Concerto: Dusk e-B@nd + La Torre dell'Alchimista

Michele MuttiIl giorno prima del concerto dei Genesis di cui parlo nel post precedente, mi sono lasciato convincere dal Soloist ad andare al concerto di una cover-band, in modo da godermi un po’ dei brani del periodo Gabriel che sicuramente il gruppo originale non avrebbe eseguito. Mi sono così recato insieme a lui al Thunder Road di Codevilla (PV). L’arrivo è stato abbastanza deprimente: meno di trenta persone nel pubblico (c’è da chiedersi cosa spinga tanti ottimi musicisti a dedicarsi ancora al prog, se i risultati sono questi). Per giunta, niente birra alla spina, in quanto esaurita (di venerdì sera?!?!).

Il concerto è stato aperto da La Torre dell’Alchimista, che ha presentato il nuovo album Neo. La band si rivela una piacevolissima sorpresa. È raro che un concerto mi piaccia molto se non conosco i brani che vengono eseguiti, e questo vale in particolare per una musica complessa e non sempre orecchiabile come il prog. Ma i giovani bergamaschi della Torre mi hanno davvero fatto passare un piacevole inizio di serata. Merito soprattutto del tastierista Michele Mutti che, dotato di una strumentazione invidiabile (organo Hammond, Mellotron, Fender Rhodes, qualcosa che sembrava un MiniMoog o altro strumento equivalente, più tastiere digitali e computer) l’ha usata davvero al massimo delle possibilità, sostenuto da un’ottima sessione ritmica e da un cantante dalla voce limpida che riusciva a farsi sentire nonostante l’imponente sbarramento sonoro. Musica vecchio stile, certo, ma cos’ ben composta ed eseguita da non sembrare affato datata. Non altrimenti si può dire, ahimé, dei testi, il vero punto debole della band. Retorici, pesantemente metaforici, roba che sarebbre apparsa ingenua e fuori moda già trent’anni fa. Datevi una regolata, ragazzi!

A seguire, la Dusk e-B@nd, e qui sono cominciati i guai. Il gruppo arriva sul parco già in ritardo e comincia, tra la costernazione dei pochi presenti, a fare il soundcheck. Non ho modo di sapere se la copla del ritardo sia stata del locale o della band; certo che, per un concerto che si svolge in un locale a quasi un’ora di macchina da Milano, cominciare a suonare dopo mezzanotte non è il massimo. Per giunta, ci sono gravi problemi: il basso ha un problema di schermatura, ogni volta che interviene si sente un colossale ronzio che arriva a coprire gli altri strumenti, pasticciando irrimediabilmente il suono. Non si trova una soluzione, il gruppo comincia a suonare lo stesso, ma è sull’orlo di una crisi di nervi, e si vede. Data la situazione, viene eseguita una scaletta piuttosto accorciata. Watcher of the Skies, The Return of the Giant Hogweed, vari brani tratti da The Lamb Lies Down on Broadway, I Know What I Like, Dance on a Volcano, forse qualche altro pezzo che non ricordo, mentre Abacab è l’unico dei brani post-Hackett. Però il suono è un disastro, la tastiera distorce pesantemente, i musicisti non riescono a sentirsi e sbagliano.
Difficilissmo giudicare la band in una situazione del genere. Rispetto alle altre due splendide cover band italiane che ho avuto occasione di sentire (cioè i Supper’s Ready, il cui batterista è finito proprio nella Dusk e-B@nd, e la G Cover Band), mi è parso che in questo caso il sound lasciasse a desiderare in quanto non molto filologico ma nemmeno sufficientyemente personalizzato. Però, appunto, la situazione era tale da non consentire di giudicare serenamente. Nota di merito, in ogni caso, per il cantante Roberto Capparucci, che è riuscito ad apparire bravo anche in condizioni difficili come quelle descritte. Mi auguro che ci sarà un’occasione migliore per consentire anche agli altri di splendere.

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Concerto: Genesis

Per prima cosa, voglio prevenire tutti coloro che commenteranno dicendo "I Genesis sono finiti quando se n’è andato Peter Gabriel", o qualcosa del genere. Io non sono d’accordo, perlomeno non del tutto. Per cominciare, ritengo che i due album immediatamente successivi all’uscita di Gabriel siano tra i migliori in assoluto della produzione della band, come se il vuoto lasciato dalla vulcaniza ma ingombrante teatralità del cantante fosse stato riempito da uno sforzo ancora più intenso sotto il piano strettamente musicale. In secondo luogo, non credo sia un sacrilegio se una band decide di cambiare genere musicale. Negli anni ’80 e ’90 i Genesis producevano rock da stadio e pop invece che progressive ma, finché lo facevano bene, non c’era problema. Per me brani come Abacab, Home by the Sea, persino un pezzo terribilmente piacione ma originale come I Can’t Dance vanno benissimo, non vedo motivo di scandalizzarmi se provengono da una band che un tempo faceva altro.
Detto questo, non voglio certamente assolvere la band dalle colpe degli ultimi anni della sua carriera, che sono numerose. Per esempio, l’aver farcito gli ultimi album della sua carriera di brani inutili, privi di idee e di rifinture, di ballatone utili per eccitare gli accendini negli stadi ma senza alcun contenuto di originalità. Di essere stata incapace di produrre testi anche solo un minimo interessanti. Di essersi completamente ingessata negli spettacoli dal vivo, pescando per vent’anni sempre dagli stessi trenta brani degli oltre centocinquanta del suo repertorio. E di avere completamente sprecato l’opportunità dell’arrivo del nuovo, giovane cantante Ray Wilson, costringendolo nel ruolo di rimpiazzo di Phil Collins invece che approfittarne per svecchiare la propria immagine, e abbandonandolo vigliaccamente al suo destino ai primi accenni di mancato gradimento da parte del pubblico.

Ma se la pensi così, mi chiederete, perché sei andato fino a Roma a celebrare il ritorno di Phil Collins e dei Genesis sui palchi dopo un decennio (e più) di assenza? Non ho difficoltà ad ammetterlo: per bieca nostalgia. Per ascoltare ancora una volta la band con cui ho  letteralmente imparato ad ascoltare musica. E anche per testimoniare a un evento che si preannunciava colossale.

Ho rinunciato ad arrivare vicino al palco: per farlo sarebbe stato necessario perlomeno viaggiare di notte e sistemarsi in posizione buona alle prime luci dell’alba. Ma non ho più l’eta di queste cose, e inoltre ero accompagnato da amiche che male avrebbero sopportato di scomparire nella calca. Ho optato per arrivare solo mezz’ora prima dell’inizio e per sistemarmi sulle pendici di una collinetta a un centinaio di metri dal palco, postazione che garantiva comunque un’ottima visuale del megaschermo e anche di tutto il Circo Massimo, che era uno spettcolo in sé: circa mezzo milione di persone, non credo di aver mai visto una folla simile in vita mia!
L’amplificazione era potentissima, ma ovviamente l’acustica della situazione era quella che era: impossibile discernere fini dettagli. Comunque si percepiva ogni strumento e, anche se il riverbero pasticciava un po’ il sound, nel complesso si sentiva bene. Assolutamente straordinario il megaschermo a LED; grande come uno stadio (era largo sessanta metri!). Si vedeva benissimo anche prima che calasse il sole, e sicuramente forniva la spettacolarità che i membri del gruppo quasi invisibili sul palco lontano non avrebbero altrimenti potuto ottenere.

Chi si aspettava una solenizzazione dell’evento (ultimo concerto del tour di fronte a una folla colossale) è rimasto deluso: i Genesis hanno suonato esattamente la stessa scaletta di tutti gli altri concerti. E, ovviamente, nessun ospite speciale (lo stesso Peter Gabriel si era preoccupato di smentire recisamente). Tuttavia non ci si può lamentare: l’assenza di un album specifico da promuovere, se non altro, ha permesso di toccare tutte le epoche del repertorio della band, senza lasciare nessuno del tutto insoddisfatto (la scaletta completa è in fondo al post).
Ho trovato che i Genesis abbiano suonato molto bene. Sicuramete meglio dell’ultimo tour in cui li ho visti, nel 1998, in cui mancava la doppia batteria (e Nir Z non era un degno sostituto nemmeno del solo Collins o del solo Thompson), e in cui il bravo ma svogliato Anthony Drennan non poteva minimamente competere con Daryl Stuermer. Quest’ultimo, a mio parere, è stato il migliore in campo: il suo assolo su Firth of Fifth mi ha fatto gridare dall’entusiasmo, e in generale, nei brani in cui sostituisce la chitarra di Hackett, è stato eccezionale. Un altro momento splendido del concerto è stato il ripescaggio di Ripples…, che credo non venisse più suonata da un quarto di secolo, e che è stata eseguita benissimo. Personalmente avrei tolto qualche ballata strasentita a favore di qualche pezzo più interessante, ma era scontato che gli equilibri fossero questi.
Nel complesso, un bel concerto, che mi ha riportato a dolcissimi ricordi. Niente di sorprendente, ma se non altro i Genesis hanno dimostrato, se non altro, di saper ancora suonare il loro repertorio, cosa di cui alla fine degli anni ’90 non ero più certo. Questo non vuol dire che siano più capaci di dire qualcosa di nuovo… ma mai dire mai (qui parla il fan, non il critico).

La scaletta:
Duke’s End
Turn It On Again
No Son of Mine
Land of Confusion
In the Cage
medley Cinema Show – Duke’s Travels
Afterglow
Hold On my Heart
Home by the Sea
Follow You, Follow Me
Firth of Fifth (parte strumentale)
I Know What I Like
Mama
Ripples…
Throwing It All Away
Domino
Drum Duet – Los Endos
Tonight Tonight Tonight – Invisible Touch

I Can’t Dance
Carpet Crawlers

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Libro: Confine di Stato

Il libro narra, nascondendoli sotto trasparenti pseudonimi, vari eventi celebri della storia italiana tra gli anni ’50 e i ‘70: il caso Montesi, la morte di Enrico Mattei, l’attentato di piazza Fontana, la morte di Giangiacomo Feltrinelli, unendoli in un’unica trama, il cui filo conduttore è la figura di Andrea Sterling, un uomo violento, malvagio e dal passato oscuro, sempre in prima fila nelle trame occulte del nostro paese.

Questo libro di Simone Sarasso, apparso un anno fa per i tipi della piccola casa editrice Effequ, è stato poi rieditato da Marsilio per una distribuzione in grande stile, preceduto da osannanti recensioni. Mi aspettavo quindi un’opera importante, specie dato l’argomento affrontato. E invece quasi non so dove cominciare con le critiche, visto che di questo libro non salverei nulla, tranne forse la copertina.
Cominciamo col dire che l’autore compie una scelta ambigua riguardo al rapporto tra la narrazione e la realtà dei fatti. Molti dei personaggi principali hanno nomi di fantasia (per giunta a volte rubati ad altri contesti; per esempio l’equivalente di Mino Pecorelli si chiama Maurizio Merli, come l’attore), ma in loro sono riconoscibilissimi in ogni dettaglio personaggi veri, e sono mescolati a personaggi storici e ad altri totalmente inventati. Alcuni eventi rispettano scrupolosamente la storia, altri sono di fantasia. Il risultato è un miscuglio in cui non si riesce a separare la realtà dall’invenzione, e che non ha né l’autonomia di una narrazione che prende ispirazione dalla realtà ma se ne mantiene separata, né il rigore di un’opera che pretenda di raccontare fatti realmente accaduti. Contribuisce ad aumentare la confusione una serie di anacronismi e incongruenze. Si va dai piccoli dettagli (un display numerico a LED sulla bomba di piazza Fontana, in anticipo di almeno un decennio; un blindato Defender nello stesso periodo, più di vent’anni prima che i primi esemplari uscissero dalla fabbrica; una inesistente piazza Vittorio in centro a Milano) a grosse incongruenze come un gruppo di psichiatri con atteggiamenti “basagliani” nel 1947, a mio avviso del tutto al di fuori del loro tempo. Insomma, pur prendendo atto che l’autore si è sforzato di ricostruire atmosfere d’epoca, i risultati non sono adeguati.
Al di là di questo, quello che proprio non mi è andato giù in Confine di Stato è il suo protagonista assoluto, Andrea Sterling. La sua storia è nel contempo vaga e totalmente inverosimile. Rinchiuso in manicomio all’età di 8 anni per motivi imprecisati, non solo diventa adulto senza alcun ritardo mentale, ma riesce a ingannare gli psichiatri, che lo mettono in libertà ignari delle sue manie violente. Dopodiché va avanti commettendo efferatezze varie che rimangono inspiegabilmente impunite. Entra tranquillamente in Polizia, dalla quale poi, trasformato in una vera macchina per uccidere, passa ai servizi segreti deviati e a Stay Behind. Animato da un odio mortale nei confronti dei “rossi”, invincibile come Diabolik, è motivato unicamente dal piacere di uccidere. Ecco, l’ho scritto e non mi capacito. Questo personaggio, che sembrerebbe raffazzonato ed eccessivo anche in un fumetto di supereroi di serie B, dovrebbe secondo l’autore dirci qualcosa delle trame politico-terroristiche che hanno insanguinato l’Italia.
Confine di Stato non ha neppure alcunché di nuovo da dire sugli eventi di cui narra. Si limita a introdurre una buona dose di truculenze inverosimili all’interno di un contesto storico ampiamente noto, senza proporre teorie originali di una qualche plausibilità. Dal punto di vista sociologico non andiamo meglio. Tutta l’attenzione viene dedicata a questo “cattivo” bidimensionale e ai suoi accoliti. I mandanti rimangono nell’ombra, gli altri personaggi non sono che macchiette stereotipate. Per giunta la narrazione è frammentaria e inconcludente, con inutili intermezzi a base di droga o sesso violento.
In definitiva, non riesco a immaginare alcuna chiave di lettura che consenta di apprezzare questo romanzo. Tra l’altro, questa insistenza sulle imprese di Sterling, sempre coronate da successo, mentre tutti gli altri personaggi appaiono come imbelli, succubi, velleitari o al massimo figure tragiche, comunque destinate senza scampo alla morte, hanno il paradossale effetto di esaltare la figura del criminale. Non credo che questa fosse l’intenzione dell’autore, ma nel valutare un’opera bisogna guardare ai risultati.

Aggiungo un’ultima annotazione. Confine di Stato mi ha ricordato parecchio Nel nome di Ishmael, il romanzo di Giuseppe Genna uscito qualche anno fa ed esaltato da molti come un capolavoro (del resto lo stesso Sarasso, nei ringraziamenti, cita esplicitamente Genna come ispiratore). Anche Ishmael mi piacque pochissimo, e per difetti molto simili a quelli del romanzo di Sarasso: imprecisione nella ricostruzione storica, inverosimiglianze e, soprattutto, l’attribuire i mali dell’Italia a una sorta di invincibile incarnazione del Male metafisico: un punto di vista che non spiega nulla e che non può servire come punto di partenza per alcun discorso serio sui problemi del nostro Paese. La cosa che più mi lascia perplesso è che sia Sarasso, sia Genna si proclamano grandi ammiratori di James Ellroy. Ma hanno mai letto American Tabloid?! In quel grande romanzo le motivazioni dell’assassinio di Kennedy emergono con estrema chiarezza come il prodotto di un’intera società, con tutto il suo carico di contraddizioni, tensioni e delusioni. È un libro che parla più di un manuale di storia, senza scomodare onnipotenti internazionali destrorso-pedofile o assassini invincibili partoriti dal manicomio. Il problema è che in Italia basta dichiarare di essere il nuovo Ellroy, o il nuovo DeLillo, e si viene subito creduti, a prescindere da quello che effettivamente si scrive.

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Film anteprima: Hot Fuzz

Visto che ultimamente ho la fortuna di assistere per lavoro ad anteprime cinematografiche, ne rendo paretecipi anche i lettori di questo blog. Cominciamo con Hot Fuzz.

Nick Angel è il poliziotto perfetto. È un ottimo investigatore, e ha effettuato più arresti di chiunque. Conosce alla perfezione il regolamento e lo applica alla lettera. Per giunta è onesto e, pir esendo abilissimo nell’uso delle armi,ne ha un sincero orrore. Tutto questo è sufficiente a far sì che nessuno dei suoi colleghi lo possa sopportare, e all’unanimità decidono di farlo trasferire in un minuscolo borgo, dove non succede mai nulla, tutti sono felici e la principale aspirazione dei cittatidini è vedere eletto il proprio paese come luogo più accogliente d’Ingilterra. L’adattamento di Nick alle abitudini locali sarà difficile, e lo diventerà ancor di più quando il borgo si riempirà di cadaveri provocati da "incidenti" sospetti. È davvero Nick a vedere assassini dove non ci sono, o c’è sotto qualcosa di poco chiaro?

Hot Fuzz è il frutto della stessa collaborazione che ha già prodotto Shaun of the Dead (in Italia La Notte dei Morti Dementi, uscito solo in home video e passato del tutto inosservato, nonostante fosse un film divertente e originale): l’attore e sceneggiatore Simon Pegg e il regista Edgar Wright. Lo stile della pellicola può ricordare quello dei primi film di Guy Ritchie (cioè Lock & Stock e The Snatch, girati prima che il regista inglese vedesse la Madonna e ne risultasse artisticamente azzerato). In effetti alcuni stilemi (le scene di raccordo con montaggio ipercinetico, la sceneggiatura contorta e "a orologeria", la riproposizione debitamente anglicizzata di situazioni classiche dell’action movie americano) sono esattamente gli stessi. Tuttavia, dove Ritchie si limitava a riproporre con ironia il modello americano calandolo nella società inglese, Pegg e Wright fanno un passo oltre, giocando con estrema consapevolezza con il rapporto fra il cinema e realtà. Tutto il film narra del modo in cui Nick cerca di scrollarsi di dosso l’immagine "cinematografica" che gli è stata appiccicata addosso, e di come alla fine la forza del cinema sia maggiore di quella della realtà, imponendosi su di lui e costringendolo a interpretare fino in fondo il ruolo cui è destinato, in un’esilarante serie di rivolgimenti. Il film è una fucina dirimandi e di citazioni (per gli amici della fantascienza: c’è anche un personaggio che legge continuamente romanzi di Iain Banks), ma può essere goduto da ogni tipo di pubblico, grazie a tempi comici perfetti e a una sceneggiatura che dosa sapientemente umorismo di pura marca inglese in una storia che non risparmia truculenze e colpi di scena degni di un autentico thriller ultraviolento. Splendido il cast, con un protagonista che riesce a mantenere l’aria di serietà del suo personaggio anche nelle situazioni più impossibili, e una serie di caratteristi celeberrimi (tra cui Timothy Dalton, Jim Broadbent, Bill Nighy). Insomma, credo che si sia capito, il film mi è piaciuto parecchio. Ormai è raro divertirsi così al cinema, e ancora di più farlo con una commedia assolutamente originale e registicamente molto interessante. L’unico appunto che le si può fare è di durare troppo: due ore piene sono eccessive per una commedia, e i sottofinali sono in numero eccessivo. Comunque sia, non perdetevelo: esce in agosto, periodo depressivo per qualsiasi cinefilo, ma con questo vi tirerete su.

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Libro: Il giovane sbirro

Il Giovane SbirroGià il primo libro di Biondillo, Per cosa si uccide, mi era piaciuto: basterebbe il personaggio di Ferraro, uno dei poliziotti più umani e autentici della nostra letteratura gialla, a giustificarne la lettura. Ancora meglio il successivo Con la morte nel cuore, che espandeil personaggio di Ferraro e lo porta a nuove vette, grazie a una scrittura capace di autentici pezzi di bravura (la scena del suicidio della sveglia è giustamente famosa). Ma quello che mi è piaciuto di più è Per sempre giovane, che non è un giallo e sembra non avere niente a che fare con Ferraro (ma poi si scopre che non è del tutto vero), ed è invece la storia di un gruppo rock femminile negli anni ’80. Mi ci sono veramente immedesimato, perché è tutto autentico: ho rivissuto le atmosfere degli assurdi localini come il Magia Music meeting, sul cui minuscolo palco le band si accalcavano per avere la sospirata occasione di suonare in pubblico, tutte cose che ho vissuto ed erano proprio come lui le descrive. mi sono innamorato di tutte e quattro le musiciste e mi sono commosso.
Adeso è uscito Il giovane sbirro, che comincia poco dopo Per sempre giovane, con un Ferraro ventenne che decide di entrare in Polizia, e finisce con Ferraro che si separa dalla moglie, pronto a entrare in quel periodo di depressione in cui lo troviamo all’inizio di Per cosa si uccide. In un certo senso, quindi, il libro definitivo su Ferraro, quello che spiega tutto, che lo definisce. Ma è davvero così?
L’inizio, diciamolo, è splendido. Quando parla di musica, Biondillo mi rapisce. Sarà perché ha solo un anno meno di me, e abbiamo ambedue passato la prima giovinezza a Milano, ma lui ed io vediamo le cose esattamente nello stesso modo. E nella disamina di Lucio Battisti che Biondillo inserisce tra un capitolo e l’altro io mi riconosco totalmente.
Anche il finale è molto bello. Sappiamo già come sono andate le cose, perché ce lo ha raccontato nei libri precedenti. Eppure non si può fare a meno di soffrire con Ferraro: Biondillo ha descritto con efficacia l’ineluttabilità con cui una rleazione si sfascia, senza che nessuno dei due lo voglia.
Quello che c’è in mezzo… ecco, purtroppo quello che c’è in mezzo non è altrettanto soddisfacente. Soprattutto perché non è quello che ci aspetteremmo. Tra questo inizio e questo finale, infatti, ci vorrebbe una solida trama che ci tenesse avvinti e ci costringesse a voltare le pagine una dopo l’altra. Biondillo, invece, ci ha messo dieci racconti, con un undicesimo racconto intercalato "a fette", a fare da fil rouge per mantenere almeno un po’ di tensione verso il finale. Bisogna poi aggiungere che non tutti i racconti sono pertinenti (per esempio, in Rosso, denso e vischioso e in Modello 1928 la presenza di Ferraro è piuttosto ininfulente, e in La gita lo si vede appena).Lo stile dei racconti, poi, è disomogeneo. Si va dall’usuale stile biondilliano fino a cose come Strategie, che sembra quasi un pezzo di Ammaniti. Infine, bisogna dire che non tutti i racconti sono del tutto riusciti. La gita, per esempio, è poco più che un abbozzo, e La signora in rosa è legnoso e poco sviluppato. Molti sono troppo brevi: le storie avrebbero ottime potenzialità anche come base di romanzi interi, ma Biondillo le stronca sul nascere, ti fornisce la soluzione dopo poche pagine e passa oltre.
Con questo non voglio dire che il libro sia scritto male o che la lettura sia noiosa. Al contrario. Biondillo scrive sempre benissimo (forse è l’unico italiano che può usare gaddismi come tintotricotico senza apparire affettato), le idee gialle sono tutte buone, alcune ottime. E gli appassionati di Ferraro possono godere di tante piccole chicche disseminate in tutto il romanzo: dal primo incontro con l’ispettore Lanza a quello con il vicecomissario De Matteis, e tanti momenti che contrivuiscono a fare di Ferraro un personaggio indimenticabile. Se vi sono poiaciuti i libri precedenti, potete tranquillamente acquistare anche questo. Però la sensazione dell’occasione in parte sprecata, del libro che sarebbe potuto essere migliore, permane.

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Libro: Giochi Sacri

Giochi SacriSartaj Singh è un ispettore della polizia di Mumbai, in India. Un giorno al suo telefono, una voce sconosciuta gli chiede "Vuoi Ganesh Gaitonde?". Lui risponde di sì, perché Gaitonde è uno dei più celebri boss della malavita indiana, e arrestarlo sarebbe il più grosso colpo della sua carriera. E in effetti Gaitonde è lì, dove è stato indicato. Mentre Sartaj discute con il boss asserragliato in un appartamento e cerca di convincerlo ad arrendersi, non può fare a meno di porsi delle domande. Perché Gaitonde è lì, a correre il rischio di essere arrestato, invece che al sicuro all’estero? Chi ha fatto la soffiata, e perché? E come mai il boss non si arrende, ma filosofeggia attraverso il citofono, come se stesse cercando di dirgli qualcosa? Le stesse domande diventeranno di capitale importanza quando interverranno i servizi segreti, e ordineranno a Sartaj di trovare le risposte, perché da esse dipende l’esito di un gioco che coinvolge tutta l’India, e forse più.
Giochi sacri è un colossale romanzo di quasi 1200 pagine scritto da Vikram Chandra, che è allo stesso tempo molte cose. È un poliziesco di ottima fattura, realistico e avvincente e con una buona dose di colpi di scena. Ma è anche un grande romanzo sull’India, questa enorme nazione in cui convivono altissima tecnologia e villaggi rimasti al medioevo, libertà moderne e privilegi di casta, in un inestricabile groviglio che riproduce tutte le contraddizioni del mondo di oggi. Ed è soprattutto un libro sul bisogno di identità, questa cosa misteriosa e sfuggente su cui si basano tanti dei conflitti di oggi. "Chi sono io?", si chiede Sartaj Singh, chenon è religioso ma il cui posto nella vita è indissolubilmente segnato dalla sua appartenenza all’etnia sikh, e la cui fondamentale onestà si scontra ogni giorno con un sistema che premia la corruzione e l’inefficienza. E la stessa domanda se la pone Ganesh Gaitonde, che ha vissuto tutta la propria vita sfruttando la propria immagine di uomo spietato e pronto a tutto, ma che nel suo intimo è rimasto il teppista senza radici arrivato a Mumbai tanti anni prima.

Il libro ha una struttura complessa: alterna l’indagine di Sartaj Singh all’autobiografia di Gaitonde raccontata in prima persona; in più, introduce squarci narrativi ambientati in altri tempi e in altri luoghi, che lasciano capire come ogni nemico sia in realtà strettamente imparentato con il proprio avversario, come noi stessi generiamo la nemesi che ci verrà a colpire, e come in realtà esista un’unica identità, che si ricompone nonostante i nostri migliori tentativi di frammentarla.
Ci sono due soli motivi per cui potreste non volerlo leggere. Il primo è la colossale lunghezza (ma vale la pena). Il secondo è che la lingua del romanzo è infarcita da parole hindi e urdu, tanto che c’è un glossario di venti pagine in fondo. Per alcuni questo sarà un ostacolo insormontabile, ma per me questo è un ulteriore pregio: come il siciliano di Camilleri, anche l’hindi di Chandra è un mezzo per trasportarci instantaneamente in un altro mondo, e darci il desiderio di conoscerlo e comprenderlo. Così, ora che ho finito il libro, non solo so che Bombay ha cambiato nome da 12 anni e si chiama Mumbai, ma conosco anche abbastanza turpiloquio hindi da poter sostenere una conversazione nei peggiori bassifondi indiani. Quindi, maderchod che non siete altro, non avete più scuse: muovete il gaand e andate a comprare questo bhenchod di un libro, ci scommetto le goli che vi piacerà!

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Disco: Fear of a Blank Planet

Porcupine Tree Sono quasi due mesi che ho questo disco per le mani, avrei potuto recensirlo in anteprima assoluta, invece me lo sono tenuto finoad oggi (la recensione "ufficiale" è uscita un mese e mezzo fa su AudioVideoFotoBild, ma lì parlavo ai profani,qui invece vorrei riuscire ad arrivare al fondo di un disco, se decido di parlarne.
Il fatto è che Fear of a Blank Planet è un disco difficile. Se lo ascolto, non trovo critiche immediate da fargli, anzi, rimango ammirato per la qualità del suono e i tanti piccoli dettagli della composizione. Però, è innegabile, questo disco non mi entra in testa. Mentre anche in opere non proprio accessibili come Deadwing si poteva trovare il brano che tirimaneva in testa e faceva da chiave a tutto il resto, qui non c’è. Steven Wilson, che ho intervistato, mi ha detto che concepisce questo disco come un tutto unico, non come un insieme di canzoni, e per questo non si è preoccupato di inserire brani che si discostassero dall’atmosfera generale, piuttostoostica e cupa. E tuttavia non mi sono arreso, ho continuato ad ascoltarlo, e ad ogni ascolto ho notato nuovi dettagli, il che mi convince che non si tratti di un disco ostico per partito preso, ma solo di un’opera che richiede il suo tempo per essere assimilata.
Il brano iniziale è la title-track, e sembra un avanzo di Deadwing. Il sound è esattamente lo stesso, tanto che si potrebbe sospettare che i Porcupine Tree abbiano realizzato un album-clone (ma non è così). Comunque un buon inizio, ai livelli dei brani migliori del disco precedente. Segue My Ashes, il brano più breve (comunque oltre i cinque minuti!), introdotta da un pianoforte effettato alla No Quarter (secondo me in questo album i Led Zeppelin si sentono parecchio!). Un brano languido e melodico, che inizialmente non mi aveva impressionato ma che ora ritengo uno dei migliori del disco. Si evidenzia una delle novità principali di Fear of a Blank Planet, il sostegno del piano elettrico suonato da Wilson (che si affianca alle effettistiche tastiere di Richard Barbieri). Viene poi Anesthetize, il brano principale, con i suoi quasi 18 minuti di durata. Wilson me lo ha descritto come un brano che tenta di riassumere ogni possibile sound dei Porcupine Tree di ogni epoca, ed è un’ottima descrizione. C’è dentro veramente di tutto, dalla psichedelia degli esorti alla durezza metal dell’ultimo periodo. Ospite speciale Alex Lifeson dei Rush, che regala un potente assolo. Bisogna dire che l’album giustifica se stesso anche solo per questo brano.
Sentimental, la canzone successiva, è un brano melodico con gran tappeti d’archi, che può ricordare le atmosfere di Lightbulb Sun. Nonostante questo, per me è il punto debole del disco, non brutto ma alquanto poco incisivo. Non mi piace moltissimo nemmeno la successiva Way Out of Here: appartiene alla famiglia delle Halo o Strip the Soul, brani molto veloci ma un po’ senz’anima, non sono il forte di Wilson. La conclusione però è splendida: Sleep Together è costruita su un tappeto elettronico steso da Robert Fripp, e procede crescendo fino a un finale con archi zeppeliniani, davvero un modo eccellente per chiudere l’album.
Concludendo, direi che è senz’altro un buon disco, ed è apprezzabile lo sforzo dei Porcupine Tree di rinnovarsi e di alzare sempre la mira (tutto si può dire di questo disco, fuorché che sia commerciale, nonostante le accuse inevitabilmente piovute dopo l’approdo alla Roadrunner Records). Se siete dei fan dei Porcupine Tree potete acquistarlo (o preferibilmente scaricarlo, siamo realisti!) senza problemi, non credo resterete delusi. Se invece non li avete mai sentiti, è preferibile cominciare con qualcosa di (relativamente) più accessibile, tipo In Absentia

Colgo l’occasione per annunciare che il prossimo 1 giugno metterò on-line l’intervista completa a Steven Wilson. Rispetto a quella apparsa sul numero di AudioVideoFotoBild attualmente in edicola non c’è moltissimo materiale in più, ma qualcosa sì, e spero gradirete.

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Film: Spiderman 3

Spiderman 3Sono andato a vedere Spiderman 3, e devo dire che la visione ha smentito quasi tutto quello che avevo sentito dire in proposito.
Si diceva che questo episodio fosse meno riuscito rispetto ai precedenti, e sono di parere contrario: credo invece che sia il migliore dei tre.
Si diceva che la sceneggiatura mette troppa carne al fuoco e non sviluppa a sufficienza il materiale presentato. In un certo senso è vero che con i personaggi di Spiderman 3 si potevano tranquillamente fare due film, forse anche tre. Ma secondo me questo è un fatto positivo, non negativo. E’ inutile aspettarsi più di tanto approfondimento dai personaggi di Spiderman, che non sono sfaccettati, ma rappresentano emozioni semplici e immediate. L’unico modo per ottenerne un film interessante è quello di moltiplicare personaggi e situazioni. E in questo film abbiamo una triade di avversari perfetta per mettere in luce i vari aspetti del nostro Uomo Ragno: l’Uomo Sabbia, il criminale per necessità; Goblin, il rivale; e Venom il doppio negativo.
C’era poi chi si lamentava della troppa importanza data alla storia d’amore tra Peter e Mary Jane. Ma secondo me sono critiche che vengono da chi non conosce il fumetto. Spiderman è sempre stato anche una soap opera, e credo che il film abbia dato a questo aspetto il giusto peso, sfiorando il trash senza mai caderci dentro del tutto. (Unico dubbio: non mi ricordavo che Gwen Stacey fosse così svampita; o sbaglio?)
Molti, infine, si sono detti infastiditi dal patriotitsmo a buon mercato della scena in cui Spidey appare di fronte a una sventolante bandiera americana. Ma, a pensarci bene, il film ha un messaggio politico evidente ed è di segno opposto rispetto a quello individuato dai suoi critici. Vediamo infatti Spidey che, spinto dal desiderio di vendetta, indossa un costume nero, diventa violento, si fa odiare da tutti. Quando si rende conto di avere fatto del male a degli innocenti e offre amicizia a quelli che prima aveva combattuto, ritrova i suoi veri colori e vince. E’ a quel punto che appare la bandiera, e a me sembra più che altro un trasparente auspicio che gli USA ritrovino se stessi, uscendo dall’arroccamento in cui ultimamente si sono rifugiati. Tutto il film, del resto, è un inno al perdono e al dialogo, quantomai raro in un genere cinematografico che spesso premia la vendetta e la violenza.
Concludendo: mi sono molto divertito e non mi sono annoiato un attimo. Questa serie resta beneficata da un casting assolutamente perfetto, e Tobey Maguire secondo me è davvero bravo nel rendere i lati caricaturali del suo personaggio senza farlo scadere in macchietta. Gli effetti speciali sono splendidi, l’azione è serrata, e il tutto si segue senza sforzo. Sam Raimi, poi ci mette dentro alcune scene davvero belle. A parte l’inquadratura giustamente già celeberrima dello Spiderman-gargoyle che vedete in figura, credo che la scena della nascita dell’Uomo Sabbia sia autentica poesia visiva, forse un po’ debitrice dell Hulk di Ang Lee, ma comunque ci ricorda che dietro la macchina da presa non c’è solo un professionista ma anche un artista.
Mentre entravo al cinema un ragazzino di circa otto anni mi ha guardato con aria incredula e mi ha detto con aria schifata: "Ma davvero ti piace Spiderman?!" Cosa devo dire, mi è piaciuto davvero. Secondo me potete andarci, come ha fatto mezzo mondo, e non rimpiangerete i soldi del biglietto.

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Film: Sunshine

SunshineL’astronave Icarus 2 è in viaggio verso il Sole, con l’incarico di sganciare una bomba di eccezionale potenza che dovrebbe riattivarne le funzioni; la nostra stella, infatti, è in declino e sta lasciando la Terra in preda al gelo. La missione è gravata da una terribile responsabilità: già un precedente tentativo è fallito, e non sarà più possibile costruire altre bombe. Per giunta nel momento cruciale gli uomini saranno abbandonati a se stessi, visto che le radiazioni solari impediranno le comunicazioni con la Terra.
Dopo aver affrontato l’horror in 28 giorni dopo, questa volta Danny Boyle si cimenta con la fantascienza, sempre prendendo a prestito modelli del cinema preesistenti per adattarli al suo personalissimo stile. Qui il modello dominante è inarrivabile, visto che la Icarus 2 è evidentemente figlia della Discovery di 2001: Odissea nello spazio, film di cui Sunshine cita in modo letterale alcuni episodi (per esempio il salto senza tuta da un’astronave all’altra). Altre fonti evidenti sono le serre spaziali di 2002: La seconda odissea e i videomessaggi di Dark Star. Ma identificarle tutte è un gioco che potrebbe andare avanti all’infinito.
Alcune delle premesse scientifiche di base del film lasciano molto a desiderare. Per cominciare, è del tutto inverosimile che una bomba a fissione, persino se contenesse tutto l’uranio della Terra, potrebbe avere effetti percettibile sul Sole, le cui energie sono di un ordine di grandezza decisamente superiore. Inoltre la sceneggiatura del film sembra assumere che si possa arrivare a 20 milioni di chilometri dal sole, entrare in orbita facendo una piccola correzione di rotta, e rimanere lì indefinitamente. Non è così: salvo motori estremamente potenti (e una decelerazione violentissima che causerebbe seri problemi ai passeggeri), qualunque cosa arrivi così vicino al Sole è destinata o a caderci dentro, oppure a sfiorarlo per poi allontanarsi rapidamente (come fanno le comete). In effetti, con queste premesse, mi aspettavo un film raffazzonato basato sulla pura azione. Invece, niente di tutto questo. Sunshine si fa rapidamente perdonare questi peccati con l’idea dell’astronave che deve rimanere nascosta dietro uno schermo per evitare di essere bruciata dal Sole, cinematograficamente molto originale e resa con rigore e realismo.
L’ambientazione fantascientifica non modifica lo stile di Boyle, che qui resta vicinissimo al suo primo film, Piccoli omicidi tra amici. Personaggi tratteggiati in modo stilizzatissimo ma efficace, dialoghi secchi senza nessuno spazio per lunghe spiegazioni o tirate retoriche, ritmo che inizia con una certa lentezza e continua a salire senza mai fare un passo indietro, prendendo lo spettatore nel vortice della tensione. Posto al bivio tra la realizzazione di un film d’azione e uno filosofico, il regista inglese sceglie di fare entrambe le cose. Da un lato, basando tutta la costruzione del film sulla suspence, come se fosse una nuova puntata di Alien. Dall’altro, non trattenendosi dall’introdurre tematiche importanti e continuando a sottolinearle anche a livello visivo.
Il tema centrale è quello della fascinazione per il Sole, che dà la vita ma può anche distruggerla, da cui discende il dualismo del rapporto degli uomini con la Natura, segnato dal desiderio di dominarla tramite la scienza, ma anche dalla pulsione ad arrendersi ai suoi ritmi. Boyle non esita ad abbondare con le simbologie, dall’osservatorio solare realizzato come un tempio ai corpi degli uomini che ritornano cenere.
Operazione riuscita? Solo a metà. Se il regista fosse riuscito a creare un film d’azione avvincente e contemporaneamente ad affrontare temi così elevati, avrebbe creato un capolavoro della fantascienza. Nel finale, invece, qualche nodo viene al pettine: dal punto di vista dell’azione, il montaggio diventa talmente concitato che negli ultimi minuti si ha qualche difficoltà a seguire la vicenda. Mentre dal punto di vista simbolico il messaggio risulta a volte non sufficientemente approfondito (cosa rappresenterà, per esempio, la piantina che si ostina a crescere nel giardino distrutto da un incendio?).
In ogni caso, con tutti i suoi difetti, Sunshine risulta uno dei migliori film di fantascienza “pura” dell’ultimo decennio. Molto più coinvolgente di tanti altri, e con ambizioni che, seppure non totalmente realizzate, meritano una visione. Lo aiutano un cast di attori non-divi (tranne la sottoutilizzata Michelle Yeoh) ma bene in parte, e un’evocativa colonna sonora degli Underworld, efficacissimo contrappunto alle immagini. Ce ne fossero, di film così.

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Libro: Le dame di Grace Adieu

Le dame di Grace AdieuNon avevo intenzione di comprare questo libro, perché sono un po’ diffidente verso le "code" di romanzi di successo. Tempo fa mi hanno regalato Natale in Silver Street di Michael Faber, e ci ho trovato alcuni racconti carini, ma nulla che mi dicesse qualcosa di più rispetto a quanto avevo letto in Il petalo cremisi e il bianco. Allo stesso modo, voci fidate mi hanno detto che La collina dei ricordi nulla aggiunge a La collina dei conigli di Richard Adams. Quindi ritenevo che anche di questo Le dame di Grace Adieu, raccolta di racconti ambientati nello stesso universo fantastico di Jonathan Strange e il signor Norrell, avesse poco da dirmi. Fortunatamente però ne ho trovato una copia a metà prezzo sui banchi del Libraccio subito dopo aver finito Jonathan Strange, e ho deciso il Destino voleva che lo leggessi.
In effetti Le dame di Grace Adieu è un gran bel libro, che si può leggere con piacere anche senza aver letto il suo antecedente, ma che sicuramente verrà goduto in particolare da chi invece lo ha letto e apprezzato. Susanna Clarke qui si rivela una scrittrice molto versatile, dato che ogni racconto è scritto in uno stile completamente diverso. Solo uno è direttamente collegato a Jonathan Strange, altri sono ambientati in epoche completamente diverse, simili a fiabe o a cronache medioevali. C’è anche un racconto in cui il mondo fantastico della Clarke entra in comunicazione con quello di Stardust di Neil Gaiman, e ho persino colto una citazione dai fumetti di Superman (vedremo se qualcun altro la coglierà: è per solutori più che abili!).
L’antologia ha anche dissipato alcuni miei dubbi sulla Clarke. Il suo romanzo, come potete leggere, mi è piaciuto moltissimo, ma mi era rimasto qualche dubbio sul messaggio che l’autrice voleva trasmettere. In particolare, questo insistere sull’inglesità della magia mi era parso un po’ un indizio di quel passatismo nostalgico che alligna in molti autori fantasy. Temevo, insomma, che andando a grattare si trovasse il solito passato mitizzato in cui tutto andava bene perché gli esseri umani non avevano grilli per la testa. Ma non si può certo dire questo dei racconti di Grace Adieu, in cui tra l’altro c’è un interessante rovesciamento: se Jonathan Strange era un romanzo quasi tutto al maschile, qui le donne sono protagoniste e si prendono un bel po’ di rivincite.
Comunque sia, una lettura consigliata.

Questo post appare anche su Il Leggio.

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