Recentemente il Presidente della Repubblica si è espresso a favore del raggiungimento di un accordo sui famosi PACS. Per quelli che vedono questo elementare riconoscimento di diritti come il demonio, il Presidente ha fatto malissimo a esprimere questo auspicio. Per altri, ovviamente, ha fatto bene. Io mi limito a constatare che l’obiettivo indicato da Napolitano non è quello di fare una legge che soddisfi una richiesta che proviene da gran parte dei cittadini, bensì quello di trovare un accordo che tenga conto della volontà della Chiesa. Da quando la Chiesa cattolica è una controparte con cui vanno contrattati i diritti dei cittadini? Purtroppo in Italia lo è da sempre, e temo lo sia ancora. Possiamo avere eletto un Presidente ex-comunista, ma il potere di interdizione del clero, invece che calare, cresce. Una volta, perlomeno,di fronte a un discorso così palesemente ossequioso, qualcuno si sarebbe scandalizzato. Ma oggi, dagli ex-sessantottini come Giuliano Ferrara agli ex-radicali come Francesco Rutelli, tutti fanno a gara nel baciare la pantofola.
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Libro: Jonathan Strange & il Signor Norrell
Nell’Inghilterra del 1300, un uomo ritornò dai Regni Fatati alla guida di un esercito di elfi e, grazie alla propria magia, si incoronò Re del Nord. Gli uomini lo chiamavano il Re Corvo, e regnò per trecento anni prima di scomparire nel nulla. Ora siamo nel XIX secolo, l’Inghilterra combatte Napoleone, le creature fatate sono tornate a essere materia di leggenda, e la magia è diventata una questione per noiosi eruditi, che è storicamente esistita ma che nessuno più è in grado di mettere in pratica. Nel giro di breve tempo, però, appaiono due uomini che sono nuovamente in grado di praticare la magia. I due sono uniti dal sogno di far rinascere la magia inglese, ma sono profondamente diversi, in tutto, e gli scontri sono inevitabili. Alla fine scopriranno entrambi che aver risvegliato la magia ha un prezzo che non avevano previsto.
Jonathan Strange & il Signor Norrell non è certamente il "solito" libro fantasy. Per cominciare, è scritto con uno stile ispirato a quello di Jane Austen (ma a me ha ricordato anche Dickens), cosa che già di per sé ha messo in fuga, per quanto ne so, più di un lettore non abituato a simili ricercatezze. Inoltre è un libro che frustra deliberatamente le aspettative del lettore, dissimulando abilmente gli eventi importanti collocandoli tra mille altri dettagli, tanto che ci si chiede continuamente se mai si arriverà al dunque; e poi, dopo seicento pagine, per così dire, di "introduzione", di colpo la vicenda piomba nel vivo, tutti i dettagli vanno al loro posto, e il romanzo si rivela molto più cupo, orrorifico e disturbante di quanto le leziosaggini precedenti lasciassero immaginare. Per me questi, beninteso, sono dei pregi; ma, se a voi suonano come dei difetti, allora è meglio che non cominciate neppure la lettura: non arrivereste in fondo.
Confesso che in qualche punto anch’io ho provato una punta di irritazione per le divagazioni tutte inglesi cui l’autrice ci sottopone; e sono tuttora convinto che alcuni episodi, per esempio la lunga rivisitazione della battaglia di Waterloo, siano superflui o comunque si prolunghino più del dovuto. E confesso anche che tuttora sono perplesso sulle motivazioni che hanno spinto la Clarke a scrivere questo libro, il cui significato appare sottile e sfuggente. Ma, come accade con i grandi romanzi, questo non è un ostacolo al godimento della storia. Il fascino del mondo magico di Norrell e Strange è tale da non dover essere giustificato. Proprio come la magia che descrive, così diversa da quella ormai standardizzata della quasi totalità del fantasy moderno, non si lascia imbrigliare in sovrastrutture teoriche, "è" e basta, a disposizione di tutti coloro che vorranno affrontarlo, rischiando di farsene ammaliare.
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Film: Bobby
Una giornata nella vita di un gruppo di persone, ospiti e impiegati dell’albergo in cui, la sera stessa, verrà assassinato Robert Kennedy. In mano a un regista come il compianto Robert Altman, un tema così avrebbe potuto generare un capolavoro. Purtroppo però il regista e sceneggiatore è Emilio Estevez, attore di secondo piano e autore di pochi e dimenticabili film tipo Il giallo del bidone giallo. Il risultato è che, invece che un film corale le cui storie parallele ci comunicano il senso di un’epoca, come indubbiamente avrebbe voluto l’autore, abbiamo una serie di siparietti in cui attempate star hollywoodiane interpretano storie stereotipate, monche e gonfie di retorica. Sembra di essere in uno di quei disaster movie in cui gli attori si agitano quel tanto che basta per rendersi riconoscibili dal pubblico, tanto poi arriverà il terremoto, l’incendio o l’eruzione vulcanica a cancellare tutto. Solo che qui, quando il disastro (l’assassinio di Kennedy) arriva, il film, invece che entrare nel vivo, finisce.
Non è che manchino gli elementi di contatto con la realtà politica e sociale dell’epoca, che sono anche numerosi (iragazzi che si sposano per evitare il Vietnam, l’LSD, la discriminazione razziale…), solo che le storie non decollano mai, e a volte sono veramente superflue (in particolare quelle dei personaggi interpretati da Anthony Hopkins e Martin Sheen, rispettivamente produttore del film e padre del regista, che sembrano avere il solo scopo di permettere ai due vecchietti di comparire ancora sullo schermo). Alla fine, il film ha un unico merito: quello di farci ascoltare un gran numero di discorsi di Robert Kennedy, che in 40 anni non hanno perduto nulla della loro forza, e ci lasciano in imbarazzo al pensiero dei politici di oggi.
Pronounced Leh-Nerd Skin-Nerd
In Italia, non so bene per quale motivo, talvolta diventano di uso comune delle pronunce del tutto fantasiose dei nomi propri inglesi e americane. Dico fantasiose perché non si tratta delle storpiature che potrebbe fare chi non conosce le regole della lingua inglese, ma di invenzioni del tutto immotivate, che non si capisce bene da dove siano saltate fuori, e che pure tutti usano. Per esempio, lo scrittore H. P. Lovecraft viene chiamato da numerosissime persone, inclusi insigni studiosi dell’argomento, Lovercraft.
Da dove sia saltata fuori quella “r” è un mistero assoluto. Il nome è composto da due parole inglesi di uso comune, “love” e “craft”, affiancate, quindi non ci dovrebbero essere dubbi sul modo di pronunciarlo. Eppure…
Un caso molto simile è quello di Skype. Che in Italia il 90% delle persone pronuncia “skaipi”, aggiungendo una “i” in fondo. Non è chiaro quale ragionamento stia dietro a questa storpiatura, anche se un sospetto ce l’ho: forse si fa l’analogia con un altro marchio celebre, Nike. Che in effetti si pronuncia “naiki”, invece che “naik”, come sarebbe naturale. Ma quello è un caso particolare, perché è una parola greca riportata in inglese. Per Skype, la cosa più logica sarebbe pronunciarlo come le parole inglesi che terminano allo stesso modo, come “type” e “hype”. Oppure, se si hanno ancora dei dubbi, andare a guardare le FAQ del sito ufficiale di Skype, dalle quali risulta senza ombra di dubbio che la pronuncia ufficiale è “skaip”. Tenetelo a mente.
In memoria: Michael Brecker
Ho saputo solo ora che Michael Brecker ci ha lasciato sabato scorso, a causa di una rara malattia del sangue che lo aveva colpito qualche anno fa e che non si è riusciti a curare.
Il mio primo ricordo di lui risale ai primi anni ’80, quand’ero al liceo, e a una festa uno dei miei compagni di classe mise su un brano stranissimo, in cui uno strumento che sembrava una specie di sax elettronico percorrreva scale che partivano sottoterra e finivano in cielo, superando l’estensione di un pianoforte. Il brano era In a Sentimental Mood di Duke Ellington, lo strumento era un Akai EWI, e a suonarlo era lui, Michael Brecker, che col gruppo degli Steps Ahead aveva sviluppato uno stile elettronico personalissimo, simile a quello di Pay Metheny con la chitarra (e infatti i due suonarono spesso insieme). Era uno di quei musicisti che sapevano suonare bene in qualsiasi contesto, passava dalla fusion elettronica degli Steps Ahead al jazz-funky insieme a suo fratello Randy, dalle canzoni di Paul Simon al perfetto stile coltraniano di molti suoi album solisti. Era un solista incontenibile, ma anche un perfetto accompagnatore, come si può ascoltare, per esempio, nello splendido Shadows and Light di Joni Mitchell, dove un’intera band di sogno era al servizio della voce roca e affascinante della cantautrice canadese.
Purtroppo non si è mai trovato il donatore le cui cellule staminali di midollo fossero compatibili con le sue. Ora abbiamo solo la sua musica a ricordarcelo. Andatevi a cercare un suo brano, uno qualunque, e anche voi non lo dimenticherete.
Film: Giù per il tubo
Roddy è un topolino domestico, soddisfatto di vivere in una gabbietta dentro un lussuoso appartamento londinese. Quando un topone di fogna invade il suo regno, nel tentativo di scacciarlo Roddy finisce nello scarico del cesso e si trova proiettato in una Londra in miniatura, abitata da topi e costruita nelle fogne. L’unica a dargli una mano sarà Rita, un’avventurosa topolina minacciata da un gruppo di topi-gangster al servizio di una rana folle.
Il film è prodotto dalla Dreamworks ma realizzato dalla Aardman, la gloriosa casa di produzione famosa per le animazioni in stop-motion dei pupazzi di plastilina, come nella serie di Wallace & Gromit. Questa volta però il film è realizzato interamente al computer (pare che il motivo siano le molte scene sull’acqua, impossibili da girare con la plastilina), anche se personaggi e scenografie hanno mantenuto interamente l’aspetto che avrebbero se fossero stati costruiti a mano. In effetti è proprio questo il principale pregio di Giù per il tubo: le splendide scenografie colme di piccolissimi dettagli. Ogni scena dovrebbe durare parecchi minuti per consentire di apprezzare ogni particolare degli ambienti della città dei topi, costituiti da ogni sorta di oggetti di recupero a imitazione degli equivalenti umani. Purtroppo il montaggio troppo veloce da film d’azione permette di guardarli solo per fugaci momenti.
E’ stato sostanzialmente mantenuto lo stile Aardman, fatto di gag appena accennate (lo scarafaggio che legge Kafka), personaggi ben caratterizzati, regia che strizza l’occhio ai classici del cinema. Quello che manca, purtroppo, è una storia davvero significativa: qui lo spunto è solo un blando canovaccio per avventure e inseguimenti, divertenti ma anche prevedibili e senza gran costrutto. Dignitoso e apprezzabile, ma sicuramente non indispensabile.
Delurking day
Scopro ora una cosa che ignoravo. Oggi, 13 gennaio, è il delurking day, festività che va celebrata nel seguente modo: tutti coloro che frequentano un blog ma non si sono mai fatti vivi lasciando commenti devono farlo oggi. Non sono tenuti a scrivere nulla di interessante o di particolare, giusto far sapere che ci sono.
Io ho serissimi dubbi che questo blog sia frequentato da chiunque non sia da me conosciuto personalmente o perlomeno frequentato assiduamente per via telematica. Ma se qualcuno vuole dimostrarmi che mi sbaglio (o comunque farmi sapere che mi legge), lasci pure un commento qui.
Libro: Crimini
Non sono un assiduo lettore di noir, ma quando me ne capitano di buoni li leggo sempre con piacere. Così sono stato contento di ricevere in regalo questa Crimini, antologia di nove racconti dei più celebri autori italiani, occasione per riavvicinarmi a qualche vecchia conoscenza e per mettere alla prova qualche nome dal quale finora mi ero tenuto lontano, per diffidenza o semplicemente perché non si può leggere tutto. Ecco com’è andata.
Sei il mio Tesoro è stato scritto da Niccolò Ammaniti in coppia con l’esordiente Antonio Manzini, ma è comunque stilisticamente indistinguibile dai suoi racconti più noti del genere pulp. Parla di un chirurgo plastico ricco, drogato e disonesto, che finisce in galera e, dal momento in cui ne esce, tenta in tutti i modi di recuperare un sacchetto di droga dall’improbabile nascondiglio che ha escogitato per non farselo sequestrare. Io sono parziale: Ammaniti mi piace molto, anche (e forse soprattutto) quando va sopra le righe. In questo racconto la sospensione dell’incredulità del lettore è messa a dura prova, ma lui è sempre così divertente, così sarcastico, così bravo nel rappresentare i nostri vizi con il massimo di assurdità possibile, che ci si passa sopra volentieri. Un bel racconto di quelli che non si dimenticano.
Morte di un confidente di Massimo Carlotto è scritto nel consueto stile scabro e diretto di quest’ultimo. È un poliziesco decisamente classico, con un poliziotto in crisi matrimoniale che si ritrova personalmente coinvolto in un’indagine a causa della morte di una collega. Mi è piaciuta l’ambientazione veneta e la descrizione molto convincente dei rapporti personali all’interno della polizia e della malavita. Il racconto risulta però alquanto dispersivo: vengono introdotti molti temi, ma nessuno viene sviluppato fino in fondo, e quando si conclude non si capisce bene dove volesse andare a parare. C’è inoltre una veniale incongruenza: per comunicare con un informatore, il protagonista ha un codice basato sul numero di squilli di una chiamata. Ma avete mai provato a contare gli squilli usando un cellulare? E’impossibile.
Il covo di Teresa di Diego De Silva racconta di un’attempata signora che si ritrova a ospitare un terrorista nel proprio appartamento. È una bella storia di sentimenti, toccante e convincente, uno dei racconti che mi sono piaciuti di più.
L’ospite d’onore di Giorgio Faletti è l’unico racconto del mazzo che mi sia veramente dispiaciuto. Racconta di un giornalista alla ricerca di un celebre personaggio televisivo misteriosamente scomparso. È scritto in uno stile forzatamente brillante, con una battuta spiritosa a ogni frase, che dopo qualche pagina suona falso come i dialoghi di una sit-com. Tra l’altro non si risparmiano grevi ironie a un personaggio colpevole solo di essere gay. L’ambientazione è un’isola tropicale di cui non ci importa assolutamente nulla. Alla fine l’autore non si preoccupa neppure di dirci l’unico dettaglio della storia che potrebbe interessarci (il protagonista rivelerà al giornale l’ubicazione del personaggio o, data la piega che hanno preso gli eventi, la terrà per sé?), ma imbastisce un finale soprannaturale assolutamente campato in aria, che non inquieta, non dice nulla sui personaggi, non vuol dire niente. Un racconto vacuo e pretenzioso. Finora mi ero tenuto lontano dai romanzoni da tre milioni di copie di Faletti, e a questo punto penso proprio che non li leggerò mai.
L’ultima battuta di Sandrone Dazieri è il mio preferito in assoluto. Parla di un ex-cabarettista che cerca di scagionare un’amica dall’accusa di avere ammazzato il suo socio di un tempo. Nulla di particolarmente nuovo, ma l’ambientazione nel giro del cabaret milanese è interessante e credibilissima, e il modo in cui gradatamente viene fuori tutto il passato del protagonista è da manuale. L’unica pecca, secondo me, sta nel finale: il tentato omicidio finale è immotivatamente goffo, e non è chiaro come e perché il protagonista riesca a scamparla. Ma il risultato è comunque più che buono.
Troppi Equivoci ci dà un Andrea Camilleri diverso dal solito: stile molto secco e personaggi poco caratterizzati, tutto il contrario di come ci ha abituato. Il racconto parla delle terribili conseguenze di uno scambio di persona dovuto a uno scherzo. Camilleri solitamente mi piace molto, ma qui non mi ha convinto: questo sembra più un abbozzo di sceneggiatura che un racconto, e non si capisce bene perché l’autore abbia scelto di raccontare questa storia.
Quello che manca di Marcello Fois è un classico giallo poliziesco, con un omicidio e un commissario che indaga. È interessante il tentativo di introdurre un sottotesto politico, però la trama è un po’ troppo esile, e il finale è troppo brusco e poco credibile: possibile che il colpevole sia così fesso?
Il bambino rapito dalla Befana di Giancarlo De Cataldo è, come lascia intuire il titolo, una favola noir, che narra dell’anomalo sequestro-lampo di un bambino. Personalmente avrei preferito un po’ più di cattiveria rispetto a un racconto in cui i cattivi muoiono e i buoni vivono felici e contenti, però De Cataldo è un bravo affabulatore, e il racconto si legge con piacere.
Infine, Il terzo sparo di Carlo Lucarelli narra di una poliziotta cui nasce un sospetto su un collega, e che per averlo rivelato viene a trovarsi in una situazione difficile e pericolosa. Ogni volta che leggo una storia di Lucarelli rimango stupito di come la sua narrativa si basi su meccanismi semplici, scontati ed evidenti, eppure nonostante questo riesca a funzionare così bene. Questo racconto è pieno di suspense e all’altezza delle sue cose migliori. L’unica cosa che mi convince poco di lui sono i suoi finali, che spesso sembrano non tenere conto di come gira la realtà. Questo racconto non fa eccezione: l’autore ci dice trionfante che la protagonista riesce a cavarsela ma, a mio avviso, nella situazione in cui Lucarelli la lascia la aspetta un’indagine per omicidio, con buone possibilità di essere giudicata colpevole…
Nel complesso il mio giudizio è più che buono: Faletti a parte, tutti i racconti si leggono volentieri. Probabilmente non ci sono capolavori, ma quasi tutti sono più che discreti. Un piacevole intrattenimento, e un modo per mettere a confronto il meglio del noir italiano (manca solo Biondillo…), una scena che si conferma solida. Magari fosse possibile mettere insieme un’antologia di questo calibro con gli autori di fantascienza italiani…
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Libro: Perduto per sempre
Comincio con un avvertenza: sto per recensire il libro di un amico. Io non sono particolarmente indulgente verso i libri degli amici. Semmai, tendo ad amplificare i miei sentimenti: se non mi piacciono, mi dà ancora più fastidio; se i piacciono, mi piacciono forse un po’ più del dovuto. Questo è un libro che mi è piaciuto. Mi sono fatto un esame di coscienza e ha continuato a piacermi. Quindi potete prendere per buono quanto vi sta per scrivere il vostro fallibile recensore, perlomeno quanto tutto il resto che scrive.
Detto questo, Perduto per sempre è il secondo romanzo di Roberto Moroni, meglio noto ai blogger come The Petunias. A differenza del primo, che avevo letto in bozze e al quale avevo in minima parte collaborato, questo è uscito senza che ne sapessi nulla, e ho cominciato a leggerlo senza nessun tipo di aspettativa. Mi ci sono trovato dentro, e in pochi minuti mi ha preso completamente. Sarà forse perché il primo capitolo ha un protagonista che è bambino nei primi anni Settanta, come lo sono stato io. E ho riconosciuto all’istante come vera non solo l’ambientazione, con tutti i suoi oggetti che una volta mi erano familiari e che oggi avevo dimenticato o quasi (i gettoni telefonici! il Ping-o-Tronic!). Ma anche lo sguardo, quello di un decenne che comincia a sperimentare sulla propria pelle il mondo reale senza schermo. Ho riconosciuto me stesso e sono rimasto avvinto dalla narrazione. Da qui in poi ho girato le pagine con l’atteggiamento non del critico, ma del lettore accanito.
Di che parla Perduto per sempre? Parla di un ragazzo che diventa adulto. Che ha un padre ingombrante, per usare un eufemismo. Anzi, per dirla tutta, un padre proprio stronzo. E che mette in atto un complicato piano. Per difendersi, per vendicarsi, per evitare di diventare la copia malriuscita di suo padre. Detto così sembra poca cosa. Quello che non vi posso raccontare, ma che dovrete leggere, sono i personaggi, così ben costruiti che li si ama o (soprattutto) li si odia come persone vere, anche quelli minori. E una trama che, pur senza meccanismi complicati e rivolgimenti, tiene in sospeso fino all’ultima pagina.
Viene spontaneo il paragone con lo strombazzatissimo Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno. Ambedue i libri, infatti, parlano di un giovane di famiglia ricca che cresce schiacciato dal peso di avi troppo ingombranti. E tuttavia, là dove Piperno si sforza difare il Philip Roth italiano, i suoi personaggi mi rimangono estranei come figurine, divertenti ma non veri. Mentre i personaggi di Roberto a me sembra di conoscerli, e la società in cui vivono mi sembra la mia. Soprattutto, mi hanno dato emozioni molto più forti, e i buoni libri sono fatti di emozioni.
Questo è quanto. Gli acquisti di Natale sono già in corso, se non sapete cosa regalare date una spintarella a questo libro, che lo merita.
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Film: The Departed
A Boston, un boss della malavita crea seri problemi alla polizia di stato,che decide di infiltrare un uomo nella sua banda per riuscire a incastrarlo. Ma ben presto diviene chiaro che il boss ha a sua volta un infiltrato all’interno della polizia. Tra le due spie comincia così una complessa e mortale partita in cui ognuno dei due cerca di individuare l’altro senza farsi scoprire a sua volta.
Questa volta Scorsese ha moderato le ambizioni e, invece di puntare al capolavoro (che gli sfugge ormai da una decina d’anni, come nel caso del grandioso ma malriuscito Gangs of New York), si è dedicato al remake di un noir di Hong Kong di grande successo ma inedito in Italia, Infernal Affairs. Quando è all’opera un grande del cinema come lui, che conosce tutti i trucchi per tenere desta l’attenzione dello spettatore, sappiamo già che ci condurrà anche attraverso una trama decisamente complicata senza mai farci perdere il filo o lasciar calare la tensione. Molti hanno gridato al ritorno del regista alla sua vena migliore, ma io rimango decisamente più freddo: il film è intrigante, appassionante fin quasi alla fine, ma a conti fatti manca il bersaglio e rimane per molti versi irrisolto.
Scorsese, nonostante il sottotitolo dell’opera sia “il bene e il male” si rifiutar di seguire la strada dell’originale in cui bene e male si mescolavano sino a confondersi. Qui il poliziotto rimane un buono, e il mafioso rimane fino in fondo un bastardo. Il problema è che allora non si capisce dove il film voglia andare a parare. A un certo punto sembra che voglia addirittura buttarla in politica, e che tutto sia una metafora dell’America post-11-settembre dove tutti spiano tutti, ma anche questo debole tentativo resta sulla carta.
L’errore più grave è però quello di avere introdotto nella trama il personaggio di Mark Wahlberg. Non solo è caratterizzato in maniera risibile (si esprime unicamente via insulti e turpiloquio), ma, essendo a conoscenza dell’identità dell’infiltrato “buono”, costringe la sceneggiatura a una serie di mosse arzigogolate e poco credibili per fare in modo che il poliziotto infiltrato non si rivolga a lui. Salvo poi farlo intervenire all’ultimo momento per impedire che i “cattivi” vincano del tutto, in un finale del tutto privo di senso dove sceneggiatura e logica si squagliano come neve al sole. Peccato, perché fin quasi alla fine il film reggeva.
Per quanto riguarda gli attori, Di Caprio se la cava dignitosamente nel ruolo di protagonista, Jack Nicholson fa il solito personaggio gigionescamente luciferino già visto mille volte, ma se non altro lo fa bene. Pessimo invece Matt Damon, che mantiene per tutto il film la stessa faccia da poker. Inizialmente può anche andare d’accordo con l’impenetrabilità dell’infiltrato, ma alla lunga diventa pura inespressività.
La conclusione potete immaginarla: uno Scorsese si vede sempre volentieri, ma non ci siamo.