Disco: Fear of a Blank Planet

Porcupine Tree Sono quasi due mesi che ho questo disco per le mani, avrei potuto recensirlo in anteprima assoluta, invece me lo sono tenuto finoad oggi (la recensione "ufficiale" è uscita un mese e mezzo fa su AudioVideoFotoBild, ma lì parlavo ai profani,qui invece vorrei riuscire ad arrivare al fondo di un disco, se decido di parlarne.
Il fatto è che Fear of a Blank Planet è un disco difficile. Se lo ascolto, non trovo critiche immediate da fargli, anzi, rimango ammirato per la qualità del suono e i tanti piccoli dettagli della composizione. Però, è innegabile, questo disco non mi entra in testa. Mentre anche in opere non proprio accessibili come Deadwing si poteva trovare il brano che tirimaneva in testa e faceva da chiave a tutto il resto, qui non c’è. Steven Wilson, che ho intervistato, mi ha detto che concepisce questo disco come un tutto unico, non come un insieme di canzoni, e per questo non si è preoccupato di inserire brani che si discostassero dall’atmosfera generale, piuttostoostica e cupa. E tuttavia non mi sono arreso, ho continuato ad ascoltarlo, e ad ogni ascolto ho notato nuovi dettagli, il che mi convince che non si tratti di un disco ostico per partito preso, ma solo di un’opera che richiede il suo tempo per essere assimilata.
Il brano iniziale è la title-track, e sembra un avanzo di Deadwing. Il sound è esattamente lo stesso, tanto che si potrebbe sospettare che i Porcupine Tree abbiano realizzato un album-clone (ma non è così). Comunque un buon inizio, ai livelli dei brani migliori del disco precedente. Segue My Ashes, il brano più breve (comunque oltre i cinque minuti!), introdotta da un pianoforte effettato alla No Quarter (secondo me in questo album i Led Zeppelin si sentono parecchio!). Un brano languido e melodico, che inizialmente non mi aveva impressionato ma che ora ritengo uno dei migliori del disco. Si evidenzia una delle novità principali di Fear of a Blank Planet, il sostegno del piano elettrico suonato da Wilson (che si affianca alle effettistiche tastiere di Richard Barbieri). Viene poi Anesthetize, il brano principale, con i suoi quasi 18 minuti di durata. Wilson me lo ha descritto come un brano che tenta di riassumere ogni possibile sound dei Porcupine Tree di ogni epoca, ed è un’ottima descrizione. C’è dentro veramente di tutto, dalla psichedelia degli esorti alla durezza metal dell’ultimo periodo. Ospite speciale Alex Lifeson dei Rush, che regala un potente assolo. Bisogna dire che l’album giustifica se stesso anche solo per questo brano.
Sentimental, la canzone successiva, è un brano melodico con gran tappeti d’archi, che può ricordare le atmosfere di Lightbulb Sun. Nonostante questo, per me è il punto debole del disco, non brutto ma alquanto poco incisivo. Non mi piace moltissimo nemmeno la successiva Way Out of Here: appartiene alla famiglia delle Halo o Strip the Soul, brani molto veloci ma un po’ senz’anima, non sono il forte di Wilson. La conclusione però è splendida: Sleep Together è costruita su un tappeto elettronico steso da Robert Fripp, e procede crescendo fino a un finale con archi zeppeliniani, davvero un modo eccellente per chiudere l’album.
Concludendo, direi che è senz’altro un buon disco, ed è apprezzabile lo sforzo dei Porcupine Tree di rinnovarsi e di alzare sempre la mira (tutto si può dire di questo disco, fuorché che sia commerciale, nonostante le accuse inevitabilmente piovute dopo l’approdo alla Roadrunner Records). Se siete dei fan dei Porcupine Tree potete acquistarlo (o preferibilmente scaricarlo, siamo realisti!) senza problemi, non credo resterete delusi. Se invece non li avete mai sentiti, è preferibile cominciare con qualcosa di (relativamente) più accessibile, tipo In Absentia

Colgo l’occasione per annunciare che il prossimo 1 giugno metterò on-line l’intervista completa a Steven Wilson. Rispetto a quella apparsa sul numero di AudioVideoFotoBild attualmente in edicola non c’è moltissimo materiale in più, ma qualcosa sì, e spero gradirete.

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Speck e LaBrie

James LaBrie e Marco PassarelloEbbene sì, questa volta ho intervistato i Dream Theater. Per la precisione ieri a mezzogiorno, all’hotel Pierre di Milano. Non sono particolarmente soddisfatto di come è andata l’intervista. In primo luogo perché mi avevano promesso anche Mike Portnoy, e invece c’era solo James LaBrie. Quindi molte delle domande "tecniche" che mi ero preparato sono andate a farsi benedire. Ma soprattutto, mi avevano detto venti minuti, e invece dopo dieci minuti "last question, please". Io mi ero tenuto per ultime le domande un po’ complicate per mettere a mio agio l’intelrocutore, e non le ho potute fare. E’ venuta fuori una cosa banalotta anzicheno. Comunque sia, uscirà su AudioVideoFotoBILD di giugno, e il mese successivo magari renderò disponibile il testo integrale (anzi, conto di farlo presto con TUTTE le interviste che ho realizzato… ma tra il dire e il fare…).

P.S.: Scegliete voi se l’autodefinizione di "speck" si applica per la provenienza altoatesina o per la stazza.

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Concerto: Blackfield

BlackfieldPer chi non lo sapesse, i Blackfield sono l’ennesimo progetto collaterale di Steven Wilson, il geniale e poliedrico leader, chitarrista e cantante dei Porcupine Tree, insieme al musicista israeliano Aviv Geffen. Geffen gode di grande popolarità  nel suo paese ma, comprensibilmente, è totalmente sconosciuto all’estero. Wilson si è innamorato della sua musica al punto da trasferirsi per sei mesi in Israele pur di poter collaborare. Il risultato sono stati due dischi: uno del 2004, che includeva anche alcuni dei maggiori successi di Geffen tradotti dall’ebraico in inglese; e uno appena uscito e interamente di nuove composizioni.
Il concerto si è tenuto all’Alcatraz, in una pessima giornata di pioggia e blocco totale del traffico: pubblico decisamente scarso. Tutto si è svolto in orario (supporter alle 20, headliner alle 21). La serata è stata aperta dai Pure Reason Revolution, sconosciuta band inglese che si è rivelata una piacevole sorpresa. Fanno una musica molto interessante che giustappone elementi molto diversi: una ritmica piuttosto "heavy", armonie vocali, molta elettronica applicata alle chitarre. Non guasta il fatto che la bassista, cantante e fondatrice del gruppo, Chloe Alpert, sia molto carina, una specie di moderna Chrissie Hynde. La professionalità  del gruppo si è vista anche dal fatto che il suono era non dico buono, ma perlomeno decente (e si sa che i supporter sono sempre sacrificati nei soundcheck). Sono subito finiti nel mio elenco di band da tenere d’occhio.
I Blackfield sono entrati in azione subito dopo. Wilson e Geffen erano accompagnati da tre musicisti israeliani: un bassista, un batterista e tastierista. Dal punto di vista esecutivo, Wilson è evidentemente il punto forte del duo: non solo la sua chitarra elettrica è il punto centrale di quasi tutti gli arrangiamenti, ma ha anche sostenuto quasi tutte le parti vocali più difficili. Al suo confronto Geffen rimane in ombra, strimpellando un’acustica o un’elettrica ritmica e cantando con voce potente ma un filo troppo lamentosa per i miei gusti.
Il concerto è stato diviso in due da un intermezzo in cui Geffen ha eseguito Pain da solo al pianoforte, e poi ha accompagnato Wilson in una suggestiva versione di Thank You di Alanis Morissette (ho sempre pensato che fosse un gran bel pezzo, mi fa piacere che anche Steven la pensi così). Per il resto, la cosa che  mi è piaciuta di più è stata la "scioltezza" con cui i brani sono stati eseguiti. Mai una pausa, arrangiamenti anche complicati, il tutto senza sforzo apparente, con suoni perfetti. Una vampata di energia che ha calamitato il pubblico dal primo all’ultimo pezzo. E’ davvero raro vedere un concerto di questa qualità.
Riguardo al materiale, ho apprezzato ancora di più i brani del primo disco, che avevo inizialmente preso sottogamba, ma che invece ora mi rendo conto essere davvero una splendida collezione di canzoni. Resto invece meno convinto del secondo. Alcuni brani sono indubbiamente all’altezza dei primi, come l’iniziale Once, ma in alcuni casi gli arrangiamenti mi sono sembrati un po’ scontati, un progressive melodico senza tante pretese, alla Kino. Ma forse è solo questione di tempo prima che mi accorga delle qualità di Blackfield II.
Per inciso, Once è stata eseguita due volte. E, conoscendo l’umorismo bizzarro di Steven Wilson, sono sicuro che non è casuale!
In conclusione, un concerto splendido. Se ve lo siete persi, avete fatto male. Ora aspetto i Porcupine Tree al Gods of Metal!

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Webcomic: Questionable Content

PintsizeTitolo e link: Questionable Content
Autore:
Jeph Jacques
Lingua:
Inglese
Tipologia:
Sit-com                
Formato:
Strip di quattro vignette lunghe
Colore o b/n:
A colori
Cadenza:
Cinque giorni la settimana, regolare
Continuità:
Un’unica storia continua
Gergalità:
Cospicua, gergo giovanile e tanti riferimenti a band oscure
Elementi fantastici:
Numerosi quando appaiono gli anthro-PC, ma per il resto il fumetto è realistico
Violenza:
Inesistente
Autoreferenzialità:
Nessuna
Archivio:
L’intero corpo del fumetto è disponibile online
Giudizio:
(10)

MartenQuestionable Content è una sit-com nel vero senso della parola, dato che i personaggi per la stragrande maggioranza delle storie non fanno altro che chiacchierare tra di loro scambiandosi battute, senza che nulla succeda. Ciò non toglie che sia un’ottima sit-com, di quelle che puoi continuare a seguire per l’eternità godendoti i dialoghi, senza veramente aspettarti che succeda qualcosa di più. Io la trovo spettacolarmente divertente, e mi chiedo come faccia l’autore, che tra l’altro è un giovincello, a sparare così una battuta dietro l’altra senza calare mai di tono. E mi piace anche la naturalezza con cui passa senza soluzione di continuità dal comico al drammatico, o dal banalmente realistico al totalmente fantascientifico. Per non parlare della quantità spaventosa di band che cita. Per giunta esce tutti i giorni. Dà dipendenza.

FayeIl mio consiglio è di cominciare dalla prima storia e seguirvelo tutto. Tuttavia, se volete sapere cosa è successo finora, vi dirà che Marten è ragazzo americano (categoria “indie”) con un lavoretto del cavolo in un ufficio. Faye è invece una formosa studentessa del sud. I due si piacciono. Il caso vuole che un incendio distrugga l’abitazione di Faye e che Marten si veda costretto a ospitarla in casa sua (dove vive in compagnia di Pintsize, il suo robot-PC). Il problema è che Faye è in crisi a causa del suicidio del padre, e non riesce a convincersi a iniziare una relazione seria con Marten. Entra così in gioco Dora, la snella e sexy datrice di lavoro di Faye al Coffee of Doom, un bar in cui i clienti vengono trattati malissimo, e che proprio per questo ha un grande successo. Anche a Dora piace Marten, e i due finiscono insieme. Marten è un po’ imbarazzato nei confronti di Faye, che sembra avere accettato la cosa… ma vedremo in futuro. Altri personaggi importanti: Raven, la ragazza apparentemente svampita, compagna di lavoro di Faye e Dora. Annelore, vicina di casa di Marten, preda di una sindrome ossesiva-compulsiva che la spinge a pulire casa in continuazione. Sven, il fratello donnaiolo di Dora. Penelope, la nuova arrivata al Coffee of Doom, sospettata di essere in realtà la supereroina Pizza Girl. Eccetera eccetera

Esempio Esempio

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In memoria: Michael Brecker

Michal BreckerHo saputo solo ora che Michael Brecker ci ha lasciato sabato scorso, a causa di una rara malattia del sangue che lo aveva colpito qualche anno fa e che non si è riusciti a curare.
Il mio primo ricordo di lui risale ai primi anni ’80, quand’ero al liceo, e a una festa uno dei miei compagni di classe mise su un brano stranissimo, in cui uno strumento che sembrava una specie di sax elettronico percorrreva scale che partivano sottoterra e finivano in cielo, superando l’estensione di un pianoforte. Il brano era In a Sentimental Mood di Duke Ellington, lo strumento era un Akai EWI, e a suonarlo era lui, Michael Brecker, che col gruppo degli Steps Ahead aveva sviluppato uno stile elettronico personalissimo, simile a quello di Pay Metheny con la chitarra (e infatti i due suonarono spesso insieme). Era uno di quei musicisti che sapevano suonare bene in qualsiasi contesto, passava dalla fusion elettronica degli Steps Ahead al jazz-funky insieme a suo fratello Randy, dalle canzoni di Paul Simon al perfetto stile coltraniano di molti suoi album solisti. Era un solista incontenibile, ma anche un perfetto accompagnatore, come si può ascoltare, per esempio, nello splendido Shadows and Light di Joni Mitchell, dove un’intera band di sogno era al servizio della voce roca e affascinante della cantautrice canadese.
Purtroppo non si è mai trovato il donatore le cui cellule staminali di midollo fossero compatibili con le sue. Ora abbiamo solo la sua musica a ricordarcelo. Andatevi a cercare un suo brano, uno qualunque, e anche voi non lo dimenticherete.

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Ci risiamo!

GenesisAvevo detto che non ci sarei più ricascato. Però questa volta la notizia è vera: i Genesis si riuniscono per un tour e, forse, un disco. Dico che la notizia è vera perché anche sul sito ufficiale viene detto chiaramente che tra due settimane ci sarà un grande annuncio (e cos’altro potrebbe essere?).
A ridimensionare, di parecchio, l’entusiasmo vengono però le dichiarazioni di Peter Gabriel, che afferma chiaramente che lui non ci sarà. Salvo improbabili sorprese, tornerà quindi in pista il collaudato terzetto Banks/Collins/Rutherford.
Che dire? Io non sono tra coloro che disprezzano incondizionatamente l’output dei Genesis degli anni ’80 e ’90. Al contrario, in ciascuno dei loro dischi ci sono dei brani che apprezzo. Tuttavia, dopo anni di attività, e dopo che ciascuno di loro ha firmato dei dischi extragenesis completamente da dimenticare, non tengo sicuramente il fiato sospeso…

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Concerto: Sting

StingEbbene sì, anch’io ero tra i tanti che sabato scorso in piazza Duomo a Milano hanno assistito al concerto di Sting offerto dal Cornetto Algida. Bisogna dire che non erano certo le condizioni ideali per ascoltare un concerto: in una piazza dall’acustica discutibile, lontanissimo dal palco, la cui visibilità mi era in parte preclusa dal monumento a Vittorio Emanuele II. Per giunta anche gli schermi giganti servivano a poco, visto che dovevano avere assoldato un regista di telenovelas: per la quasi totalità del tempo ha inquadrato il faccione di Sting in primissimo piano. Persino durante gli assoli di Dominic Miller preferiva inquadrare la faccia di quest’ultimo invece della chitarra. Davvero pessimo.
Nonostante tutto questo, devo dire che il concerto mi è molto piaciuto e sono contento di esserci stato. Sting si è presentato con una formazione ridotta all’osso: solo due chitarristi e un batterista, mentre lui si è tenuto il basso. Già questo lasciava presagire un ritorno al rock, dopo tanti anni di arrangiamenti jazzati che, dopo il fenomenale esordio di The Dream of the Blue Turtles, erano da tempo diventati maniera. Ma non avrei mai osato sperare che Sting facesse un concerto interamente basato sui brani dei Police e dei suoi primi album solisti, tralasciando totalmente la parte più recente e noiosa della sua carriera.
E qui devo aggiungere una nota personale. Io considero Sting uno dei più grandi autori di canzoni del secolo scorso. I Police sono stati il primo gruppo autenticamente rock che abbia mai seguito (ero alle medie!). E ricordo ancora quando acquistai The Dream of the Blue Turtles, e lo scetticismo per la prima prova solista di Sting si trasformò gradatamente in sconfinata ammirazione per un disco splendido. Tutto questo durò, più o meno, fino a Ten Summoner’s Tales. Poi l’incantesimo si ruppe bruscamente: Mercury Falling è un disco che a tutt’oggi non sono mai riuscito ad ascoltare per intero, da quanto è noioso. E Brand New Day e Sacred Love hanno seguito più o meno la stessa sorte: dischi inutili, tanto levigati e curati quanto assolutamente privi di idee. Mi sono detto: peccato, Sting ha finito le energie creative, succede. Però nel fondo del cervello mi era rimasto il dubbio: forse sono io che non so apprezzare questi dischi meno immediati, me li scarco da Internet o me li faccio masterizzare dagli amici, li ascolto due  volte e poi li metto via. I dischi degli anni Ottanta dovevo risparmiare un mese prima di comprarli, per questo li ascoltavo religiosamente e ne captavo ogni sfumatura. Beh, ora è stato proprio Sting in persona a togliermi ogni dubbio: se persino lui ha ritenuto opportuno presentare un solo brano dei suoi ultimi dieci anni di carriera, vuol dire che quei dischi sono delle merde, da dimenticare senza appello, e stop.
Per il resto, il concerto è stato quello che ci si poteva aspettare da Sting: lui canta ancora passabilmente bene e regge perfettamente il palco, la band era molto professionale, e soprattutto lui riesce a ogni tour a rinnovare i propri brani riarrangiandoli in modo non scontato. In questo concerto la trasformazione più riuscita è stata quella di When the World Is Running Down You Make the Best of What’s Still Around, che da semplice canzoncina è diventata una cavalcata rock-psichedelica alla Cream. La meno riuscita, invece, quella di If You Love Somebody Set Them Free, che rallentata perde la sua ragione d’essere.
In definitiva, si potrà anche dire che Sting è un musicista al tramonto, visto che le canzoni che ha presentato, eccettuata
Desert Rose, hanno tutte più di dodici anni di età. Però uno che come se niente fosse ti suona venti brani come questi (e volendo ne avrebbe ancora in serbo parecchi: pensate a Don’t Stand So Close to Me, Invisible Sun, Tea in the Sahara…) merita profondo rispetto.

Questa la scaletta (dell’identità dei brani sono sicuro, non altrettanto dell’ordine):

Message in a Bottle

Synchronicity II

Walking on the Moon

If I Ever Lose My Faith in You

Englishman in New York (sull’arpeggio di Mad about You)

Spirits in the Material World

Shape of My Heart

Driven to Tears

Every Little Thing She Does Is Magic

Why Should I Cry for You?

Fields of Gold

A Day in the Life

If You Love Somebody Set Them Free

When the World Is Running Down You Make the Best of What’s Still Around (con un accenno di Voices Inside My Head)

Roxanne (con un accenno di So Lonely)

Desert Rose

Next to You

Every Breath You Take

Fragile

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Chi va con lo Zappa impara a…?

P1010133Se vi state chiedendo chi siano le due persone nella foto, ora ve lo spiego. Quello figo con la chitarra in mano è Dweezil Zappa, figlio del più celebre Frank. Io sono quello alto (almeno quello!).
Ieri pomeriggio ho avuto la possibilità di intervistarlo (a fianco del mio capo). Si è rivelato un personaggio disponibile, estremamente professionale, molto preparato, anche se non ha rivelato alcuna scintilla di follia creativa paragonabile a quella del padre. O forse sono stato io a non sapergliela tirare fuori, non so. Purtroppo, una volta tanto che avrei avuto la possibilità di vedermi il concerto come giornalista accreditato, non ho potuto sfruttarla a causa di un impegno precedentemente preso. Mi sono mangiato le mani, ma non mi piace bidonare le persone. L’intervista apparirà su varie testate della mia casa editrice… ma vedremo se si potrà aggiungere qualcosa qui.

Comunicazione di servizio: ho valanghe di recensioni che avrei voluto scrvere e non ho scritto. Potrei farlo ora, ma vi interessa la recensione di un film ormai uscito dalle sale o di un concerto tenutosi diversi tempo fa? Fatemi sapere, così non scrivo per niente…

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Frankenstein musicali

FrankenelvisArrivo in ritardo di oltre un anno, ma scopro solo ora questo album e voglio segnalarlo a tutti. Sto parlando di Ricordi Bastardi, album in formato MP3 che si può scaricare gratuitamente dal web, con tanto di copertina per chi vuole passarlo su CD.Si tratta di 14 brani ottenuti innestando melodie di canzoni italiane d’epoca su tappeti musicali presi dai successi internazionali degli ultimi anni. Il risultato varia dall’ironico allo sconvolgente, spinge a riflettere su quanto possa essere piccola la differenza tra ciò che è di moda e ciò che è datato, ma è soprattutto molto divertente. E ci permette di sognare un mondo  in cui la musica, libera dalle pastoie del copyright, finisca direttamente in mano alla gente per farci quello che vuole. Consiglio l’ascolto: se siete curiosi di sapere come suonerebbero i Radiohead se il loro cantante fosse Nick Luciani dei Cugini di Campagna (sempre falsetto è!), o se i Massive Attack reclutassero il fantasma di Luigi Tenco per il loro prossimo disco, non potete perdervelo.

Il sito include anche uno splendido videogame che prende giustamente per il culo Giorgio Faletti per aver partecipato alla stupida campagna antipirateria del governo (per giunta senza capire un tubo della questione, come la celebre intervista rilasciata alla Stampa ampiamente dimostra). Provatelo! 🙂

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