TV: Boris 2

BiascicaLa serie televisiva Boris è riuscita in un impresa praticamente impossibile: farmi ricominciare a guardare regolarmente un programma TV. Odio dirlo, perché una frase del genere mi fa sentire veramente vecchio, ma credo che prima di Boris l’ultima cosa che mi ha tenuto legato a un appuntamento periodico col piccolo schermo è stata Twin Peaks! Ho scoperto Boris in ritardo, quando già la prima serie era stata trasmessa, ma ho subito rimediato è, una volta saputo che ne sarebbe stata fatta una seconda serie, l’ho seguita episodio dopo episodio.
Ora la domanda è: queste nuove 14 puntate sono riuscite a rimanere all’altezza della dirompente prima serie? Mentre le guardavo, ero convinto di sì, dato che mi divertivo esattamente come con il primo Boris. Arrivati al termine, però, sono costretto parzialmente a ricredermi. Il fatto è che, tirate le somme, la nuova serie sembra essere stata costruita con maggiore improvvisazione rispetto alla prima. Mentre l’episodio finale di Boris dava un senso di compiutezza, quello di Boris 2 sembra non riuscire a dare conto di tutte le aspettative create.
Un problema è che i nuovi personaggi rimangono irrisolti. Né Cristina, né Karin, per esempio, riescono ad avere lo spessore che aveva Corinna nella prima serie. E i personaggi interpretati da Corrado Guzzanti, per quanto bravissimo, sembrano provenire da un programma diverso ed essere lì di passaggio: troppa differenza di stile tra lui e tutto il resto. Insomma, se il primo Boris seguiva la parabola di Alessandro lo stagista, che progressivamente era costretto dalla realtà a mettere da parte il proprio idealismo e ad assomigliare sempre più ai beceri personaggi del mondo della fiction, Boris 2 segue troppi fili narrativi senza approfondirne davvero nessuno.
Cio non toglie che il programma sia stato comunque anni luce al di sopra di qualunque cosa sia stato prodotto quest’anno dalla televisione italiana. E quindi, di fronte alla prospettiva ormai data per certa di un Boris 3, dico: ben venga! Anche se si rischia di allungare il brodo all’inverosimile, sarà comunque uno die pochi programmi italiani guardabili in giro.

Viva la rana!

Pare che Bolzano sia in subbuglio a causa di una rana crocifissa. Si tratta di una scultura del defunto artista Martin Kippenberger, esposta al Museion, il museo di arte moderna di Bolzano, in occasione dell’apertura della nuova sede. Vari politici locali si sono pronunciati contro l’opera, e l’opposizione va crescendo con l’avvicinarsi della visita del Papa a Bolzano.
In passato ho espresso delle riserve riguardo alla libertà di esercitare la blasfemia in nome dell’arte: pur essendo ateo e fautore della massima libertà di parola, credo che ci siano modi migliori dell’insulto gratuito al sentimento religioso altrui per criticare la religione.
Tuttavia non mi sembra proprio che questo sia il caso. L’interpretazione ufficiale dell’opera è che l’autore abbia voluto rappresentare gli altoatesini, che si proclamano molto religiosi ma in realtà sono dediti all’alcool e alla bestemmia. Quindi in realtà non si tratta affatto di un’opera contro la religione, bensì di una critica a chi tradisce la propria. E, in ogni caso, la rana crocefissa può scioccare o sorprendere, ma non contraddice o ridicolizza alcun dogma cristiano.
Mi sembra quindi che le proteste dei poltici locali esprimano soprattutto un provincialismo estremo. Sottolineato del resto dalla frase attribuita a una di loro, "Qui non siamo a New York". Per l’appunto: e se ne vantano. Sono orgogliosi della loro grettezza. Ed è davvero paradossale che questa gente abbia speso cifre enormi per costruire un faraonico museo, con tanto di ponte-scultura sul torrente Talvera per accedervi, ma poi già alla prima mostra non sia capace di tollerare l’arte che vi viene esposta. Una situazione davvero simbolica dei tempi in cui viviamo.
E, parlando di crocefissi, giunge a proposito la notizia che il goberno Zapatero, in Spagna, sta facendo tutto il possibile per eliminare ogni simbologia cattolica da edifici e cerimonie pubblici, in primis proprio i crocefissi che ancora adornano aule ed edifici statali. Un atto che sembrerebbe del tutto automatico una volta che è stata abolita la religione di stato e sancito il principio che tutte le confessioni sono uguali di fronte allo Stato, e quindi nessuna va privilegiata. Eppure in Italia, a più 60 anni dalla promulgazione della Costituzione, e a quasi 20 anni dalla sentenza della Corte Costituzionale che conferma la fine della religione di Stato, i crocefissi sono inamovibili. Peggio: praticamente nessuno li vuole rimuovere. È una battaglia che viene lasciata ai radicali, o addirittura a provocatori estremisti del calibro di Adel Smith. La distanza culturale che ci separa dal resto d’Europa si sta facendo abissale.
Perciò viva la rana, mi auguro che resti dov’è e che faccia gli sberleffi al Papa quando arriva.

La mia prima cache!

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Da qualche tempo a questa parte mi sto interessando al geocaching. Si tratta di una simpaticissima e moderna variante della caccia al tesoro. il succo è questo: qualcuno si reca in un luogo qualsiasi, ma possibilmente di qualche interesse storico o paesaggistico, e ci nasconde una cache, cioè un contenitore segreto contenente un piccolo registro cartaceo e qualche oggettino che costituisce il "tesoro". Poi pubblica sul sito web ufficiale del gioco le coordinate geografiche esatte del nascondiglio, e una descrizione. Chiunque desideri può prendere un GPS, recarsi alle coordinate in questione, e cercare la cache. Se riesce a trovarla, può firmare il registro incluso, e può anche prendersi uno degli oggettini contenuti come ricordo (ma dovrebbe lasciare qualcosa in cambio). Poi può registrare ufficialmente sul sito l’avvenuto ritrovamento. Ci possono essere altre complicazioni, enigmi e via dicendo, ma il succo è questo. Il bello del gioco non è la competizione per trovare più cache degli altri, ma lo stimolo a visitare con attenzione luoghi che altrimenti non si sarebbero presi in considerazione.
Io ho cominciato la mia attività di geocacher a Milano città: inutile andare lontano, quando a pochi passi da casa ci sono una trentina di cache. Ammetto che le mie prime due ricerche sono andate a vuoto. Ma la terza… ebbene sì, sotto la Torre Velasca ho trovato la mia prima cache. Perfettamente mimetizzata, un contenitore magnetico dipinto in modo da risultare praticamente invisibile, pur essendo in piena vista. Devo dire di aver provato una gioia quasi infantile nel reperimento: mi sono sentito tanto "agente segreto" a trovare quel tesoro che mi aspettava in un angolo alquanto desolato di un luogo frequentatissimo, all’insaputa di tutti.
Credo proprio che questo gioco mi abbia preso. Alla prossima pausa pranzo vado a cercare una cache vicina al luogo di lavoro, alla Conca dei Navigli…

Film: E venne il giorno

E venne il giornoA New York, centinaia di abitanti vengono improvvisamente colti da una mania suicida che li spinge a uccidersi con il primo metodo a portata di mano. Inizialmente si sospetta un atto terroristico ma, quando l’epidemia si diffonde in tutto il nord-est degli Stati Uniti, le spiegazioni ufficiali non reggono più. Un professore di scienze, accompagnato dalla moglie, con cui è in crisi, e dalla figlia di un amico rimasto disperso nella confusione, tenta di fuggire prima di cadere vittima dell’epidemia.
Sono andato a vedere questo film aspettandomi molto poco, grazie alla pacata stroncatura di Ohdaesu. Sarà forse per questo motivo, ma dopo la visione posso dire che E venne il giorno, che non è piaciuto quasi a nessuno, a me non ha fatto schifo.
Avrò forse una particolare sensibilità sull’argomento, ma a me l’autolesionismo fa orrore, e vedere delle persone intente ad autodistruggersi in modo efficiente e brutale sicuramente mi turba. E credo che sia indubbiamente un grosso merito di M. Night Shyamalan l’essere riuscito a destare orrore con elementi semplicissimi, come la camminata all’indietro che prelude all’insorgere della sindrome suicida, o come la scena degli operai che si lanciano dalle impalcature (un richiamo diretto all 11 settembre). Insomma, l’idea che sta alla base del film è semplice e geniale e, se il regista l’avesse accompagnata con uno svolgimento altrettanto solido, avrebbe prodotto un capolavoro.
Qui vengono le dolenti note. Perché Shyamalan, pur avendo avuto il buon gusto di non tirarla troppo in lungo (il film dura un’ora e mezzo), mette a dura prova la pazienza dello spettatore, con delle cose che non si capisce se siano vezzi autoriali malintesi o errori che nemmeno un regista alle prime armi commetterebbe. Cominciamo col dire che la scelta degli attori protagonisti, Mark Wahlberg (che ha me non ha mai detto nulla) e Zooey Deschanel (che in questo film ha perennemente l’aspetto di una lepre di fronte ai fari di un’auto) non è quella che si dice esaltante. Aggiungiamo che i due devono mettere in scena uno dei clichè più triti della storia del cinema, quello della coppia-in-crisi-che ritrova-l’armonia-di-fronte-alle avversità. Concludiamo dicendo che i dialoghi spesso sono totalmente insensati, al punto da rasentare il teatro dell’assurdo, e capirete perché questo film sembra avere decisamente qualcosa che non va. L’impressione finale è che Shyamalan volesse dire qualcosa di preciso, ma questo qualcosa risulta incomprensibile, e ne emerge solo un generico millenarismo antiscientifico e misticheggiante. Alcune scene (un esempio tra tutte: il suicidio della ragazza cui si assiste via telefono cellulare) sono letteralmente buttate via, risultano così finte e poco realistiche da non causare alcuna emozione nello spettatore, se non un senso di straniamento.
Eppure non posso nascondervi che E venne il giorno è riuscito a emozionarmi comunque. Io dico spesso che è meglio assistere a un fallimento interessante che a un successo scontato. A me fa piacere che esista un regista come Shyamalan che gira un horror in cui a fare spavento è il modo di camminare delle persone invece che un effetto speciale in computer graphics. E per questo sono disposto a perdonargli molto, anche se alcune cose di questo film sono davvero imperdonabili.

Film: Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo

Indiana Jones e il Regno del Teschio di CristalloSiamo nei primi anni ’50. Indiana Jones si ritrova coinvolto nel tentativo di alcuni agenti del KGB per sottrarre alcuni reperti di sospetta origine aliena custoditi a Roswell, ma riesce a cavarsela. Dopodiché incontra un ragazzo che gli porta una lettera di un amico, il professor Oxley. Pare che costui abbia scoperto un antico teschio di cristallo che i conquistadores avrebbero sottratto nientemeno che da El Dorado. Una leggenda dice che chi riporterà indietro il teschio acquisterà un enorme potere. Ma Oxley e la madre del ragazzo sono sono scomparsi. Inevitabile che Indy si lanci alla ricerca del teschio, per poi scoprire che anche i russi sono interessati alla cosa…
C’è un momento in cui Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo dà l’impressione di essere un film in grado di dire qualcosa di nuovo sul personaggio di Indy. Ed è poco dopo l’inizio, quando si ritrova in un villaggio popolato di manichini e destinato a essere spazzato via da un’esplosione atomica sperimentale. Una scena inquietante, degna dello Spielberg migliore, e  che dà lo spunto per costringere Indy a emigrare, vittima della caccia alle streghe e della paranoia anticomunista. Poteva essere l’inizio di un film del tutto diverso da quelli della trilogia precedente. Purtroppo si scopre che questo prologo ha due solo funzioni: far capire allo spettatore che siano negli anni ’50 e non più nei ’30, e permettere a Spielberg di salvarsi l’anima facendo vedere che, anche se i "cattivi" russi sono caricaturali e monodimensionali come se il film fosse stato davvero girato sessant’anni fa, il regista è consapevole che anche gli USA non erano esenti da pecche. Dopodiché, "been there, done that": dei maccartisti non si parla più, e il film si impegna a rifare pedissequamente I Predatori dell’Arca Perduta, sostituendone ogni scena con un’altra equivalente.
Dal punto di vista tecnico, gli riesce pure bene. Spielberg non ha perso la mano, e riesce a rifare se stesso con maestria; sono innumerevoli i piccoli colpi di genio che lo distinguono da tanti imitatori e mestieranti. Il problema, purtroppo, è la sceneggiatura. E non è difficile sospettare che buona parte della colpa sia di George Lucas, autore del soggetto e notoriamente incapace da tempo di scrivere qualcosa che vada oltre l’età mentale di un dodicenne. In generale la sceneggiatura ha il difetto di tutte quelle che sono state riscritte troppe volte, e cioè è troppo affollata di spunti, di cui nessuno sviluppato adeguatamente.
Il risultato fa acqua da tutte le parti. Il personaggio di Mac, che continua ad alternare il ruolo di amico e antagonista di Indy, dovrebbe essere motore di drammi e colpi di scena, ma invece i suoi cambi di bandiera appaiono risibili, e in definitiva non ce ne frega niente di lui. Va un po’ meglio Mutt, il ragazzo, e in effetti il suo rapporto con Indy potrebbe diventare il punto di forza del film, ma poi, a mano a mano che la trama si affolla di personaggi, ci si dimentica di lui, e nel finale non gli viene lasciato alcun ruolo. Cate Blanchett nel ruolo della "cattiva" è molto brava, ma la sceneggiatura non offre al suo personaggio alcuna possibilità di sviluppo.
Ma il difetto più grave è che manca completamente il senso del rischio e del pericolo. Nel primo film, lo spettatore soffriva e si spaventava insieme a Indy. Qui l’archeologo-avventuriero se la cava sempre senza sforzo, con scene che superano in modo così plateale il confine dell’inverosimiglianza da interrompere brutalmente la sospensione dell’incredulità. Gli stessi personaggi ne sembrano consapevoli, e abbiamo persino una scena in cui la madre di Mutt, vedendo il figlio in una situazione di estremo pericolo, invece di gridare terrorizzata assiste tranquilla, come se sapesse benissimo che nulla di grave può succedere. Dopo un po’ tutto diventa meno emozionante di un videogioco, e altrettanto ripetitivo. Quando poi il film si conclude, rimane una quantità mostruosa di misteri non risolti e di dilemmi non spiegati.
Conclusione: grande spettacolo, ma dello Spielberg che sapeva emozionare, oltre che divertire, non è rimasta quasi traccia.

Film: Onora il padre e la madre

Due fratelli hanno entrambi un gran bisogno di denaro. Se il minore, Hank, è un fallito senza remissione, che non riesce nemmeno a pagare gli alimenti alla ex-moglie, il maggiore Andy apparentemente è un broker immobiliare di successo, ma in realtà è un tossicomane e le sue irregolarità finanziare sono sul punto di venire alla luce. Andy propone perciò ad Hank un piano per cavarsi d’impaccio: rapinare la piccola gioielleria dei genitori. Non ci saranno armi, nessuno si farà del male, l’assicurazione pagherà i danni, e tutto si risolverà. Ma il debole Hank commette l’errore di coinvolgere nella rapina una terza persona. Da qui, tutto procede verso la catastrofe.
L’idea che apparentemente è alla base di Onora il padre e la madre è interessante: cominciare il film come un tradizionale crime movie, mostrando quasi immediatamente la rapina e il suo esito, e di lì procedere per flash back e forward, mostrando non solo le conseguenze dell’atto, ma anche l’inestricabile groviglio di sentimenti che ci sta dietro, e che trasforma il tutto in un dramma familiare. Il veterano Sidney Lumet (quello di La parola ai giurati, A prova di errore, Quel pomeriggio di un giorno da cani e chi più ne ha più ne metta)indubbiamente sa ancora dirigere un film mantenendo alta la tensione. Per giunta ha a disposizione un ottimo cast: oltre a Philip Seymour Hoffman, sempre bravissimo, ci sono anche un Ethan Hawke così bravo a fare lo sfigato da far dimenticare tutti i ruoli da gran figo interpretati in passato, e una Marisa Tomei
Tuttavia, la buona confezione non riesce a nascondere le grandissime carenze che il film ha, sia dal punto di vista strettamente logico che da quello strutturale. Cominciamo col dire che è decisamente improbabile che una persona, colpita da un arma da fuoco, sia in grado di raccogliere la propria pistola e uccidere il proprio avversario con un singolo colpo ben piazzato, un attimo prima di cadere in coma irreversibile. Non dico che non possa succedere, ma sicuramente è proprio credibile, e non si dovrebbe costruire un intero film sulla base di un evento del genere. Ma questo è il meno. Veniamo al punto fondamentale, cioè la proposta della rapina. Andy induce Hank a commetterla, propone di dividere il bottino, però poi non vuole partecipare personalmente. Considerato che anche Hank conosce benissimo la gioielleria di famiglia, in pratica Andy si prende la metà dei soldi senza aver dato alcun contributo utile. Perché mai Hank dovrebbe accettare? Anche ammettendo che sia scemo e succube del fratello, non ha senso.
Se andiamo a poi a guardare i rapporti interpersonali, tutto è ancora più nebuloso. Alcuni personaggi sembrano considerare il padre una specie di mostro, altri invece lo adorano, e la dicotomia non viene mai risolta. Il personaggio della sorella è inesistente, il rapporto tra Hank e la moglie di Andy poco chiaro, ma soprattutto il rapporto di Hank stesso con la famiglia non viene minimamente descritto, ed è un buco grande come una casa: se lui, come dice Andy, era il figlio prediletto, perché mai non ha chiesto dei soldi ai genitori, invece che tentare di rapinarli?
Insomma una sceneggiatura molto confusa, che un buon cast e un buon regista riescono a risollevare in un film vedibile, ma comunque molto lontano dal capolavoro che molti ci hanno visto.

Film: Juno

JunoJuno è una sedicenne statunitense che decide di provare a fare sesso con un amico e, purtroppo, rimane incinta. Prende in considerazione l’aborto, ma poi decide di far nascere il bambino per darlo in adozione.In effetti trova una ricca famiglia di yuppies che non vede l’ora di adottare il nascituro. Ma le cose non vanno così liscie…
Ahimè, sta succedendo: il cinema indipendente americano, dopo aver trovato il suo spazio commerciale, sta rapidamente diventando una "maniera" che, dietro una confezione apparentemente spregiudicata e trasgressiva, nasconde contenuti banalotti e rassicuranti, quando non addirittura regressivi. Era successo con Little Miss Sunshine, che però almeno aveva un bel finale. Succede ancora di più con Juno. Che in effetti è un film in cui si parla di un sacco di argomenti non politicamente corretti, in cui si vede la protagonista seduta sulla tazza del cesso mentre piscia per fare il test di gravidanza, che insomma ostenta un atteggiamento spregiudicato nei confronti di argomenti tabù. Però, a ben guardare, è un film che si svolge nel mondo della Luna quasi quanto le commedie hollywoodiane. Per esempio, non viene MAI nominata la contraccezione, nemmeno per sbaglio: sembra che le alternative siano solo astenersi o rischiare la gravidanza. Possibile che nessun personaggio faccia notare a questi due che avrebbero fatto meglio a usare il preservativo? Il Paese più industrializzato del mondo è ancora a questo livello? E fosse solo questo; in realtà Juno sembra fare un pudico passo indietro, glissando, ogni volta che incontra un tema potenzialmente problematico.
Con questo non voglio dire che sia un brutto film. Al contrario è carino e divertente. Solo che, appunto, si ferma alla categoria del "carino". Preso come una commedia americana che non pretende di dire nulla di sensato sul mondo, ma si limita a fornire un po’ di intrattenimento, Juno è senz’altro superiore alla media, con un buon cast e una serie di battute e situazioni che non possono non far sorridere. Se vi accontentate…

Film, Sogni e Delitti

Sogni e delittiTerry e Ian sono due fratelli inglesi. Il primo fa il meccanico, e ha il vizio del gioco, il seconda sogna di lasciare il ristorante del padre per andare all’estero e diventare un affarista, e gli piace fingere di essere ben più ricco e "arrivato" di quanto non sia. Quando Terry si trova debitore di una grande somma di denaro persa alle carte, e Ian ha bisogno di trasformare i propri sogni in realtà per non deludere la bella attrice di cui si è innamorato, i due si rivolgono insieme al ricchissimo zio Howard. Costui si dichiara disposto a concedere il denaro richiesto, ma in cambio vuole un favore: i nipoti dovrebbero eliminare un suo ex-socio che minaccia di mandarlo in galera a vita. Di fronte all’unica possibilità di non veder sfumare i propri sogni i due, riluttanti, accettano…
Fin dagli inizi della sua carriera alla fine degli anni ’60, Woody Allen ha mantenuto, in modo sostanzialmente ininterrotto, il ritmo di un film all’anno. Questa regolarità autoimposta è stata sicuramente un utile strumento per Woody, che ha evitato le trappole del perfezionismo e ha così fornito al suo genio molteplici occasioni per esprimersi. Tuttavia, ora che i film sono diventati una quarantina, diventa evidente il rovescio della medaglia: sempre più spesso il regista newyorchese produce opere che, pur elegantemente confezionate, risultano superflue all’interno di una filmografia superba come la sua.
Quello che Woody Allen aveva da dire sull’omicidio lo ha detto nello splendido Crimini e Misfatti, e lo ha ripetuto nell’altrettanto bello quasi-remake Match Point. Al confronto, Sogni e Delitti scompare. Indubbiamente Colin Farrell e Ewan McGregor fanno una buona figura, i dialoghi, dopo un inizio rigido e didascalico, scorrono come sempre, e il Woody regista si dimostra ancora capace di inventare scene con fantasia (come quella in cui per la prima volta viene proposto l’omicidio, realizzata mentre i personaggi si riparano sotto un albero per sfuggire a un temporale, situazione che accentua il senso di intrappolamento dei due protagonisti). Tuttavia il film non ha nessun colpo di genio, e procede calligrafico attraverso una serie di tappe assolutamente prevedibili, tanto che il finale non dà corpo a nessuna emozione. Molti personaggi rimangono appena sbozzati, sospesi in un limbo a metà strada tra la comparsa e il personaggio compiuto e significativo. E, se ancora una volta il regista mette a nudo l’ingiustizia e la sopraffazione che si nascondono sotto la scorza della normalità, l’atmosfera da tragedia greca (evocata fin dal titolo originale, Cassandra’s Dream) ci sembra un passo indietro rispetto al cinico razionalismo delle sue opere precedenti.
Discorso simile per la colonna sonora di Philip Glass: ben confezionata, ma non aggiunge nulla a quanto già fatto in passato.

Film: Persepolis (anteprima)

Dal fumetto autobiografico di Marjane Satrapi. Marjane è una ragazzina iraniana che si trova a vivere proprio nei giorni in cui il regime dello Scià viene rovesciato. Condivie le speranze della sua famiglia per una società più democratica, ma vede invece nascere l’oppressiva teocrazia islamica, mentre il paese viene sconvolto dalla guerra con l’Iraq. Per salvarla dalla sua indole ribelle, i genitori la mandano a studiare in Europa, dove Marjane impara a condurre una vita libera e indipendente. Ma non si trova comunque a suo agio tra gli studenti europei che non sanno apprezzare la libertà di cui dispongono, e la nostalgia di casa la spinge a tornare in Iran…
Persepolis è un capolavoro assoluto del fumetto mondiale, questo è indiscutibile. E questa versione, realizzata personalmente dall’autrice insieme a Vincent Paronaud, gli rende pienamente giustizia. Realizzata con tecniche tradizionali di animazione, mantiene l’essenzialità e il bianco e nero caratteristici dell’originale, utilizzando però una varietà di effetti di sfondo e di movimento che le donano in più una qualità autenticamente filmica. Lodevole la scelta dell’autrice di non presentare una mera trasposizione della storia a fumetti, ma di riscriverla completamente per il cinema. In questo modo, non solo anche chi ha già letto il fumetto può godere di tanti episodi ed elementi nuovi, ma il tutto scorre così bene che ci si dimentica di essere di fronte a un cartone animato. L’edizione italiana mi è sembrata perfettamente curata (la voce italiana della protagonista è di Paola Cortellesi, mentre in originale era di Chiara Mastroianni).
Soprattutto: è una splendida storia vera, che parla di eventi anche tragici senza mai risultare pesante o ricattatoria, e che propone un punto di vista straordinariamente personale e sfumato su temi e luoghi su cui pesano luoghi comuni tagliati con l’accetta. Da vedere assolutamente.

Film: Irina Palm

Maggie è una signora inglese, vedova, il cui nipotino sta morendo in ospedale di una malattia rara. Forse una nuova terapia potrebbe salvarlo, e Maggie ha già sacrificato tutti i suoi averi, inclusa la casa. Mentre cerca un modo per racimolare altro denaro, per un equivoco risponde a un’offerta di lavoro decisamente poco ortodossa per una signora rispettabile. Ma lei, dopo qualche esitazione, accetta, e si ritrova ben presto a essere una star dei locali porno di Soho, con lo pseudonimo di Irina Palm…
Il riassunto della trama non rende giustizia a questo film, che è di un acume e di una sottigliezza rari. Drammatico ma anche umoristico, riesce a parlare di tanti argomenti serissimi senza per questo risultare didascalico o deprimente. Descrive senza mezzi termini tutta la spietatezza di una società in cui il valore di mercato diventa l’unica unità di misura, ma fa anche una beffarda analisi sulla relatività di ogni codice morale, e non soltanto. Splendidi tutti gli interpreti e in particolare Marianne Faithfull, perfettamente a suo agio nei panni di una Maggie del tutto priva di glamour, e l’attore serbo Miki Manojlovic (già protagonista di Underground di Kusturica), che nella parte del suo omonimo pornoimpresario Miki sembra un redivivo Walter Matthau. Unica nota negativa per la colonna sonora del gruppo belga Ghinzu, in sé anche bella, ma cosi uniformemente funerea da risultare spesso in palese contrasto con la ricchezza di umori della pellicola.