provincie, ma bordello
Sapete tutti come sono andate le cose: ieri in Parlamento si è votato su una proposta di legge costituzionale dell’IDV per abolire le provincie italiane. Date le molte assenze nella maggioranza (contraria, nonostante l’abolizione delle provincie fosse nel programma elettorale del PDL), la legge avrebbe potuto passare. Non è passata perché il PD, a differenza del resto dell’opposizione, centristi compresi, si è astenuto.
Accusato di aver fatto mancare il proprio voto affossando un obiettivo che in teoria condivideva, il PD si è difeso dicendo che la proposta dell’IDV è demagogica, perché prevede la pura e semplice abolizione delle provincie senza preoccuparsi di chi andrà a svolgere i compiti che ora sono di loro competenza. Il PD al contrario, ha una sua proposta di legge molto più articolata che prevede un riordino generale delle autonomie locali e si occupa di questi problemi. Nelle parole del responsabile degli enti locali del PD, Davide Zoggia: “Se si vuole fare serio bisogna quindi dire a chi, una volta abolite , vanno le funzioni delle province, almeno quelle essenziali, come verrà dislocato il personale che oggi vi lavora”.
Ora, se le cose stessero così, effettivamente il PD qualche ragione per astenersi (forse) ce l’avrebbe avuta. Ma andiamo a vedere la realtà dei fatti.
Secondo la proposta di legge IDV, le provincie vengono semplicemente abolite. La parola “provincie” scompare dalla Costituzione, e i beni e le funzioni provinciali vengono trasferiti a comuni e regioni. Il come questo avverrà è demandato a una futura legge che il Parlamento si impegna a emanare entro un anno dall’abolizione. In poche parole, le provincie vengono abolite in modo totale e irreversibile, delle conseguenze si discuterà poi. Viene però prevista la possibilità di creare delle “città metropolitane” (altra cosa di cui si favoleggia da quando ero bambino).
Cosa dice invece la proposta di legge PD? Anche qui si parla della costituzione di città metropolitane. Per il resto, le provincie vengono soppresse d’ufficio solo dove sorgano città metropolitane. Non si prevede un’autentica abolizione delle provincie, ma solo un riassetto, con una modifica dei compiti attribuiti alle provincie, demandato a una futura legge, e l’accorpamento o soppressione delle provincie troppo piccole, demandato agli enti locali.
Ora, dopo aver letto ambedue le proposte di legge, non mi pare proprio che la proposta del PD sia più precisa di quella dell’IDV riguardo a chi si assumerà le funzioni delle provincie. Ambedue le proposte, infatti, demandano questa decisione a una legge successiva e ancora inesistente. Anzi, semmai da questo punto di vista è più chiara la proposta IDV, che perlomeno specifica che le funzioni andranno suddivise tra regioni e comuni. La proposta PD demanda tutto a un fantomatico riassetto ancora da definire.
Ma la differenza principale tra le due proposte è un’altra. E cioè che con la proposta IDV le provincie cesserebbero effettivamente di esistere, ovunque. Nella proposta del PD, no! A ben vedere, quella del PD non è una proposta per l’abolizione delle provincie. È una proposta che prevede la riforma dell’istituzione provincia (in direzione per ora imprecisata), e apre la possibilità (ma solo a discrezione degli enti locali) di abolire alcune delle provincie più inutili.
Emergono così ancora una volta inalterati, nonostante il recente cambiamento della situazione politica, tutti i problemi che da sempre affliggono il PD. Che si dimostra ancora una volta un partito incapace di compiere delle scelte nette, pure nei casi in cui la volontà dell’elettorato è chiarissima. L’abolizione delle provincie è un tema che riscuote un larghissimo consenso sia nell’elettorato del PD sia in larghe fasce di elettori che non lo votano. Per non parlare del fatto che una sconfitta del governo su questo tema, che per la Lega è di grande importanza, avrebbe creato ulteriori difficoltà a una maggioranza già allo sbando. Eppure ci si è astenuti. È difficile non pensare che la dirigenza del PD sia più impegnata a preservare i propri equilibri interni che a opporsi al peggior governo della storia della Repubblica.
Il caso Milano e i referendum non hanno insegnato nulla. Pisapia ha proposto agli elettori delle posizioni chiare e senza ambiguità, anche su temi controversi come l’immigrazione e le moschee, e ha stravinto. Sui referendum invece, il PD ha mantenuto a lungo una posizione intermedia, ed è stato costretto poi a cambiare atteggiamento per non essere scavalcato dai suoi elettori. Eppure il PD continua a proporsi come un partito da Prima Repubblica, che chiede agli elettori un mandato in bianco per fare poi da camera di compensazione tra tutti gli interessi in gioco e non scontentare nessuno. È la stessa linea che ha portato alle sconfitte brucianti degli ultimi anni, e che consente a partiti come IDV e SEL di rosicchiargli consensi, presentandosi come coloro che fanno la vera opposizione.
Se il PD presentasse non un complicato programma, ma una dozzina di provvedimenti inequivocabili e senza mezze misure (come potrebbe essere appunto l’abolizione delle provincie senza se e senza ma), si impegnasse sul serio a realizzarli, e si dichiarasse disposto ad allearsi con chiunque li condivida, vincerebbe le elezioni a mani basse. Se non lo farà, per la pochezza dei suoi dirigenti, dopo vent’anni di berlusconismo, se si lascerà sfuggire questa occasione, non verrà perdonato. Né dai suoi elettori, né dalla Storia.
La notte della Rete: diretta streaming
Qui, se tutto va bene, dovreste poter vedere la diretta streaming per protestare contro la direttiva che dà all’AGCom poteri illimitati di censura su Internet, come visto in un post precedente.
Online video chat by Ustream
Korolev
Nel 2084, una missione umana su Marte scopre i resti di un veicolo spaziale dall’aspetto antiquato, di cui nessuno conosce la provenienza. La spiegazione del mistero risale a più di un secolo prima, quando Sergei Korolev progettava le missioni spaziali dell’Unione Sovietica…
Ho sempre apprezzato lo stile di Paolo Aresi, che invariabilmente mi dà le stesse sensazioni della fantascienza di quando, bambino, ho cominciato ad apprezzare il genere. Quella fantascienza che non era inestricabilmente ibridata con thriller e noir, non richiedeva una laurea in fisica per essere compresa, non richiedeva personaggi complessi e non rivolgeva il suo sguardo verso lo spazio “interno”, ma aveva come protagonista assoluto l’universo extraterrestre e il senso di pericolo, mistero, meraviglia che questo può dare.
Non fraintendetemi: sono il primo ad apprezzare il fatto che la fantascienza non si sia ripiegata su se stessa e abbia trovato nuove strade. Ma certi temi non vanno dimenticati, e su di me hanno sempre un fascino particolare. E, quando leggo Aresi, rivivo le sensazioni che provavo quando leggevo per la prima volta Arthur C. Clarke.
L’effetto si è verificato anche leggendo Korolev. La prima parte, con la missione marziana che si ritrova di fronte all’oggetto misterioso, funziona alla perfezione nel rendere quel misto di eccitazione e angoscia che si prova di fronte all’inesplicabile. Ma anche la seconda parte, che introduce il personaggio storico di Korolev nella russia degli anni ’40, ’50 e ’60, è molto riuscita nel suo dare il senso di una vita e di un’epoca senza eccedere in lungaggini e didascalismi.
Non tutto però mi ha convinto in questo Urania. Comincio col dire che ho trovato stucchevole la trovata di dare a tutti i personaggi il cognome (e spesso anche il nome) di scrittori di fantascienza (o altri nomi celebri). Chiamare Clarke il comandante della base marziana ci poteva stare benissimo, ma quando si incontrano di continuo personaggi si chiamano Neil Gaiman, Hal Clement, Robert Heinlein o Edmond Hamilton, il tutto prende un’atmosfera surreale che allontana dalla storia.
Ma soprattutto, la terza parte, quella che dovrebbe risolvere ogni cosa e far prendere il volo al romanzo, sacrifica invece quasi tutto alla linearità dell’apologo morale. Ho trovato poco credibile e poco interessante il fatto che il mondo del 2084 sia politicamente diviso negli stessi blocchi rigidi degli anni ’50, con l’Europa totalmente succube degli USA e la Cina della Russia: il mondo multipolare che già oggi possiamo intravedere sarebbe stato uno scenario molto più ricco di spunti. Ma quello che mi ha lasciato più insoddisfatto come lettore è che, dopo averci fatto intravedere la possiiblità di epocali scoperte, il romanzo si concluda lasciando intatti tutti i misteri che aveva suscitato. È vero che Arthur C. Clarke ci ha insegnato che non è necessario spiegare tutto, però qui, dal punto di vista fantascientifico, nell’ultimo terzo del romanzo non succede più nulla di notevole. Solo un confronto politico-militare che si risolve senza sorprese.
Un peccato, perché la storia parte bene e avrebbe meritato uno sviluppo più approfondito. Comunque Korolev resta una piacevole lettura e un rinfrancante diversivo rispetto a tanta fantascienza di oggi che affatica il lettore senza dargli niente in cambio.
Bruce Sterling su "Players"
Nel periodo in cui non riuscivo ad aggiornare con regolarità il blog, una delle tante cose che ho scordato di segnalarvi è che ho cominciato una collaborazione con Players. Si tratta di una bella rivista, con un’ottima grafica, che si rivolge in primo luogo ai videogiocatori ma che parla di tutto quanto c’è di interessante, musica, letteratura, cinema, TV e altro. Esce soltanto online, scaricabile in PDF oppure leggibile attraverso un bel sistema che si chiama Issuu, e sta sperimentando interessanti metodi per autofinanziarsi.
Sul numero 2 di Players ho pubblicato un articolo su Bruce Sterling per accompagnare un’intervista raccolta dalla redazione. È roba di diversi mesi fa, ma la segnalo perché sono sicuro che tra i frequentatori del blog c’è qualcuno cui può interessare e che non l’ha ancora letta.
Andate qui per leggere il numero su Issuu, e qui per scaricarlo in formato PDF.
La notte della Rete
Il prossimo 6 luglio l’AGCom (Autorità per le Garanzie nelle Telecomunicazioni, in pratica quello che una volta era il Garante per l’Editoria) approverà una delibera sulla difesa del copyright su Internet. Con tale delibera, in pratica, l’AGCom si arrogherà il diritto di mettere offline qualunque sito che, dietro segnalazione e a suo insindacabile giudizio, violi le leggi sul copyright. Si tratta di una mostruosità giuridica che va fermata a tutti i costi.
Badate bene: non è (solo) l’ennesimo episodio della guerra tra “pirati” e difensori del diritto d’autore. Qui la posta in gioco è molto più alta. Non si tratta di difendere il diritto a copiare una canzone o un’immagine. Si tratta di difendere la libertà di parola in Rete e di impedire il sorgere di una censura di fatto.
In pratica, se passerà la delibera, l’AGCom avrà il potere di mettere a tacere chiunque in Rete, usando la scusa del diritto d’autore. C’è un sito che ti dà fastidio? Segnalalo perché all’interno c’è una foto che, a tuo dire, lede il diritto d’autore di qualcuno. L’AGCom avrà il diritto di farlo sparire dalla Rete, e poi va a sapere come si farà a far revocare il provvedimento (perlomeno per chi non dispone di un ufficio legale). Non è ammissibile che, per qualsivoglia motivo (e sicuramente non per difendere il copyright) si dia a un’autorità (teoricamente indipendente, ma comunque di nomina governativa) il potere insindacabile di togliere a qualcuno il diritto di parola.
Già in passato si è cercato di usare la pedofilia come spauracchio per introdurre la censura in Rete. Ora si usa il diritto d’autore, ma il principio è lo stesso.
Ecco cosa potete fare per opporvi:
- se siete blogger scrivete un post, usando il logo che vedete qua sopra e riportando tutti i link, e diffondetelo più che potete tra quelli che conoscete;
- andate alla pagina di Agorà Digitale in cui sono raccolti tutti i link, le iniziative e le proposte dei cittadini;
- firmate e diffondete la petizione sul sito di Avaaz;
- partecipate e invita tutti i vostri amici a “La notte della rete“: 4 ore no-stop in cui si alterneranno cittadini e associazioni in difesa del web, politici, giornalisti, cantanti, esperti.
I guardiani del destino
Un giovane politico americano di successo incontra per caso quella che sembra essere la donna della sua vita. Ma dei misteriosi “Guardiani” gli ordinano di non rivederla più, in quanto non fa parte del “Piano”. Scopre così che le vite degli uomini sono costantemente monitorate e “corrette” e che il libero arbitrio è un’illusione…
The Adjustment Bureau (questo il titolo originale di I guardiani del destino) è tratto da un racconto di Philip K. Dick. Di per sé questo non è garanzia di buon risultato. Dick non è affatto uno scrittore facile da rendere al cinema: le sue trame o sono statiche o si muovono in troppe direzioni contemporaneamente, costringendo gli sceneggiatori a reinterpretarlo. Anche Blade Runner, ormai un archetipo cinematografico, riesce a essere un grande film proprio tradendo sottilmente in molti modi l’opera originale. Per il resto, nonostante Dick sia un autore saccheggiatissimo, c’è ben poco di cui gioire. I tentativi più ambiziosi, Atto di Forza di Verhoeven e Minority Report di Spielberg, cominciano bene ma gradamente perdono la carica eversiva dickiana per trasformarsi in banali film di genere. D’altra parte, A Scanner Darkly, nella sua eccessiva fedeltà al testo, risulta ingessato e poco significativo. Screamers a mio avviso ha una sceneggiatura imbarazzante, Impostor non l’ho visto ma se ne parla malissimo, e quanto a Paycheck è stato talmente esecrato che mi viene quasi voglia di difenderlo (ma me ne guardo bene!). Insomma, i successi sono ben pochi, specie a fronte di altri film che hanno sfruttato temi dickiani ma senza farlo in modo esplicito, come The Truman Show, Dark City o Vero come la finzione, per citare i primi tre che mi vengono in mente.
Tutto queso per dire che il regista George Nolfi (sceneggiatore al debutto nella regia), per convertire in film il breve racconto The Adjustment Team, aveva in qualche modo l’obbligo di tradirlo. Il modo che ha scelto, però, mi è rimasto sul gozzo.
I guardiani del destino è la storia di un uomo che, come tanti personaggi di racconti di Dick (uno tra tutti: l’eccezionale La formica elettrica) scopre per caso che la realtà è completamente diversa da come la conosceva, e che quelle che riteneva di essere sue libere scelte di vita sono in realtà state pianificate da forze al di fuori del suo controllo. Nella fattispecie, da una casta di grigi burocrati che lavorano “dietro le quinte ” del mondo e si preoccupano di far succedere cose apparentemente per caso, in modo che tutti continuino a seguire un misterioso “Piano” il cui scopo nessuno sembra conoscere.
Più che nell’interpretazione non particolarmente memorabile di Matt Damon, il film ha il suo maggior pregio nella rappresentazione dei Guardiani, grigi e annoiati, i cui sofisticatissimi strumenti di controllo hanno sempre un aspetto sorpassato e banale, come appropriato per una burocrazia opprimente e ottusa. E la parte migliore del film è indubbiamente quella in cui il protagonista lotta in modo sempre più disperato contro lo strapotere dei guardiani.
Purtroppo però Nolfi decide di risolvere il film con un lieto fine che stride terribilmente con tutto ciò che aveva costruito fino a quel momento. Io non sono contrario pregiudizialmente al romanticismo e ai finali positivi, tuttavia trovo insensato (oltre che un tradimento totale dello spirito dickiano) partire un racconto che parla della mancanza di libertà della condizione umana per poi alla fine rivoltare la frittata e dire: “abbiamo scherzato, l’Uomo è libero di fare ci che vuole se si impegna abbastanza”. Peccato, perché il film avrebbe meritato, ma questo finale proprio non sta in piedi.
Nota: Per uno strano scherzo delle leggi sul copyright, il racconto originale The Adjustment Team è oggi fuori diritti e di pubblico dominio. Chi volesse leggerlo lo può fare qui.
Fine della pausa
Scusate, impegni di lavoro e di altro genere mi hanno costretto a prendermi una pausa non preventivata dal blogging.
Purtroppo questo ha significato che alcuni post di attualità che avevo in mente, come quelli sui referendum e sui Delos Days, sono ormai diventati inattuali. Cercherò comunque di recuperarne il contenuto.
Grazie per la pazienza.
Il primo incarico
1953. Nena è una giovane pugliese che riceve il primo incarico come maestra in uno sperduto paesino del Salento. È perciò costretta a lasciare la madre e il fidanzato per recarsi in un luogo che sembra rimasto al medioevo…
Devo ammetterlo: vedo film italiani piuttosto raramente. Un po’ me ne dispiace, perché mi piacerebbe tenermi più aggiornato su quello che si produce nel mio Paese. Tuttavia è innegabile che, se mi chiedessero di citare titoli di film italiani di questo millennio che mi siano piaciuti molto, me ne verrebbero in mente due o tre al massimo. Ed è normale che, a forza di noia e delusioni, si smetta anche di voler provare.
Perciò, quando degli amici mi hanno proposto di andare a vedere Il primo incarico dell’esordiente Giorgia Cecere, una parte di me ha sussurrato: “Te ne pentirai”. Però alla fine ha vinto l’altra metà, quella che ha ribattuto: “Ma no, diamo fiducia a un’esordiente, magari è bello, in fondo è in cartellone da più di un mese, non può essere così male”. Secondo voi chi aveva ragione?
Il film gioca tutte le sue carte migliori all’inizio. In effetti bisogna dire che la ricostruzione d’epoca e la fotografia del paesaggio del Salento sono di prim’ordine. Soprattutto, la scena della cena a casa dei contadini, che fanno alla maestra domande ingenue e imbarazzanti, è molto efficace, e rende tangibile la distanza immane che separa la ragazza di città che ha studiato e vuol essere “moderna” e la rigidità del mondo di campagna.
Certo, si tratta sempre del solito ritratto del nostro Sud arcaico e immutabile che abbiamo già visto mille volte (non manca nemmeno la scena col capannello di uomini che si volta a guardare la ragazza che passa), però almeno il compitino è bene impostato. Se la regista ci avesse mostrato come la maestrina riesce gradatamente a conquistare questa realtà ostile, a integrarsi nel paesino e a sviluppare un rapporto con i suoi abitanti, il film sarebbe stato banalotto ma guardabile.
Peccato però che la regista questo non ce lo mostri affatto. Il tema del rapporto con gli scolari e con il resto del paese viene semplicemente lasciato cadere. Fino a un certo punto gli scolari sono degli asini e non imparano niente, da un certo momento in poi sono tutti bravissimi. Come Nena ci sia riuscita non è dato sapere, perché la Cecere si concentra invece su una storia d’amore totalmente priva di senso, non solo anacronistica ma profondamente illogica.
Alcuni esempi. Nena, lasciata dal fidanzato, per reazione va a trombare con un aitante muratore del paese. Solo che i due vengono visti. Lo zio del giovane va a trovare Nena e le dice: “Vi hanno visti, è uno scandalo, parlano di farti lasciare la scuola, ti conviene risolvere il problema sposando mio nipote”. E lei, dopo qualche resistenza pro forma, lo sposa. E qui, secondo me, la credibilità della trama va sotto le scarpe. In un paesino degli anni ’50 una maestra che avesse avuto una condotta non irreprensibile sarebbe stata scacciata a furor di popolo, non le avrebbero chiesto un assurdo matrimonio riparatore. Ma ancora più assurdo è che lei accetti di sposare un muratore ignorante solo per paura di perdere il posto, quando avrebbe potuto semplicemente darsi malata e lasciare il paese. Lui poi le spiega di averla sposata solo perché degli zingari lo avevano minacciato di accoltellarlo se non avesse sposato una trapezista che aveva disonorato (e anche qui la logica fa difetto: perché gli zingari dovrebbero smettere di volerti accoltellare solo perché hai sposato un’altra?). E così via, una forzatura dopo l’altra.
All’illogicità della trama fa da specchio una regia del tutto insufficiente ogni volta che ci sarebbe da mostrare un pochino di pathos. Per esempio, la scena del tentato suicidio è ridicola: sembra di vedere un tuffo in piscina (per non parlare del fatto che una persona che si butta in un pozzo rischia perlomeno delle fratture e l’ipotermia, ed è piuttosto complicato salvarla; ma questo è un classico del cattivo cinema italiano: se la sceneggiatura prevede qualcosa di poco credibile, si fa un bella ellissi per farlo succedere fuori scena, e il problema è risolto). E le scene di sesso sono di una tristezza infinita. Non dico che ci sarebbe voluto un remake di Nove settimane e mezzo, ma se mi mostri una ragazza che per disperazione va a letto con uno che conosce appena, e me la fai sembrare una scena tra due coniugi annoiati, qualcosa non va.
Credo poi che Il primo incarico meriterebbe due Oscar. Uno per il peggior uso delle musiche (ogni volta che c’è un climax emotivo, la regista fa partire un giro di chitarra che smorza la tensione invece di aumentarla), e uno per la scena più ridicola mai vista. Sì, perché la scena in cui lei reincontra il fidanzato, e per l’emozione lui comincia a sanguinare dal naso (non sto scherzando), peraltro senza macchiare con una sola goccia l’immacolata camicia, rappresenta un picco ineguagliato dell’assurdo e del risibile .
Nel mezzo di questo disastro c’è, dalla prima all’ultima scena, Elisabetta Ragonese. Che secondo me è anche una brava attrice: in Tutta la vita davanti mi era piaciuta. Però anche il più bravo degli attori avrebbe difficoltà a rendere credibile una trama così. La povera Elisabetta qui spesso adotta una recitazione esangue e monotona, come se non avesse la minima idea di cosa possa provare il suo personaggio di fronte a tali assurdità. Come biasimarla?
Non mi dilungo oltre: Il primo incarico è un film scritto male e girato peggio, per giunta con un finale che fa incazzare ulteriormente (la giovane maestrina che avrebbe la possibilità di fuggire con il suo amato, ma invece sceglie di ritornare al paesello dove ha trovato… cosa? Meglio non cercare di rispondere). La cosa che mi rattrista di più è che il pubblico, invece che dare fuoco al cinema al secondo giorno di proiezione, continua ad andarlo a vedere! Al Mexico la sala era mezza piena, e un cartello all’ingresso diceva: “Secondo mese!”.
Mi spiace se me la sto prendendo tanto con un film che forse non è più brutto di tanti altri film italiani che escono nelle sale e che io, semplicemente, ho scelto di non vedere. Però credo che, finché si continueranno a finanziare film inani come questo, e finché il pubblico andrà a vederli senza ribellarsi perché è convinto che se un film è “artistico” allora annoiarsi a morte è normale, il cinema italiano continuerà a restare cadavere.