Azzurro, questo parcheggio è troppo azzurro…

Divieto di sostaA Milano, in quasi tutte le zone, i parcheggi liberi sono scomparsi da tempo. Esistono solo i parcheggi per residenti, gialli (dove non puoi parcheggiare in nessuna ora del giorno se non hai il contrassegno di zona) e quelli a pagamento, azzurri (dove devi utilizzare "gratta e sosta" per cifre esorbitanti, a tutte le ore del giorno e, spesso, anche la sera). La cosa è già molto fastidiosa nel corso dell’anno, ma lo diventa particolarmente in agosto, quando la città si svuota e in ogni angolo ci sono parcheggi liberi, ma le regole rimangono le stesse di sempre.
Due anni fa il Comune aveva accettato, dietro grande pressione popolare, di rendere gratuiti i parcheggi azzurri almeno nelle due settimane centrali d’agosto. L’anno scorso la misura è stata limitata a pochissime zone. Quest’anno, sembra, non se ne farà nulla.
I parcheggi a pagamento hanno senso per regolare l’accesso a una risorsa scarsa come lo spazio per la sosta, e per incoraggiare i cittadini a usare i mezzi pubblici per limitare il traffico. Quando i parcheggi abbondano, il traffico è scarso è i mezzi pubblici procedono a orario ridottissimo, continuare a far pagare la sosta non ha giustificazione, se non quella di lucrare su quei pochi che rimangono in città in agosto. Che non sono certo i ricchi.

Libro: Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo

Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondoMi sono fatto mandare questo libro per lavoro, in quanto avevo bisogno di recensirne alcuni che fossero in qualche modo collegati con l’autunno o con il vino, e da una ricerca su IBS è uscito il suo titolo. Si è fatto attendere (grazie alle Poste che se ne sono persa una copia) e intanto ho potuto accorgermi delfatto che si tratta di un libro alla moda, consigliato da D’Orrico sul Corriere. E qui ho cominciato a temere seriamente la sòla, in primo luogo perché il critico non è nuovo al propagandare libri discutibili, ma soprattutto perché, come da fascetta nelle librerie, ha definito l’autore come "il Philip Roth italiano". Il che mi fa venire i brividi. Perché di Philip Roth italiano ne abbiamo già avuto uno di recente (Alessandro Piperno, il cui libro a mio avviso non è niente di che). E poi perché espressioni come "l’Ellroy italiano", "il DeLillo italiano" sono di solito garanzia di un libro tutta apparenza e niente sostanza. Ebbene, per una volta i miei timori non erano fondati: Storia controversa… è un libro molto godibile e, soprattutto niente affatto pretenzioso.

Il protagonista è Riccardo, un antropologo fallito che vive alle spalle della moglie, che però lo cornifica. In cerca di riscatto, incontra un vecchio compagno di scuola, che è diventato uno degli uomini più ricchi d’Italia, ma ha un cruccio: un conte squattrinato ma fascinoso gli ha appiccicato addosso l’etichetta di "principe dei cafoni". Per vendicarsi vuole ad ogni costo riuscire a far sì che il vino Aglianico che produce risulti migliore di quello prodotto dal conte. E Riccardo, guarda caso, ha la possibilità di aiutarlo…

Storia controversa… è scritto con uno stile solido e piacevole, frasi lunghissime e attentamente calibrate che tuttavia mantengono la naturalezza della colloquialità. Ed è, soprattutto, un libro divertente, che strappa il sorriso e spesso anche la risata vera e propria, spargendo a piene mani su tutti i suoi personaggi indistintamente un allegro e distruttivo cinismo. Forse questa sua imparzialità è un po’ anche il suo limite: la sua rappresentazione dell’Italia come Paese in cui ogni cosa si riduce da sempre al conflitto tra ladri ricchi e ladri poveri è un po’ riduttiva, anche se notevolmente efficace. Comunque sia, il libro si legge con piacere, direi addirittura che si divora, grazie a tanti personaggi perfettamente riusciti e a una struttura sapiente che gestisce con leggerezza anche numerosi flashback in diverse epoche storiche. A volergli trovare un difetto, forse il finale risulta un tantino deludente. Dopo un così grande lavorio per ricostruire nei secoli l’ascendenza dei personaggi principali, ci si aspetterebbe un’apoteosi conclusiva, invece tutto finisce in modo rapido e poco appariscente. Inoltre il tema della vendetta attraverso i secoli appare poco sviluppato e, in definitiva, in contraddizione con lo spirito di fondo dell’opera, che con la giustizia non ha nulla a che spartire. Ma sono dettagli: è un libro riuscito e ottimo da portare sotto l’ombrellone. Anche se non è Philip Roth (o forse proprio per questo).

Libro: Dalla parte del torto

Dalla parte del tortoLa cosa che impressiona favorevolmente in questo libro è la ricerca stilistica, che è indubbiamente notevole. I modelli sono elevati (si comincia citando Tolstoj, tanto per mettere le cose in chiaro), e c’è un apprezzabile tentativo di creare una scrittura allo stesso tempo densa e rapida. Purtroppo, proprio perché i mezzi dell’autrice appaiono ben sviluppati, a maggior ragione si rimane rapidamente delusi scoprendo che la storia gialla che viene raccontata ha pochissimi rapporti con la realtà, la logica e il buon senso.
La stessa autrice sente il bisogno di giustificarsi con una nota finale in cui dichiara che la "trasposizione surreale di personaggi e procedure" è "frutto della necessità di raccontare questa storia". Ma è una giustificazione che non regge. Il surreale, per esistere, ha bisogno di una realtà solida da cui potersi distaccare. La realtà costruita dalla Bucciarelli, invece, scricchiola e traballa a ogni pagina. La sola cosa che "tiene" bene è la descrizione di quella società "fighetta" e snob che ruota intorno al mondo dell’arte milanese, che è molto convincente è che probabilmente è l’unico argomento che preme davvero all’autrice. Il resto è pura invenzione. Per fare qualche esempio, le indagini vengono gestite da una poliziotta che ha un grado da sottufficiale di basso rango (ispettore capo), ma invece si sposta in elicottero destando timore reverenziale negli inferiori. Come collaboratori non usa poliziotti, ma quattro civili amici suoi, una copywriter, un pittore, un fotografo e un direttore d’orchestra, che si occupano di tutto, compresi interrogatori e pedinamenti (e, a parte l’assoluta illegalità e irrealtà di tutto questo, non si capisce come possano svolgere i loro lavori ufficiali se sono impegnati giorno e notte a indagare gratis). Se fosse solo questo, lo si potrebbe ancora tollerare, di investigatori bizzarri ce ne sono molti nella storia del giallo. Il problema è che tutto il resto è altrettanto incongruo, persino le reazioni emotive delle persone sono spesso incomprensibili o fuori misura, e i loro atti a volte totalmente privi di una motivazione logica.
Concludendo: va bene lo stile, ma anche in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, che è il modello di stile per eccellenza, la storia gialla c’è e le motivazioni dei personaggi sono reali e tangibili. In Dalla parte del torto, invece, tutto sembra messo lì unicamente per permettere all’autrice di fare sfoggio di arguzia e dipanare le sue teorie sull’universo. Mi spiace, ma non funziona proprio.

Libro: Harry Potter and the Deathly Hallows

Harry Potter and the Deathly HallowsAvvertenza: Niente paura: anche se ormai gli spoiler non si contano, in questa recensione farò in modo di rimanere sul vago e non svelare alcun dettaglio importante. Certo, se proprio volete rimanere a mente vergine al 100%, o se non avete letto nemmeno tutti i romanzi precedenti della serie, è meglio che non la leggiate comunque.

Ho avidamente letto l’ultimo volume della saga di Harry Potter, e credo di poter dire con sicurezza che J. K. Rowling è riuscita a dare una degna conclusione alla serie. Dirò di più: pur non essendo esente da difetti, Harry Potter and the Deathly Hallows è probablmente il suo libro più avvincente e uno dei meglio costruiti. L’autrice è riuscita nel difficile compito di creare un’opera profondamente diversa dalle sei precedenti, senza però snaturare l’atmosfera della serie. Ed è riuscita, compito ancora più difficile, a risultare sorprendente senza contraddire le aspettative dei lettori (e camminava su un terreno minato, perché gli indizi che rivelavano quanto sarebbe successo erano numerosi).
La principale differenza tra The Deathly Hallows e il resto della saga è che si svolge quasi del tutto fuori da Hogwarts. Niente più lezioni, partite di Quidditch o rivalità tra le Case, e nessun momento di tranquillità: Harry Potter è braccato, rischia la vita ogni minuto, e l’azione comincia dal primo capitolo per non fermarsi praticamente mai. E la lotta è all’ultimo sangue: se ciascuno dei tre libri precedenti era segnato da una morte importante, qui vediamo cadere oltre mezza dozzina di personaggi cui il lettore può essersi affezionato. Del romanzo per bambini non è rimasto quasi più nulla.
Anche dal punto di vista psicologico, il libro non è meno duro. Non solo Harry è sottoposto a pressioni tremende, ma si trova costretto a mettere in discussione alcuni dei legami più profondi della sua vita. Del resto, il giovane mago si trova privo della sua guida, Albus Dumbledore, morto in Harry Potter and the Half-Blood Prince. Ed è proprio Dumbledore il vero coprotagonista di The Deathly Hallows: analizzato retrospettivamente, perde la sua aura di infallibilità e diventa un personaggio umano con contraddizioni e manchevolezze, segnando così il definitivo passaggio di Harry all’età adulta.
La trama è straordinariamente complessa. Per distogliere l’attenzione del lettore da quegli elementi che solo in fondo al libro potevano essere svelati, la Rowling ha inserito abbastanza misteri da bastare per almeno due libri “normali” della serie. È comunque evidente come la saga sia stata progettata in modo completo fin dall’inizio: nella trama hanno una funzione essenziale indizi e personaggi minori che risalgono addirittura al primo libro. Se la vostra memoria non è buona, una rilettura integrale dell’intero sestetto precedente prima di affrontare quest’ultimo volume potrebbe essere consigliabile.
Il risultato: direi ottimo. The Deathly Hallows non annoia e non dà mai l’impressione (a differenza dei libri centrali della serie) che ci siano capitoli superflui. È terribilmente avvincente, e conclude la serie in modo soddisfacente, senza forzature e con un bel po’ di sorprese.
Difetti? Ovviamente ce ne sono. Alcuni condivisi con l’intera saga. La scrittura della Rowling tende sempre un po’ al barocchismo e alla lungaggine. Inoltre personalmente ho un’idiosincrasia per i duelli magici troppo lunghi, che non trovo molto convincenti, né qui né altrove.
Per quanto riguarda questo libro in particolare, bisogna dire che la prima metà del libro è un po’ estenuante: Harry Potter brancola nel buio, commette alcuni errori colossali, i dubbi e i misteri si accumulano senza mai uno spiraglio di luce, e tutto comincia a sembrare un po’ troppo cupo e disperato. Fortunatamente, le pagine successive rimettono le cose a posto. Ma, soprattutto, in The Deathly Hallows la Rowling ha sacrificato la completezza all’efficacia narrativa. Ci sono alcune lungaggini in meno, ma alcuni particolari appaiono un po’ “tirati via”. Per esempio, c’è un oggetto che scompare e poi riappare senza che venga spiegato bene come ciò sia possibile. Ma soprattutto, ci sono alcuni personaggi molto importanti che muoiono in battaglia, in qualche caso addirittura fuori scena, e vengono messi da parte in poche righe, lasciando una certa sensazione di “vuoto” narrativo. Probabilmente il libro sarebbe risultato troppo pesante con l’aggiunta di altri capitoli con morti eroiche e struggenti compianti, però anche questa soluzione lascia a desiderare. Inoltre i più frivoli tra i lettori rimarranno con la curiosità di sapere cosa ne è stato di alcune relazioni sentimentali che si potevano intuire nei libri precedenti, e del cui destino il libro finale non si occupa. Comunque sia, il maggiore difetto di The Deathly Hallows è che finisce ed è l’ultimo. Le belle storie hanno una fine, e questa ne ha una davvero degna, però si resta male al pensiero che il divertimento è finito.

Concerto: Dusk e-B@nd + La Torre dell'Alchimista

Michele MuttiIl giorno prima del concerto dei Genesis di cui parlo nel post precedente, mi sono lasciato convincere dal Soloist ad andare al concerto di una cover-band, in modo da godermi un po’ dei brani del periodo Gabriel che sicuramente il gruppo originale non avrebbe eseguito. Mi sono così recato insieme a lui al Thunder Road di Codevilla (PV). L’arrivo è stato abbastanza deprimente: meno di trenta persone nel pubblico (c’è da chiedersi cosa spinga tanti ottimi musicisti a dedicarsi ancora al prog, se i risultati sono questi). Per giunta, niente birra alla spina, in quanto esaurita (di venerdì sera?!?!).

Il concerto è stato aperto da La Torre dell’Alchimista, che ha presentato il nuovo album Neo. La band si rivela una piacevolissima sorpresa. È raro che un concerto mi piaccia molto se non conosco i brani che vengono eseguiti, e questo vale in particolare per una musica complessa e non sempre orecchiabile come il prog. Ma i giovani bergamaschi della Torre mi hanno davvero fatto passare un piacevole inizio di serata. Merito soprattutto del tastierista Michele Mutti che, dotato di una strumentazione invidiabile (organo Hammond, Mellotron, Fender Rhodes, qualcosa che sembrava un MiniMoog o altro strumento equivalente, più tastiere digitali e computer) l’ha usata davvero al massimo delle possibilità, sostenuto da un’ottima sessione ritmica e da un cantante dalla voce limpida che riusciva a farsi sentire nonostante l’imponente sbarramento sonoro. Musica vecchio stile, certo, ma cos’ ben composta ed eseguita da non sembrare affato datata. Non altrimenti si può dire, ahimé, dei testi, il vero punto debole della band. Retorici, pesantemente metaforici, roba che sarebbre apparsa ingenua e fuori moda già trent’anni fa. Datevi una regolata, ragazzi!

A seguire, la Dusk e-B@nd, e qui sono cominciati i guai. Il gruppo arriva sul parco già in ritardo e comincia, tra la costernazione dei pochi presenti, a fare il soundcheck. Non ho modo di sapere se la copla del ritardo sia stata del locale o della band; certo che, per un concerto che si svolge in un locale a quasi un’ora di macchina da Milano, cominciare a suonare dopo mezzanotte non è il massimo. Per giunta, ci sono gravi problemi: il basso ha un problema di schermatura, ogni volta che interviene si sente un colossale ronzio che arriva a coprire gli altri strumenti, pasticciando irrimediabilmente il suono. Non si trova una soluzione, il gruppo comincia a suonare lo stesso, ma è sull’orlo di una crisi di nervi, e si vede. Data la situazione, viene eseguita una scaletta piuttosto accorciata. Watcher of the Skies, The Return of the Giant Hogweed, vari brani tratti da The Lamb Lies Down on Broadway, I Know What I Like, Dance on a Volcano, forse qualche altro pezzo che non ricordo, mentre Abacab è l’unico dei brani post-Hackett. Però il suono è un disastro, la tastiera distorce pesantemente, i musicisti non riescono a sentirsi e sbagliano.
Difficilissmo giudicare la band in una situazione del genere. Rispetto alle altre due splendide cover band italiane che ho avuto occasione di sentire (cioè i Supper’s Ready, il cui batterista è finito proprio nella Dusk e-B@nd, e la G Cover Band), mi è parso che in questo caso il sound lasciasse a desiderare in quanto non molto filologico ma nemmeno sufficientyemente personalizzato. Però, appunto, la situazione era tale da non consentire di giudicare serenamente. Nota di merito, in ogni caso, per il cantante Roberto Capparucci, che è riuscito ad apparire bravo anche in condizioni difficili come quelle descritte. Mi auguro che ci sarà un’occasione migliore per consentire anche agli altri di splendere.

Concerto: Genesis

Per prima cosa, voglio prevenire tutti coloro che commenteranno dicendo "I Genesis sono finiti quando se n’è andato Peter Gabriel", o qualcosa del genere. Io non sono d’accordo, perlomeno non del tutto. Per cominciare, ritengo che i due album immediatamente successivi all’uscita di Gabriel siano tra i migliori in assoluto della produzione della band, come se il vuoto lasciato dalla vulcaniza ma ingombrante teatralità del cantante fosse stato riempito da uno sforzo ancora più intenso sotto il piano strettamente musicale. In secondo luogo, non credo sia un sacrilegio se una band decide di cambiare genere musicale. Negli anni ’80 e ’90 i Genesis producevano rock da stadio e pop invece che progressive ma, finché lo facevano bene, non c’era problema. Per me brani come Abacab, Home by the Sea, persino un pezzo terribilmente piacione ma originale come I Can’t Dance vanno benissimo, non vedo motivo di scandalizzarmi se provengono da una band che un tempo faceva altro.
Detto questo, non voglio certamente assolvere la band dalle colpe degli ultimi anni della sua carriera, che sono numerose. Per esempio, l’aver farcito gli ultimi album della sua carriera di brani inutili, privi di idee e di rifinture, di ballatone utili per eccitare gli accendini negli stadi ma senza alcun contenuto di originalità. Di essere stata incapace di produrre testi anche solo un minimo interessanti. Di essersi completamente ingessata negli spettacoli dal vivo, pescando per vent’anni sempre dagli stessi trenta brani degli oltre centocinquanta del suo repertorio. E di avere completamente sprecato l’opportunità dell’arrivo del nuovo, giovane cantante Ray Wilson, costringendolo nel ruolo di rimpiazzo di Phil Collins invece che approfittarne per svecchiare la propria immagine, e abbandonandolo vigliaccamente al suo destino ai primi accenni di mancato gradimento da parte del pubblico.

Ma se la pensi così, mi chiederete, perché sei andato fino a Roma a celebrare il ritorno di Phil Collins e dei Genesis sui palchi dopo un decennio (e più) di assenza? Non ho difficoltà ad ammetterlo: per bieca nostalgia. Per ascoltare ancora una volta la band con cui ho  letteralmente imparato ad ascoltare musica. E anche per testimoniare a un evento che si preannunciava colossale.

Ho rinunciato ad arrivare vicino al palco: per farlo sarebbe stato necessario perlomeno viaggiare di notte e sistemarsi in posizione buona alle prime luci dell’alba. Ma non ho più l’eta di queste cose, e inoltre ero accompagnato da amiche che male avrebbero sopportato di scomparire nella calca. Ho optato per arrivare solo mezz’ora prima dell’inizio e per sistemarmi sulle pendici di una collinetta a un centinaio di metri dal palco, postazione che garantiva comunque un’ottima visuale del megaschermo e anche di tutto il Circo Massimo, che era uno spettcolo in sé: circa mezzo milione di persone, non credo di aver mai visto una folla simile in vita mia!
L’amplificazione era potentissima, ma ovviamente l’acustica della situazione era quella che era: impossibile discernere fini dettagli. Comunque si percepiva ogni strumento e, anche se il riverbero pasticciava un po’ il sound, nel complesso si sentiva bene. Assolutamente straordinario il megaschermo a LED; grande come uno stadio (era largo sessanta metri!). Si vedeva benissimo anche prima che calasse il sole, e sicuramente forniva la spettacolarità che i membri del gruppo quasi invisibili sul palco lontano non avrebbero altrimenti potuto ottenere.

Chi si aspettava una solenizzazione dell’evento (ultimo concerto del tour di fronte a una folla colossale) è rimasto deluso: i Genesis hanno suonato esattamente la stessa scaletta di tutti gli altri concerti. E, ovviamente, nessun ospite speciale (lo stesso Peter Gabriel si era preoccupato di smentire recisamente). Tuttavia non ci si può lamentare: l’assenza di un album specifico da promuovere, se non altro, ha permesso di toccare tutte le epoche del repertorio della band, senza lasciare nessuno del tutto insoddisfatto (la scaletta completa è in fondo al post).
Ho trovato che i Genesis abbiano suonato molto bene. Sicuramete meglio dell’ultimo tour in cui li ho visti, nel 1998, in cui mancava la doppia batteria (e Nir Z non era un degno sostituto nemmeno del solo Collins o del solo Thompson), e in cui il bravo ma svogliato Anthony Drennan non poteva minimamente competere con Daryl Stuermer. Quest’ultimo, a mio parere, è stato il migliore in campo: il suo assolo su Firth of Fifth mi ha fatto gridare dall’entusiasmo, e in generale, nei brani in cui sostituisce la chitarra di Hackett, è stato eccezionale. Un altro momento splendido del concerto è stato il ripescaggio di Ripples…, che credo non venisse più suonata da un quarto di secolo, e che è stata eseguita benissimo. Personalmente avrei tolto qualche ballata strasentita a favore di qualche pezzo più interessante, ma era scontato che gli equilibri fossero questi.
Nel complesso, un bel concerto, che mi ha riportato a dolcissimi ricordi. Niente di sorprendente, ma se non altro i Genesis hanno dimostrato, se non altro, di saper ancora suonare il loro repertorio, cosa di cui alla fine degli anni ’90 non ero più certo. Questo non vuol dire che siano più capaci di dire qualcosa di nuovo… ma mai dire mai (qui parla il fan, non il critico).

La scaletta:
Duke’s End
Turn It On Again
No Son of Mine
Land of Confusion
In the Cage
medley Cinema Show – Duke’s Travels
Afterglow
Hold On my Heart
Home by the Sea
Follow You, Follow Me
Firth of Fifth (parte strumentale)
I Know What I Like
Mama
Ripples…
Throwing It All Away
Domino
Drum Duet – Los Endos
Tonight Tonight Tonight – Invisible Touch

I Can’t Dance
Carpet Crawlers

Cordiali vaffanculo

al sito di La Repubblica, che da pochi minuti dopo la mezzanotte di oggi strilla in prima pagina il finale dell’ultimo Harry Potter, in modo tale che è impossibile frequentare il sito senza leggerlo. Credo che teppismo mediatico sia l’unica possibile definizione di questo comportamento.

Aggiornamento: ho scritto in proposito anche un post su Macchianera.

Anteprima film: Vi dichiaro marito e marito

Now I pronounce you Chuck and LarryLarry e Chuck sono due pompieri newyorchesi, il primo vedovo con due figli, il secondo impenitente donnaiolo. I due rischiano la vita ogni giorno, e Larry è molto preoccupato per il futuro dei suoi figli: se lui morisse, perderebbero il diritto alla casa. C’è bisogno di un nuovo partner a cui intestarla, e il pompiere non trova di meglio che chiedere all’amico Chuck, che è in debito con lui, di fingersi gay e di registrarsi ufficialmente come suo convivente.
Il problema di questo film è tutto nello spunto iniziale: è talmente forzato che non è possibile crederci neppure per un momento. Per non parlare del fatto che una commedia degli equivoci basata sullo scambio dei ruoli sessuali avrebbe bisogno di trovate assolutamente geniali per non sembrare scontata e già vista.
Peccato, perché la coppia di protagonisti (Chuck è Adam Sandler, mentre Larry è l’attore televisivo Kevin James) funziona abbastanza bene. Ma il film, nella sua assoluta prevedibilità , riesce al massimo a far sorridere. Potete già immaginare cosa succede: le difficoltà di Chuck nel nascondere la sua passione per le donne, la convivenza che assume le dinamiche di una coppia autentica, le discriminazioni subite che portano il duo a farsi paladino dei diritti dei gay, fino al deus ex machina finale che rimetterà ciascuno nel ruolo sessuale che gli spetta. Non aiutano nemmeno i molti caratteristi aggiunti per dare man forte agli attori principali. Steve Buscemi è sempre bravissimo, ma costretto in un ruolo che gli offre pochi spunti. Dan Aykroyd è spento e invecchiato. Solo Ving Rhames risulta divertente nella parte del ceffo patibolare che si rivela poi essere il più gay di tutti.
Se non altro, pur in una rappresentazione dei gay stereotipata e senza ammettere che tra i due protagonisti etero possa veramente crearsi un’attrazione sessuale,il film fa del suo meglio per trasmettere un messaggio di accettazione e tolleranza della diversità sessuale. E può servire a far notare che le convivenze omosessuali, che da noi proprio non si riesce a far digerire, nei puritanissimi USA sono un fatto legale e normale.
Il film sarà sugli schermi italiani dal 7 settembre.