In un mondo in cui quasi tutti sono lupi mannari, i pochi esseri umani che non si trasformano al sorgere della luna piena sono obbligati a servire in una sorta di servizio d’ordine, per evitare che i trasformati provochino danni. Lola Galley è una di loro, ed entra in crisi quando un suo collega viene assassinato. Per ucciderlo hanno usato una delle pallottole d’argento che si usano per difendersi dai mannari. E’ forse un simbolo?
Quando ho letto il risvolto di copertina di questo libro, ho deciso di procurarmelo immediatamente: mi è sembrata un’idea troppo buona! Mi aspettavo qualcosa di simile allo splendido Cacciatori delle tenebre di Barbara Hambly (in cui un essere umano viene assunto dai vampiri per indagare di giorno, quando loro non possono agire). Purtroppo devo dire, a conti fatti, che il libro non ha mantenuto la sua promessa e mi ha lasciato parecchio deluso. Questo a causa del fatto che l’autrice non ha saputo costruire bene il mondo in cui ha ambientato la vicenda.
Per cominciare, un delitto capitale: in un mondo popolato da lupi mannari, non viene chiarito a sufficienza cosa significhi essere uno di loro. Da un lato i mannari vengono descritti come orgogliosi di essere tali, al punto che non rinuncerebbero mai al fatto di trasformarsi, e che provano una istintiva diffidenza e repulsione verso chi non si trasforma. Dall’altro però i mannari non ricordano quasi nulla di ciò che fanno quando sono in forma di lupo, e hanno costruito una società identica alla nostra, che tiene conto solo del loro lato umano, e che li obbliga a rinchiudersi in casa ogni volta che si trasformano. A me pare una grossa contraddizione, che rende molto nebuloso quello che dovrebbe essere uno degli aspetti fondamentali del libro.
Non è chiaro nemmeno il perché i lupi mannari abbiano sentito la necessità di rinchiudersi e di affidare ai non-licantropi, che pure odiano, il compito di catturare coloro che non rispettano il divieto. Ci viene detto più volte che l’opera di controllo dei non-licantropi è l’unica cosa che salvi il mondo dal caos e dalla carneficina, però i lupi mannari non ci vengono mai mostrati nell’atto di aggredire un loro simile (al contrario, sembrano andare perfettamente d’accordo tra loro) o di provocare danni. Gli unici morti e feriti che si vedono sono tra i non-licantropi che cercano di catturarli. Viene da pensare che, se fossero questi ultimi a rimanere rinchiusi durante la luna piena, non accadrebbe nulla.
Infine, è totalmente assurda e contradditoria la descrizione dei poteri che vengono attribuiti ai non-licantropi. Da un lato, viene descritto come siano obbligati a non fare alcun male ai mannari che catturano, e come questo li obblighi a correre gravissimi rischi, con la costante minaccia di provvedimenti disciplinari e risarcimenti danni se non seguono le pericolose procedure. Dall’altro però, se stanno indagando su un reato commesso da un mannaro in forma di lupo, i loro poteri sono pressoché illimitati: possono prelevare persone all’insaputa di tutti, tenerle per settimane rinchiuse in celle medioevali senza rendere conto a nessuno, e persino torturarle impunemente. È evidente che queste due situazioni non possono coesistere. Quasi tutte le istituzioni dei non-licantropi appaiono costruite in modo forzato, senza che ci sia una reale motivazione perché le cose vadano così. Per esempio, viene detto che i non-licantropi subiscono spesso molestie sessuali da ragazzi, in quanto sono obbligati a passare ogni notte di luna piena nei rifugi, in condizione di promiscuità. E non si può fare a meno di chiedersi quale difficoltà abbia impedito loro di creare rifugi meno promiscui: la motivazione della mancanza di personale appare piuttosto inconsistente.
Insomma, il mondo in cui si svolge Sorpresi dalle tenebre difetta totalmente di logica. Ed è un peccato, perché l’autrice saprebbe scrivere molto bene. Lola Galley è un gran bel personaggio, col suo miscuglio di fragilità e aggressività, e la sua evoluzione viene descritta con grande finezza psicologica. Anche la trama gialla funziona piuttosto bene, e conduce a un gran bel finale. Ed è particolarmente riuscito il modo in cui l’autrice sfrutta l’inversione per cui sono i non-licantropi a sentirsi dei "mostri", al punto di desiderare di avere figli mannari. Insomma, questo romanzo è un po’ come una Ferrari cui hanno versato nafta nel serbatoio: possiamo ammirarne la linea, decantare le doti del motore… ma non partirà mai. Che occasione sprecata!
Aggiornamento Gialli dei Ragazzi
Visto che il mio preceente post sui Gialli dei Ragazzi è stato tanto bene accolto, devo comunicarvi che in agosto, frugando in cantina alla ricerca di un libro perduto da tanti anni (e mai ritrovato), ho trovato un giallo di una serie che avevo del tutto dimenticato! Si tratta di Laura & Isabella di Mariagiovanna Sami! Di loro, devo dire, continuo a non ricordarmi assolutamente nulla. Impossibile scoprire che fine abbia fatto l’autrice (tutti i riferimenti su Google puntano a una professoressa di informatica.. sarà lei?).
Sarà l’ultima serie, o qualcuno ne ricorda altre?
Pregiudizi
Quest’anno ho passato le vacanze nella città dove sono cresciuto, Bolzano (quello che vedete è il Rosengarten visto dalle vicinanze del ponte Talvera, quasi al centro della città).
Non mi dilungo a dirvi delle Weizenbier e Schnaps che mi sono scolato e dei Knödel e Würstel che mi sono mangiato (camminate invece poco o nulla, causa moglie che quest’anno ha voluto emulare il professore degli X-Men, e non per i poteri mentali).
Vorrei però dirvi della colossale gentilezza e disponibilità della gente del posto. Cominciando dalla signora che gestisce il ristorante/pensione ad alta quota che frequentavamo, che dopo due volte che ci vai ti tratta come un frequentatore abituale e viene a fare due chiacchiere e a informarsi su come vanno le cose, per finire con l’anziana macellaia che incontro due volte l’anno per spendere pochi euro di specialità locali, ma che ogni volta mi saluta come se fossi un parente da lungo tempo perduto (questa volta è persino corsa fuori dal negozio per stringere la mano a mia moglie, rimasta lì perché in sedia a rotelle).
Vi racconto tutto questo anche perché perlomeno i tre quarti degli italiani che conosco e che sono stati a Bolzano mi hanno detto con assoluta convinzione di essere stati maltrattati in quanto, appunto, italiani. Eppure io ho vissuto lì 20 anni, continuo a tornarci da altri venti, e non ricordo di alcun negozio o locale che mi abbia dato il sospetto di volermi discriminare. E sì che non ho la faccia del tedesco, e non parlo bene la lingua.
Credo che si tratti semplicemente di questo: la maggior parte degli italiani non si rende conto che quasi tutti gli abitanti della provincia di Bolzano, pur abitando in Italia, sono tedeschi: hanno sempre parlato tedesco, in casa e fuori, e parlano italiano solo per lavoro. Per questo motivo a volte capiscono male. Basta ripetere, o spiegarsi con parole più semplici, e si ottiene tutto quello che si vuole. Se invece si parte dal presupposto che, siccome siamo in Italia, tutti devono capire l’italiano perfettamente, e se non lo fanno si ha diritto irritarsi e mostrarsi offesi, beh, allora è chiaro che nascono problemi.
Al penultimo giorno di vacanza, al bar accanto alla stazione della funivia di Soprabolzano, ho trovato una vespa morta in fondo al mio (peraltro delizioso) Eischokolade. Incidente antipatico, ma che può capitare. Però chissà: se non mi fossi già seduto nello stesso locale decine di volte in precedenza, con piena soddisfazione, forse anch’io ora avrei da raccontare la mia storia sugli orribili dispetti che i tedeschi di laggiù fanno agli italiani.
Mai più senza
I jeans per calci rotanti di Chuck Norris.
Grazie ad Haymar per la segnalazione.
Chiusura fuzzy
Sto partendo per le ferie.
Visto che starò via solo due settimane, che conto di aggiornare comunque il blog un paio di volte, e che ultimamente ho scritto in modo molto irregolare, suppongo che il periodo di ferie sarà indistinguibile dalla gestione normale.
Comunque, saluti a tutti.
Azzurro, questo parcheggio è troppo azzurro…
A Milano, in quasi tutte le zone, i parcheggi liberi sono scomparsi da tempo. Esistono solo i parcheggi per residenti, gialli (dove non puoi parcheggiare in nessuna ora del giorno se non hai il contrassegno di zona) e quelli a pagamento, azzurri (dove devi utilizzare "gratta e sosta" per cifre esorbitanti, a tutte le ore del giorno e, spesso, anche la sera). La cosa è già molto fastidiosa nel corso dell’anno, ma lo diventa particolarmente in agosto, quando la città si svuota e in ogni angolo ci sono parcheggi liberi, ma le regole rimangono le stesse di sempre.
Due anni fa il Comune aveva accettato, dietro grande pressione popolare, di rendere gratuiti i parcheggi azzurri almeno nelle due settimane centrali d’agosto. L’anno scorso la misura è stata limitata a pochissime zone. Quest’anno, sembra, non se ne farà nulla.
I parcheggi a pagamento hanno senso per regolare l’accesso a una risorsa scarsa come lo spazio per la sosta, e per incoraggiare i cittadini a usare i mezzi pubblici per limitare il traffico. Quando i parcheggi abbondano, il traffico è scarso è i mezzi pubblici procedono a orario ridottissimo, continuare a far pagare la sosta non ha giustificazione, se non quella di lucrare su quei pochi che rimangono in città in agosto. Che non sono certo i ricchi.
Libro: Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo
Mi sono fatto mandare questo libro per lavoro, in quanto avevo bisogno di recensirne alcuni che fossero in qualche modo collegati con l’autunno o con il vino, e da una ricerca su IBS è uscito il suo titolo. Si è fatto attendere (grazie alle Poste che se ne sono persa una copia) e intanto ho potuto accorgermi delfatto che si tratta di un libro alla moda, consigliato da D’Orrico sul Corriere. E qui ho cominciato a temere seriamente la sòla, in primo luogo perché il critico non è nuovo al propagandare libri discutibili, ma soprattutto perché, come da fascetta nelle librerie, ha definito l’autore come "il Philip Roth italiano". Il che mi fa venire i brividi. Perché di Philip Roth italiano ne abbiamo già avuto uno di recente (Alessandro Piperno, il cui libro a mio avviso non è niente di che). E poi perché espressioni come "l’Ellroy italiano", "il DeLillo italiano" sono di solito garanzia di un libro tutta apparenza e niente sostanza. Ebbene, per una volta i miei timori non erano fondati: Storia controversa… è un libro molto godibile e, soprattutto niente affatto pretenzioso.
Il protagonista è Riccardo, un antropologo fallito che vive alle spalle della moglie, che però lo cornifica. In cerca di riscatto, incontra un vecchio compagno di scuola, che è diventato uno degli uomini più ricchi d’Italia, ma ha un cruccio: un conte squattrinato ma fascinoso gli ha appiccicato addosso l’etichetta di "principe dei cafoni". Per vendicarsi vuole ad ogni costo riuscire a far sì che il vino Aglianico che produce risulti migliore di quello prodotto dal conte. E Riccardo, guarda caso, ha la possibilità di aiutarlo…
Storia controversa… è scritto con uno stile solido e piacevole, frasi lunghissime e attentamente calibrate che tuttavia mantengono la naturalezza della colloquialità. Ed è, soprattutto, un libro divertente, che strappa il sorriso e spesso anche la risata vera e propria, spargendo a piene mani su tutti i suoi personaggi indistintamente un allegro e distruttivo cinismo. Forse questa sua imparzialità è un po’ anche il suo limite: la sua rappresentazione dell’Italia come Paese in cui ogni cosa si riduce da sempre al conflitto tra ladri ricchi e ladri poveri è un po’ riduttiva, anche se notevolmente efficace. Comunque sia, il libro si legge con piacere, direi addirittura che si divora, grazie a tanti personaggi perfettamente riusciti e a una struttura sapiente che gestisce con leggerezza anche numerosi flashback in diverse epoche storiche. A volergli trovare un difetto, forse il finale risulta un tantino deludente. Dopo un così grande lavorio per ricostruire nei secoli l’ascendenza dei personaggi principali, ci si aspetterebbe un’apoteosi conclusiva, invece tutto finisce in modo rapido e poco appariscente. Inoltre il tema della vendetta attraverso i secoli appare poco sviluppato e, in definitiva, in contraddizione con lo spirito di fondo dell’opera, che con la giustizia non ha nulla a che spartire. Ma sono dettagli: è un libro riuscito e ottimo da portare sotto l’ombrellone. Anche se non è Philip Roth (o forse proprio per questo).
Libro: Dalla parte del torto
La cosa che impressiona favorevolmente in questo libro è la ricerca stilistica, che è indubbiamente notevole. I modelli sono elevati (si comincia citando Tolstoj, tanto per mettere le cose in chiaro), e c’è un apprezzabile tentativo di creare una scrittura allo stesso tempo densa e rapida. Purtroppo, proprio perché i mezzi dell’autrice appaiono ben sviluppati, a maggior ragione si rimane rapidamente delusi scoprendo che la storia gialla che viene raccontata ha pochissimi rapporti con la realtà, la logica e il buon senso.
La stessa autrice sente il bisogno di giustificarsi con una nota finale in cui dichiara che la "trasposizione surreale di personaggi e procedure" è "frutto della necessità di raccontare questa storia". Ma è una giustificazione che non regge. Il surreale, per esistere, ha bisogno di una realtà solida da cui potersi distaccare. La realtà costruita dalla Bucciarelli, invece, scricchiola e traballa a ogni pagina. La sola cosa che "tiene" bene è la descrizione di quella società "fighetta" e snob che ruota intorno al mondo dell’arte milanese, che è molto convincente è che probabilmente è l’unico argomento che preme davvero all’autrice. Il resto è pura invenzione. Per fare qualche esempio, le indagini vengono gestite da una poliziotta che ha un grado da sottufficiale di basso rango (ispettore capo), ma invece si sposta in elicottero destando timore reverenziale negli inferiori. Come collaboratori non usa poliziotti, ma quattro civili amici suoi, una copywriter, un pittore, un fotografo e un direttore d’orchestra, che si occupano di tutto, compresi interrogatori e pedinamenti (e, a parte l’assoluta illegalità e irrealtà di tutto questo, non si capisce come possano svolgere i loro lavori ufficiali se sono impegnati giorno e notte a indagare gratis). Se fosse solo questo, lo si potrebbe ancora tollerare, di investigatori bizzarri ce ne sono molti nella storia del giallo. Il problema è che tutto il resto è altrettanto incongruo, persino le reazioni emotive delle persone sono spesso incomprensibili o fuori misura, e i loro atti a volte totalmente privi di una motivazione logica.
Concludendo: va bene lo stile, ma anche in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, che è il modello di stile per eccellenza, la storia gialla c’è e le motivazioni dei personaggi sono reali e tangibili. In Dalla parte del torto, invece, tutto sembra messo lì unicamente per permettere all’autrice di fare sfoggio di arguzia e dipanare le sue teorie sull’universo. Mi spiace, ma non funziona proprio.
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Scusate, non ho saputo resistere!
Libro: Harry Potter and the Deathly Hallows
Avvertenza: Niente paura: anche se ormai gli spoiler non si contano, in questa recensione farò in modo di rimanere sul vago e non svelare alcun dettaglio importante. Certo, se proprio volete rimanere a mente vergine al 100%, o se non avete letto nemmeno tutti i romanzi precedenti della serie, è meglio che non la leggiate comunque.
Ho avidamente letto l’ultimo volume della saga di Harry Potter, e credo di poter dire con sicurezza che J. K. Rowling è riuscita a dare una degna conclusione alla serie. Dirò di più: pur non essendo esente da difetti, Harry Potter and the Deathly Hallows è probablmente il suo libro più avvincente e uno dei meglio costruiti. L’autrice è riuscita nel difficile compito di creare un’opera profondamente diversa dalle sei precedenti, senza però snaturare l’atmosfera della serie. Ed è riuscita, compito ancora più difficile, a risultare sorprendente senza contraddire le aspettative dei lettori (e camminava su un terreno minato, perché gli indizi che rivelavano quanto sarebbe successo erano numerosi).
La principale differenza tra The Deathly Hallows e il resto della saga è che si svolge quasi del tutto fuori da Hogwarts. Niente più lezioni, partite di Quidditch o rivalità tra le Case, e nessun momento di tranquillità: Harry Potter è braccato, rischia la vita ogni minuto, e l’azione comincia dal primo capitolo per non fermarsi praticamente mai. E la lotta è all’ultimo sangue: se ciascuno dei tre libri precedenti era segnato da una morte importante, qui vediamo cadere oltre mezza dozzina di personaggi cui il lettore può essersi affezionato. Del romanzo per bambini non è rimasto quasi più nulla.
Anche dal punto di vista psicologico, il libro non è meno duro. Non solo Harry è sottoposto a pressioni tremende, ma si trova costretto a mettere in discussione alcuni dei legami più profondi della sua vita. Del resto, il giovane mago si trova privo della sua guida, Albus Dumbledore, morto in Harry Potter and the Half-Blood Prince. Ed è proprio Dumbledore il vero coprotagonista di The Deathly Hallows: analizzato retrospettivamente, perde la sua aura di infallibilità e diventa un personaggio umano con contraddizioni e manchevolezze, segnando così il definitivo passaggio di Harry all’età adulta.
La trama è straordinariamente complessa. Per distogliere l’attenzione del lettore da quegli elementi che solo in fondo al libro potevano essere svelati, la Rowling ha inserito abbastanza misteri da bastare per almeno due libri “normali” della serie. È comunque evidente come la saga sia stata progettata in modo completo fin dall’inizio: nella trama hanno una funzione essenziale indizi e personaggi minori che risalgono addirittura al primo libro. Se la vostra memoria non è buona, una rilettura integrale dell’intero sestetto precedente prima di affrontare quest’ultimo volume potrebbe essere consigliabile.
Il risultato: direi ottimo. The Deathly Hallows non annoia e non dà mai l’impressione (a differenza dei libri centrali della serie) che ci siano capitoli superflui. È terribilmente avvincente, e conclude la serie in modo soddisfacente, senza forzature e con un bel po’ di sorprese.
Difetti? Ovviamente ce ne sono. Alcuni condivisi con l’intera saga. La scrittura della Rowling tende sempre un po’ al barocchismo e alla lungaggine. Inoltre personalmente ho un’idiosincrasia per i duelli magici troppo lunghi, che non trovo molto convincenti, né qui né altrove.
Per quanto riguarda questo libro in particolare, bisogna dire che la prima metà del libro è un po’ estenuante: Harry Potter brancola nel buio, commette alcuni errori colossali, i dubbi e i misteri si accumulano senza mai uno spiraglio di luce, e tutto comincia a sembrare un po’ troppo cupo e disperato. Fortunatamente, le pagine successive rimettono le cose a posto. Ma, soprattutto, in The Deathly Hallows la Rowling ha sacrificato la completezza all’efficacia narrativa. Ci sono alcune lungaggini in meno, ma alcuni particolari appaiono un po’ “tirati via”. Per esempio, c’è un oggetto che scompare e poi riappare senza che venga spiegato bene come ciò sia possibile. Ma soprattutto, ci sono alcuni personaggi molto importanti che muoiono in battaglia, in qualche caso addirittura fuori scena, e vengono messi da parte in poche righe, lasciando una certa sensazione di “vuoto” narrativo. Probabilmente il libro sarebbe risultato troppo pesante con l’aggiunta di altri capitoli con morti eroiche e struggenti compianti, però anche questa soluzione lascia a desiderare. Inoltre i più frivoli tra i lettori rimarranno con la curiosità di sapere cosa ne è stato di alcune relazioni sentimentali che si potevano intuire nei libri precedenti, e del cui destino il libro finale non si occupa. Comunque sia, il maggiore difetto di The Deathly Hallows è che finisce ed è l’ultimo. Le belle storie hanno una fine, e questa ne ha una davvero degna, però si resta male al pensiero che il divertimento è finito.