I film che ho visto al Trieste Science+Fiction Festival

È tantissimo tempo che non scrivo su questo blog, e ho deciso, volendo ricominciare, valeva la pena di farlo con un long form. E quale migliore occasione della mia visita al Trieste Science+Fiction Festival?

Per la cronaca, ci sono andato non con lo spirito del critico ma del turista: ero lì per divertirmi e vedere amici, non sono rimasto per tutta la durata del festival e ho visto solo i film che mi era comodo vedere, senza fare una selezione ragionata. Nondimeno l’esperienza è stata molto positiva, e quindi ora vi racconto quello che ho visto.

I film che mi sono piaciuti molto:

Mars Express

di Jérémie Périn, Francia

Anno 2200, i robot sono molto diffusi, sia come entità autonome sia come “sostituti”per umani che non dispongono più del proprio corpo. I robot sono incapaci di fare del male agli esseri umani, ma ci sono attivisti che praticano su di loro un jailbreaking per dare loro la totale libertà, cosa che ha provocato rivolte e un’atmosfera di sospetto e ostilità. Aline è una detective della città di Noctis su Marte, cui viene chiesto di indagare sulla sparizione di una studentessa. Mentre i cadaveri si accumulano, gradatamente l’indagine porta alla luce un complotto che coinvolge l’intera popolazione robotica.

Mars Express ha fatto man bassa: ha vinto il premio Asteroide assegnato ai film di registi emergenti, il premio della critica, il premio della trasmissione Wonderland; in pratica, quasi tutto quello che poteva vincere. Meritatamente, perché da tanto tempo non mi capitava di rimanere tanto coinvolto da un film di fantascienza (e parlo in generale, non solo di film di animazione).

La cifra di Mars Express è l’essenzialità: uno stile di animazione che non ricerca gli effetti fini a se stessi ma si mette al servizio della storia. Una storia intricata e nera degna dei migliori polar francesi, con personaggi pieni di ombre che possono vivere momenti di travolgente umorismo ma un attimo dopo finiscono ammazzati senza che ci si soffermi un secondo a compiangerli. Una vicenda complessa e coerente, che ci lancia senza spiegazioni in un mondo alieno come solo la migliore fantascienza sa fare, e che solo negli ultimi dieci minuti si concede di volare alto uscendo dai bassifondi ed evocando scenari grandiosi.

Ho trovato la sceneggiatura di Mars Express molto più convincente di quella di molti recenti blockbuster hollywoodiani. Spero tanto che possa trovare una distribuzione in Italia.

La guerra del Tiburtino III

di Luna Gualano, Italia

Una popolazione aliena, piccoli vermi in grado di penetrare attraverso le narici nel cervello degli esseri umani prendendo il controllo delle loro azioni, sta invadendo il pianeta Terra cominciando dal quartiere Tiburtino III di Roma. A scoprire gli invasori e a mettere i bastoni tra le ruote del loro piano di conquista sarà un’improbabile squadra formata da un piccolo spacciatore, un suo squinternato amico, la sua barista di fiducia e una influencer modaiola capitata nel quartiere in cerca di visibilità.

Il cinema italiano non sta vivendo il suo momento migliore, ma per fortuna ogni tanto capita ancora di incontrare un film italiano fatto bene, e capita sempre più spesso che sia un film di genere. È sicuramente il caso di questa commedia fantascientifica in salsa romana, che ho iniziato a guardare senza aspettarmi nulla e che ho trovato davvero simpatica e divertente.

La guerra del Tiburtino III mi è piaciuto per come riesce a prendere sul serio la sua bizzarra trama. Se l’idea iniziale è demenziale e i suoi sviluppi pure, nondimeno i personaggi sono credibili e ben cesellati, con grande cura dei dettagli e senza eccessi o sbavature, e la storia viene portata avanti rimanendo coerente con le sue assurde premesse (ed è proprio questo che la rende così divertente). Non mancano gli spunti di satira politica e di costume, azzeccati ma senza mai prendere il sopravvento sulla trama (ed è un bene).

Se il film funziona così bene è anche merito di un casting molto azzeccato, con tutti gli attori perfettamente in parte. Chi ha amato Boris sarà felice di ritrovare alcuni interpreti della serie: se Francesco Pannofino si limita a una comparsata, troviamo Carolina Crescentini nella parte della madre del protagonista, ma soprattutto Paolo “Biascica” Calabrese, azzeccatissimo come regina aliena incarnata in un borgataro romano, che rigurgita uova dalla bocca intonando maledizioni sprezzanti nei confronti dei “mammiferi”. Impagabile.

La guerra del Tiburtino III merita di arrivare al grande pubblico, spero che i distributori trovino il coraggio di proporlo fuori dalle porte di Roma.

Gli altri film che ho visto in questa edizione:

Creep box

di Patrick Biesemans, USA

Una tecnologia innovativa permette di ricreare temporaneamente la personalità di persone defunte, che possono esprimersi a voce attraverso quelli che vengono definiti “sussurri”. Il dottor Caul ne è il principale esperto, ma deve affrontare numerosi problemi: le dubbie implicazioni etiche, i finanziatori che spingono sull’aspetto commerciale trascurando quello scientifico, e il desiderio di usare lui stesso i sussurri per comunicare con la moglie morta suicida.

Creep Box nasce dall’acclamato cortometraggio con lo stesso titolo uscito l’anno precedente, che nei suoi primi minuti riproduce molto da vicino (con alcuni attori cambiati). Ma, se il corto era estremamente efficace, la trasformazione in lungometraggio non è riuscita alla perfezione.

Il film riesce piuttosto bene a creare un’atmosfera di suspense, con l’evocazione delle personalità dei defunti che sembra la versione ipertecnologica di una seduta spiritica (con parole chiave scandite a mò di formule magiche per favorire la connessione), e mette sul tavolo una serie di problematiche interessanti: le voci sono solo simulazioni, o sono veramente persone? Quanto ci si può fidare di quello che dicono? Fa davvero bene ai loro cari poterci parlare? Grazie anche alla solida interpretazione del protagonista Geoffrey Cantor nei panni del cupo e tormentato professor Caul, si rimane catturati dalla storia nonostante l’assenza di scene d’azione o effetti speciali. Purtroppo però il regista non sa sfruttare adeguatamente l’ottimo materiale, e cade nel finale, dove tutto si fa confuso e non si risponde ad alcuna delle domande poste. Peccato.

Pandemonium

Di Quarxx, Francia

Dopo un incidente stradale, Nathan scopre di essere morto e destinato all’Inferno. In attesa di sapere quale sarà la sua pena, assiste alle storie di altri dannati: una bambina che ha sterminato l’intera famiglia, e una madre che ha causato il suicidio della figlia ignorando le sue richieste di aiuto.

Mi riesce difficile emettere un giudizio su questo film, perché da ogni scena emerge chiaramente una interessante personalità di autore, e tuttavia non mi è del tutto chiaro dove il regista volesse andare a parare.

Il prologo di Pandemonium è forse la sua parte migliore: il dialogo tra i due personaggi appena morti e che gradatamente si rendono conto di dover andare uno all’Inferno e l’altro in Paradiso (ma ci sarà una sorpresa) ha i toni di un efficacissima commedia nera. L’episodio dedicato alla bambina assassina ha invece la forma di una farsa gotica e inquietante (con una protagonista tredicenne di eccezionale bravura), mentre il successivo, con la madre che per tutto il tempo continua a parlare al cadavere della figlia senza voler accettare il suo suicidio, è di un’angoscia davvero lancinante. Nel finale si ritorna al Nathan della parte iniziale, con un ulteriore sorpresa: il diavolo a cui è stato affidato se lo lascia scappare, e viene spedito sulla Terra per riprenderselo. Potrebbe essere l’inizio di un film bizzarro e divertente, ma invece arrivano i titoli di coda.

Nel presentare il film, Quarxx ha dichiarato che la sua intenzione iniziale era di girare nove episodi, uno per ciascun girone dell’Inferno, e di essere stato dissuaso dalle difficoltà tecniche dell’impresa. Forse se davvero avesse girato più episodi sarebbe più facile dare un senso al film, mentre così la totale diversità delle tre storie presentate rende difficoltoso tirare le somme. Forse il tema potrebbe essere quello della negazione: tutti i personaggi del film in qualche modo non accettano la propria dannazione. Nathan contesta che il proprio peccato meriti l’Inferno, la bambina attribuisce i propri delitti a un immaginario mostro-servitore che fa impiccare al proprio posto, mentre la madre non vuole vedere il suicidio della figlia. A questa negazione fa da contraltare una logica spietata: nonostante nessuno dei personaggi ci sembri davvero meritare l’Inferno (anche la malvagità della bambina è quella inconsapevole di chi non sa valutare la gravità dei propri atti), tutti vengono dannati. Meritiamo tutti l’Inferno, sembra dire il regista, e non lo vogliamo vedere.

A Million Days

di Mitch Jenkins, UK

Con la Terra devastata dal cambiamento climatico, l’umanità affida le sue speranze a un’astronave costruita per fondare una colonia sulla Luna. Tuttavia un esame delle simulazioni condotte da un’intelligenza artificiale fa sorgere il sospetto che quest’ultima stia manipolando la missione per fini ignoti, mentre emergono collegamenti con un incidente che ha causato la morte di un’astronauta cinque anni prima…

A Million Days inizia con alcune scene ambientate in orbita, facendo pensare a un’avventura spaziale, ma è solo un contentino dato allo spettatore: tutto il resto del film ha un impianto strettamente teatrale, un lungo dialogo tra personaggi in cui gli eventi vengono solo evocati senza mai essere mostrati. Un impianto di questo tipo per reggersi avrebbe bisogno di una logica ferrea, mentre purtroppo la trama imbastita dagli sceneggiatori è piena di vaghezze e approssimazioni. Il cambiamento climatico evocato in apertura non è che un macguffin, dato che gli scopi della missione salvifica non vengono mai definiti con precisione. L’idea di fondo (un’intelligenza artificiale che si ribella ai suoi creatori per meglio perseguire gli obiettivi che le sono stati affidati) non è certamente nuova, risale perlomeno a 2001: Odissea nello spazio, più di mezzo secolo fa! La sceneggiatura cerca di accumulare colpi di scena attribuendo sempre nuove mirabolanti capacità all’intelligenza artificiale, ma in questo modo rende sempre più difficile la sospensione dell’incredulità: se può fare tutte queste cose, non si capisce perché abbia dovuto ricorrere a un piano così contorto per ottenere quello che vuole.

In conclusione, un film che mantiene molto meno di quello che promette.

Herd

di Steven Pierce, USA

Una coppia lesbica in crisi cerca di ritrovare la concordia attraverso una settimana di campeggio, ignara che nella zona è scoppiata un’epidemia che trasforma le persone in mostri aggressivi. Ma forse ancora più pericolose dell’epidemia sono le milizie armate che si sono formate per combatterla, ignorando gli appelli alla calma del governo statunitense.

Herd si potrebbe definire un film di zombie revisionista. Sì, perché, anche se quelli mostrati dal film si chiamano “hep” e il regista non vorrebbe fossero chiamati zombie, è inutile negare l’evidenza: siamo di fronte a un film di zombie che mette in scena tutti i cliché del genere, anche se poi ne capovolge il senso: a mano a mano si scopre infatti che gli zombie non sono poi così pericolosi, e che la vera minaccia sono invece le bande armate che sorgono per rimediare alla supposta inerzia del governo, e che finiscono per incrementare la violenza combattendosi tra loro. È trasparente l’atto d’accusa contro l’America rurale, insofferente di ogni regola e autorità e pronta a usare la violenza contro ogni diverso, che siano zombie od omosessuali.

Va sicuramente elogiato il tentativo di rinnovare un genere ormai abusato applicandogli un nuovo sottotesto politico. Detto questo, però, il film non convince del tutto: il messaggio risulta troppo trasparente e a volte eccessivamente retorico, mentre per il resto la regia non si distacca dalla routine del genere. Sufficiente ma niente di più.

The Moon

di Kim Yong-Hwa, Corea del Sud

Non posso in buona fede recensire questo film perché ne ho visto solo un terzo, e poi sono uscito dalla sala per andare alla presentazione di un libro. Posso dire che quello che ho visto non mi ha entusiasmato: il solito film con l’astronauta perduto nello spazio, solo in salsa coreana. Abbiamo già dato.

Bonus: i film dell’anno scorso

Al Trieste Science + Fiction Festival sono andato anche l’anno scorso, a presentare Fanta-Scienza 2, e nell’occasione sono riuscito a vedere un paio di film, che avrei voluto recensire qui ma non ho trovato il tempo. Quindi li recupero ora!

LOLA

di Andrew Legge, U.K.

Negli anni ’30 due geniali sorelle orfane che vivono sole in una villa nella campagna britannica inventano una macchina in grado di captare le trasmissioni televisive del futuro. Per un po’ si limitano ad ammirare le popstar come David Bowie ma, quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale, non resistono alla tentazione di usare la macchina per scoprire in anticipo dove cadranno le bombe tedesche. Le conseguenze saranno dirompenti.

Davvero un piccolo capolavoro questo film che si è meritato il premio Méliès d’argent (riservato ai lungometraggi di produzione europea) e anche il premio di Wonderland. Essendo passato un anno dalla sua uscita potete addirittura guardarvelo a costo zero su RaiPlay, e vi consiglio caldamente di farlo!

Il merito di LOLA non è nell’idea in sé, che in fondo è una classica storia di paradossi temporali affine a tante altre viste in precedenza. Quello per cui si distingue è sono lo stile e il rigore con cui la mette in scena. LOLA è interamente realizzato con la tecnica del found footage, come se fosse stato girato (in un magnifico bianco e nero) con una cinepresa dell’epoca per documentare eventi reali (e il motivo per cui questo filmato è presente nel nostro universo verrà spiegato nel finale).

Con due interpreti bravissime e carismatiche che si rubano la scena a vicenda, il film riesce a porre importanti domande sul senso della nostra presenza nella storia, senza mai cessare di essere avvincente. Per me il migliore dei film che ho visto a Trieste.

The Breach

di Rodrigo Gudiño, Canada

Quando un cadavere con inspiegabili ferite e deformità viene trovato sulle rive di un lago, lo sceriffo locale non può esimersi dall’andare a ispezionare il luogo da cui sembra provenire, in un’area praticamente disabitata. Lo accompagnano un amico e l’ex fidanzata.

Può essere che agli appassionati di horror questo film dica qualcosa, ma io l’ho trovato davvero pessimo. La trama di base è una delle più vecchie e scontate del genere (sappiamo fin da principio che nella casa sperduta in mezzo al nulla troveremo uno scienziato pazzo che ha oltrepassato limiti che l’uomo non dovrebbe valicare), e i tentativi di renderla interessante sono confusi e contraddittori, e hanno sempre meno senso a mano a mano che si procede. Non sembra esserci un sottotesto, a meno che non lo si voglia vedere nel personaggio interpretato dal chitarrista dei Rush, Alex Lifeson, che sembra l’evidente parodia di un complottista (però alla fine ha ragione lui, quindi… dove si va a parare?). Vedibile solo se ci si accontenta di un po’ di avventura e suspense senza altro dietro.

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Come costruire un alieno

Questo è uno di quei libri che ho deciso di leggere nell’istante stesso in cui ne ho appreso l’esistenza. Come occasionale autore di fantascienza, infatti, mi sono sempre posto il problema di come creare degli alieni che non fossero i soliti “umanoidi un po’ strani” che si incontrano spesso nelle space opera, ma che dessero veramente un effetto di alienità, pur essendo credibili dal punto di vista fantascientifico.

Da questo punto di vista il contenuto mantiene solo in parte quanto promette il titolo. Anche se l’autore appare ferratissimo nel campo della fantascienza (sono decine i titoli di libri e film, famosi e oscuri, recenti o d’epoca, citati a proposito), ha deciso di rimanere fermamente ancorato a ciò che conosciamo davvero, e cioè la vita sulla Terra, senza seguire ipotesi più fantasiose. Non si parla quindi, se non per accenni, di forme di vita con basi diverse dal carbonio, tantomeno di idee più eterodosse come forme di vita basate su pura energia.

Quello che il libro fa, invece, è esaminare quello che sappiamo di come si è evoluta la vita sulla Terra e analizzare quale sarebbe potuto essere il risultato se le cose fossero state diverse in qualche momento dell’evoluzione. Un approccio forse meno utile all’autore di fantascienza (non del tutto inutile, comunque, anzi: nel corso della lettura mi sono venute in mente diverse razze aliene davvero bizzarre), ma non meno interessante.

Consiglio quindi Come costruire un alieno a chiunque abbia voglia di rinfrescare e aggiornare le sue conoscenze su biologia, evoluzione, etologia, nonché scoprire molte delle tante stranezze che il corso dell’evoluzione ha prodotto sul nostro pianeta. Di particolare interesse la bibliografia, che offre molti modi per approfondire i temi che nel testo forzatamente vengono solo accennati. Il testo è accessibile anche ai non addetti ai lavori; tuttavia, anche se il tono è colloquiale, l’approccio è rigoroso, e richiede quindi una certa attitudine a letture scientifiche complesse.

Volendo fare una critica, direi che il più grave difetto di Come costruire un alieno è la completa assenza di illustrazioni. Viene citata ogni sorta di strana creatura, e sapere che aspetto hanno un desulfovibrio audaxviator o un eterocefalo glabro senza dover googlare avrebbe sicuramente facilitato l’immersione nella lettura.

Disclaimer: libro ricevuto in visione, su mia richiesta, da Codice Edizioni

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Film anteprima: Il Mondo dei Replicanti




In un futuro non troppo lontano, il mondo è stato rivoluzionato dall’introduzione dei “surrogati”, robot umanoidi che possono essere controllati a distanza da un essere umano comodamente seduto in una poltrona in casa propria. Usare un surrogato significa esplorare il mondo con una versione più forte e più bella di se stessi, e in più poterlo fare senza correre alcun rischio, dato che la cosa più grave che può accadere è la distruzione del surrogato. La cosa è così attraente che ormai le strade sono popolate solo di surrogati, mentre gli esseri umani stanno rintanati in casa a vivere le loro vite per procura.  Soltanto un ristretto numero di dissidenti vive in riserve dove l’uso dei surrogati è vietato. Ma questo stato di cose rischia di precipitare rapidamente quando qualcuno comincia a usare una pistola che non solo uccide i surrogati, ma contemporaneamente anche le persone a loro collegate…

È evidente che nel girare questo film ispirato a un graphic novel, il regista Jonathan Mostow (già autore del dimenticabile Terminator 3) aveva intenzione di ispirarsi a modelli elevati, come il celeberrimo Blade Runner, esplicitamente citato in alcune scene (e anche nel titolo italiano, mentre quello originale è Surrogates). E in effetti questo non è il “solito” film fracassone pieno solo di sparatorie ed effetti speciali (che pure non mancano), ma riesce a costruire immagini di un mondo che risulta credibile pur essendo totalmente straniante. Un mondo in cui tutte le persone sembrano stelle del cinema (ma hanno a casa un alter ego trasandato e invecchiato), in cui le “persone” assistono con curiosità alle sparatorie, non temendo di essere uccise, o in cui lo stesso corpo meccanico può essere usato in sequenza da più persone diverse. Tuttavia gran parte dello sforzo registico viene vanificato da una sceneggiatura semplicistica, in cui la tecnologia viene descritta in modo inverosimile (un hacker operando da un singolo computer in una qualsiasi stazione di polizia può infettare tutti i surrogati del mondo contemporaneamente…), e usata per veicolare una morale trita (la tecnologia porta le persona a straniarsi e ignorare i propri veri sentimenti) che, nell’era di Internet e di Facebook, suona davvero improponibile. Peccato, perché alcuni spunti del film avrebbero meritato uno sviluppo migliore. Bruce Willis, pur penalizzato dal trucco da bambolotto del suo alter ego meccanico, regge comunque bene il ruolo di protagonista.

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Film: Moon

MoonUna base spaziale sul lato nascosto della Luna, dove si estrae dalle rocce lunari l’elio-3 necessario agli impianti a fusione terrestri, è abitata da un uomo solo, Sam, in attesa che il suo contratto triennale scada e gli consenta di fare ritorno sulla Terra. Un giorno Sam ha un incidente che gli fa perdere conoscenza. Quando rinviene, non ricorda bene cosa gli è successo, e comincia a notare delle incongruenze. Ben presto si accorgerà che la sua situazione è completamente diversa da quella che immaginava…
Moon era un film estremamente atteso. Non solo perché si tratta del debutto alla regia di Duncan Jones, noto per essere il figlio di David Bowie. Ma soprattutto perché è quello che gli appassionati attendevano con sempre maggiore impazienza: un film di fantascienza una volta tanto basato su una sceneggiatura autenticamente fantascientifica nelle situazioni e nei personaggi, e non su un pretesto per sfoderare effetti speciali e battaglie. Dopo averlo visto, posso dire che l’attesa era giustificata solo in parte. In effetti, Moon è davvero un film di fantascienza vecchio stile. Guardandolo è difficile non pensare a 2001: Odissea nello Spazio, Dark Star, 2002 la Seconda Odissea, Atmosfera Zero, Spazio: 1999 e non so più quanti altri film e telefilm di fantascienza del passato. Con questo non intendo dire che si tratti di un film nostalgico o citazionista, ma semplicemente che prende a modello un certo cinema in cui a essere protagonista non era l’azione vertiginosa, ma lo sottile angoscia di trovarsi nell’ambiente ostile e alieno dello spazio. Da questo punto di vista Moon riesce benissimo nell’intento, e chi, come me, aveva nostalgia di questo tipo di cinema non può che rallegrarsene.
Al di là di questo, però, Moon è un film riuscito solo a metà. La prima parte funziona benissimo, e costruisce abilmente la suspence utilzzando elementi classici in maniera originale e inconsueta. Quando però il mistero viene svelato, il film si affloscia un po’. Se da un lato vengono coraggiosamente evitate le soluzioni più ovvie, dall’altro però il potenziale drammatico di molte situazioni viene sfruttato solo in parte, e talvolta svilito da scappatoie che appaiono un po’ troppo facili. Anche il finale appare un po’ troppo semplicistico e positivo rispetto alla materia trattata.
In ogni caso guardare Moon mi ha fatto molto piacere e mi ha riportato a un tipo di cinema che credevo ormai scomparso. Un appassionato di fantascienza semplicemente non può perderselo (tenendo conto che anche a Milano per vederlo bisogna andare in un cinemino d’essai, immagino altrove le difficoltà!).

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Film: Star Trek


Una colossale astronave romulana, uscita dal nulla, attacca una nave terrestre distruggendola, per poi scomparire. Venticinque anni dopo la nave riappare attaccando il pianeta Vulcano. Ad affrontarla arriva l’Enterprise, con a bordo anche uno scapestrato cadetto, James Kirk, figlio del comandante della nave distrutta…
Fino a poco tempo fa, pareva certo che di Star Trek non si sarebbe più sentito parlare. Dopo quarantacinque anni, cinque serie televisive e dieci film, di qualità declinante fino all’imbarazzo, si poteva tranquillamente pensare il potenziale dell’universo trekkie fosse definitivamente esaurito. Invece J. J. Abrams (la mente dietro alla serie televisiva Lost, se qualcuno non lo conoscesse) ha compiuto un piccolo miracolo, grazie a un’idea forse persino scontata, ma riuscitissima: un paradosso temporale. Nel corso del film veniamo infatti a scoprire che, a causa di un viaggio nel tempo, la storia è stata cambiata. Possiamo quindi goderci il meglio di entrambi i mondi: da un lato i personaggi sono gli stessi che amiamo da oltre quarant’anni, con i loro tic, i loro modi di dire e di fare, e anche numerosi elementi della loro storia. Dall’altro però le loro vite sono state differenti da quelle che conosciamo, e quindi possono essere diversi quel tanto che basta da poterli aggiornare senza ledere la continuità storica e logica della serie. Così vediamo i membri dell’equipaggio dell’Enterprise amare e fare sesso, in modi che prima avevamo potuto solo intuire. Vediamo i loro caratteri estremizzati, e li vediamo immersi in un atmosfera fa film d’azione del XXI secolo che con il vecchio Star Trek ha poco a che vedere. Il risultato è essenzialmente un film divertente, che manda in brodo di giuggiole il trekkie veterano che ritrova i suoi beniamini aggiornati al Duemila, ma che risulta digeribile anche a chi della saga conosce ben poco. Il che non signficica che il film sia privo di difetti. In particolare il cattivo di turno è del tutto monodimensionale, e le sue semplicistiche motivazioni mal si accordano con le sue azioni arzigogolate e sproporzionate. Ma, in fin dei conti, anche molti episodi passati della saga avevano difetti del genere, e non ci avevano impedito di goderceli. Rispetto al film d’azione medio, questo Star Trek risulta molto curato, con un buon equilibrio tra scene d’azione e cura dei personaggi, e soprattutto con alcuni tocchi umoristici che gli impediscono di risultare troppo pesante. Giudizio positivo, quindi, e speriamo che negli inevitabili seguiti la qualità venga mantenuta. Certo, se poi ogni tanto uscisse un film di fantascienza veramente innovativo, invece che basato su una serie del secolo scorso…

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Un futuro di delitti

Vi segnalo che su Delos è apparso un mio articolo sui noir fantascientifici. Non è articolato ed esauriente come avrei voluto, perché purtroppo è stato scritto in un periodo di totale ingorgo lavorativo. Ma spero che possa comunque risultare interessante.

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Libro: Guida Galattica dei Gourmet

GGGQuesta, più che una recensione, è una segnalazione: non sarebbe infatti corretto recensire un libro di cui sono tra gli autori. In effetti un mio raccontio, Missione diplomatica, appare tra le sue pagine.
L’occasione per l’uscita dell’antologia è stato il decennalle di Memorie di un cuoco d’astronave di Massimo Mongai. Ricordo che all’epoca il libro non mi entusiasmò: mi parve sì, divertente, simpatico, piacevole, ma anche di un umorismo un po’ troppo semplice, scontato, per meritare il premio Urania. Col senno di poi, però, devo correggere il mio giudizio, perché Mongai è indubbiamente riuscito a creare un personaggio in grado di rimanere nella testa della gente, una specie di archetipo come il capitano Kirk, in grado di veicolare i contenuti più vari. E in effetti la cosa più divertente di questa raccolta di racconti è vedere come il personaggio del cuoco spaziale Rudy Turturro sia stato preso in mano da ben 19 autori rimanendo sempre essenzialmente se stesso, nonostante la grande varietà di stili e di situazioni.
Forse il mio giudizio è distorto dal fatot di essere stato tra i prescelti, ma devo lodare l’opera dei curatori, che sono riusciti a mettere insieme un gran numero di racconti, alcuni buoni (il mio preferito è quello di Francesco Grasso) altri un po’ meno, ma senza i terribili sbalzi di qualità che si trovano spesso in opere di questo genere.
Il libro sembra distribuito molto bene (perlomeno, a Mlano si trova ovunque), se qualcuno dovesse acquistarlo e leggere il mio racconto mi faccia sapere il suo giudizio.

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Tu prostata nella polvere

In questi giorni, per tenermi in esercizio e per vedere cosa produce la fantascienza tedesca,  sto leggendo un romanzo in tedesco: Das Cusanus-Spiel di Wolfgang Jeschke. Sono ancora troppo indietro per parlarvi del libro in sé (lo farò a tempo debito), ma una cosa mi ha colpito fin dalle prime pagine. L’autore ha ambientato il romanzo a Roma, città che deve conoscere personalmente, visto che si lancia in riferimenti topografici piuttosto precisi. Purtroppo però più spesso che no ci va di mezzo l’ortografia italiana. Una buona metà della toponomastica citata è sbagliata (piazza Triluzza, piazza dei Colosseo, ponte San Fabricio, isola Tibertina, per non parlare delle automobili marca Fiat Lux o della esilarante citazione dell’Aida che dà il titolo a questo post. Che ci sarebbe voluto a dare una controllatina ai nomi stranieri nel testo? Pare che la sciatteria editoriale in Germania sia allo stesso livello che in ITalia. Non so se ci sia da compiacersene…

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Ritorno a Delos

Ho finalmente ripreso, dopo aver rimandato per tanto tempo, la mia collaborazione con Delos.
Il mio primo articolo, sulla fantascienza tedesca, lo trovate qui.

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Libro: Sorpresi dalle Tenebre

Sorpresi dalle TenebreIn un mondo in cui quasi tutti sono lupi mannari, i pochi esseri umani che non si trasformano al sorgere della luna piena sono obbligati a servire in una sorta di servizio d’ordine, per evitare che i trasformati provochino danni. Lola Galley è una di loro, ed entra in crisi quando un suo collega viene assassinato. Per ucciderlo hanno usato una delle pallottole d’argento che si usano per difendersi dai mannari. E’ forse un simbolo?
Quando ho letto il risvolto di copertina di questo libro, ho deciso di procurarmelo immediatamente: mi è sembrata un’idea troppo buona! Mi aspettavo qualcosa di simile allo splendido Cacciatori delle tenebre di Barbara Hambly (in cui un essere umano viene assunto dai vampiri per indagare di giorno, quando loro non possono agire). Purtroppo devo dire, a conti fatti, che il libro non ha mantenuto la sua promessa e mi ha lasciato parecchio deluso. Questo a causa del fatto che l’autrice non ha saputo costruire bene il mondo in cui ha ambientato la vicenda.
Per cominciare, un delitto capitale: in un mondo popolato da lupi mannari, non viene chiarito a sufficienza cosa significhi essere uno di loro. Da un lato i mannari vengono descritti come orgogliosi di essere tali, al punto che non rinuncerebbero mai al fatto di trasformarsi, e che provano una istintiva diffidenza e repulsione verso chi non si trasforma. Dall’altro però i mannari non ricordano quasi nulla di ciò che fanno quando sono in forma di lupo, e hanno costruito una società identica alla nostra, che tiene conto solo del loro lato umano, e che li obbliga a rinchiudersi in casa ogni volta che si trasformano. A me pare una grossa contraddizione, che rende molto nebuloso quello che dovrebbe essere uno degli aspetti fondamentali del libro.
Non è chiaro nemmeno il perché i lupi mannari abbiano sentito la necessità di rinchiudersi e di affidare ai non-licantropi, che pure odiano, il compito di catturare coloro che non rispettano il divieto. Ci viene detto più volte che l’opera di controllo dei non-licantropi è l’unica cosa che salvi il mondo dal caos e dalla carneficina, però i lupi mannari non ci vengono mai mostrati nell’atto di aggredire un loro simile (al contrario, sembrano andare perfettamente d’accordo tra loro) o di provocare danni. Gli unici morti e feriti che si vedono sono tra i non-licantropi che cercano di catturarli. Viene da pensare che, se fossero questi ultimi a rimanere rinchiusi durante la luna piena, non accadrebbe nulla.
Infine, è totalmente assurda e contradditoria la descrizione dei poteri che vengono attribuiti ai non-licantropi. Da un lato, viene descritto come siano obbligati a non fare alcun male ai mannari che catturano, e come questo li obblighi a correre gravissimi rischi, con la costante minaccia di provvedimenti disciplinari e risarcimenti danni se non seguono le pericolose procedure. Dall’altro però, se stanno indagando su un reato commesso da un mannaro in forma di lupo, i loro poteri sono pressoché illimitati: possono prelevare persone all’insaputa di tutti, tenerle per settimane rinchiuse in celle medioevali senza rendere conto a nessuno, e persino torturarle impunemente. È evidente che queste due situazioni non possono coesistere. Quasi tutte le istituzioni dei non-licantropi appaiono costruite in modo forzato, senza che ci sia una reale motivazione perché le cose vadano così. Per esempio, viene detto che i non-licantropi subiscono spesso molestie sessuali da ragazzi, in quanto sono obbligati a passare ogni notte di luna piena nei rifugi, in condizione di promiscuità. E non si può fare a meno di chiedersi quale difficoltà abbia impedito loro di creare rifugi meno promiscui: la motivazione della mancanza di personale appare piuttosto inconsistente.
Insomma, il mondo in cui si svolge Sorpresi dalle tenebre difetta totalmente di logica. Ed è un peccato, perché l’autrice saprebbe scrivere molto bene. Lola Galley è un gran bel personaggio, col suo miscuglio di fragilità e aggressività, e la sua evoluzione viene descritta con grande finezza psicologica. Anche la trama gialla funziona piuttosto bene, e conduce a un gran bel finale. Ed è particolarmente riuscito il modo in cui l’autrice sfrutta l’inversione per cui sono i non-licantropi a sentirsi dei "mostri", al punto di desiderare di avere figli mannari. Insomma, questo romanzo è un po’ come una Ferrari cui hanno versato nafta nel serbatoio: possiamo ammirarne la linea, decantare le doti del motore… ma non partirà mai. Che occasione sprecata!

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