Cagnoloni bonsai

Sta circolando per i blog l’invito a firmare una indignata petizione per protestare contro un artista, tale Guillermo Habacuc Vargas, che avrebbe esposto un cane legato accanto a montagne di cibo per cani, e come performance artistica lo avrebbe lasciato morire di fame in pubblico.

Io ho fatto qualche ricerca su Google su questo Vargas, e ho trovato centinaia di post indignati che segnalano la petizione. Tuttavia, l’unica fonte di prima mano che riporta la notizia è un blog nicaraguense, che contiene alcune foto dell’esposizione. Tutti gli altri blog non fanno altro che riportare questa unica notizia.

Andando a guardare meglio, si trova un altro blog la cui autrice dice di avere chiesto informazioni alla galleria d’arte che ha ospitato la mostra. A quanto pare, il direttore sosterrebbe che il cane appariva denutrito in quanto era un randagio preso pochi minuti prima dalla strada, ma è stato regolarmente nutrito, ed è rimasto legato senza cibo solo per le tre ore destinate alla performance.

Insomma, a me questa sembra la classica bufala come quella dei gattini bonsai. Magari questa volta non è uno scherzo, ma è sicuramente molto rumore per nulla. Possibile che la gente non impari mai? E possibile che molta più gente scatti per un cane maltrattato che non per un dissidente imprigionato?

Film: Michael Clayton

Michael CLaytonMichael Clayton è un avvocato specializzato nell’aggiustare a forza di trucchi e corruzione quelle situazioni che non offrono buone possibilità di essere risolte per via legale. Michael si trova in cattive acque finanziarie e, quando un socio dello studio legale ha una crisi personale e minaccia di rivelare che i cinici intrallazzi dell’azienda chimica sua cliente hanno causato dei morti che si potevano evitare, si trova a dover scegliere tra l’amicizia e la carriera.
Dopo aver visto questo film, sono rimasto sorpreso che sia stato accolto in modo così tiepido. E’ vero, racconta una storia già vista molte volte, e la trama è piuttosto lineare, senza particolari invenzioni. E c’è persino un classico lieto fine per dare il contentino allo spettatore. Trovo però che Michael Clayton (che titolo insulso, però!) si distingua nettamente dalla massa per la grandissima cura nello sviluppo dei caratteri e l’asettico cinismo con cui li tratta. In questo film non ci sono buoni da amare né cattivi da odiare.Il protagonista alla fine si schiera dalla parte giusta, ma per tutto il film è indeciso sul da farsi, e capiamo bene che se avessero saputo prenderlo dalla parte giusta avrebbe potuto fare la scelta opposta. La manager che ordina gli omicidi è quasi una vittima, costretta a calarsi in un ruolo di vincente spietata che prova ogni giorno davanti allo specchio, ma in realtà colta dalla nausea al pensiero di ciò che ha fatto. Persino i killer, nonostante la clinica spietatezza dimostrata, sembrano solo due travet del crimine che preferirebbero trovarsi da un’altra parte. Insomma, quello che si percepisce in Michael Clayton è la forza di un meccanismo infernale che trascina tutti a vendere l’anima contro la propria volontà. Risultato ottenuto con una scrittura antiretorica. Persino il personaggio del figlio di Michael, che in quasi ogni altro film sarebbe stata l’occasione per somministrare un concentrato di melassa, acquista invece una propria personalità autonoma. L’esordiente regista Tony Gilroy non solo esibisce una grande perizia tecnica, ma ha ilcoraggio di inserire el film insoliti simbolismi. Come il romanzo fantasy di serie Z per cui ifigli di Michael ha una sviscerata passione, e che appare in tutti i momenti topici del film a cambiare il destino dei personaggi. Sembra quasi che l’autore voglia suggerire che certi ideali tanto triti e consunti da non risultare più credibili per nessuno sono però l’unica cosa che ci può ancora salvare dall’inarrestabile ingranaggio del mercato. Da vedere.

Libro: La casta dei giornali

Peccato che l’editore Baraghini abbia voluto dare a questo libro un titolo che sembra andare a rimorchio del ben più famoso La casta di Rizzo e Stella. Infatti questo non è affatot un instant-book per lucrare sul successo altrui. È invece un’inchiesta davvero seria e documentata su un problema di fondamentale importanza per la nostra democrazia, e cioè il cattivo uso che si fa dei finanziamenti a favore della stampa.
Possiamo riassumere così, in breve i dati riportati e le tesi espresse:

  • L’ammontare delle sovvenzioni alla stampa in Italia è impressionante: sommando i contributi diretti e quelli indiretti si arriva alla spaventosa cifra di oltre 700 milioni di euro annui.
  • Buona parte dei contributi diretti sono erogati a soggetti che non avrebbero alcun motivo per riceverli, ma sfruttano inghippi legislativi, sanatorie, false dichiarazioni per attingere perpetuamente alle casse dello Stato, spesso producendo testate che hanno una diffusione ridicola, quando addirittura non vanno direttamente al macero.
  • E tuttavia, mentre lo scandalo si è spesso appuntato su tali percettori di contributi diretti, in particolare quotidiani politici di movimenti spesso fittizi o defunti, una quantità molto maggiore di fondi viene erogata ai grandi quotidiani sotto forma di contributi indiretti (crediti di imposta sull’acquisto di carta, sconti sulle tariffe postali e telefoniche ecc…). Il risultato è che i grandi gruppi editoriali realizzano enormi utili a spese dei contribuenti, senza avere alcun incentivo a migliorare i propri prodotti in modo che vendano di più.
  • In questo modo la dipendenza dal potere delle grandi testate è fortissima, e  il numero dilettori rimane basso. Per giunta i grandi gruppi editoriali assistiti acquistano così indebitamente la forza di colonizzare o spazzare via qualsiasi realtà alternativa.
  • Il sistema è talmente perverso da far sì che non ci sia quasi nessuno che non partecipi in qualche modo delle elargizioni e non sia perciò interessato a mantenere una cappa di silenzio sui finanziamenti.
  • Il governo Prodi ha fatto qualche tentativo per migliorare la situazione. Ma (come in quasi tutto quello che fa, del resto) sono stati tentativi incerti, poco efficaci e suscettibili di essere presto annullati nei loro effetti.

Questo è quanto. Il libro non è proprio una lettura amena, essendo in gran parte occupato da sfilze di dati, numeri, leggi. In effetti la sua impostazione è un po’ vecchiotta: avrei preferito un testo più agile e delle tabelle riassuntive, meglio consultabili, per i dati. Inoltre la struttura ridondante fa sì che le stesse cose vengano ripetute più volte in punti diversi del libro, il che favorisce la chiarezza, ma può risultare parecchio noioso. Tuttavia si tratta di un’inchiesta davvero completa, che prende in esame ogni singolo aspetto del problema, e dà un’immagine assolutamente desolante del sistema Italia. Infatti, il sistema delle sovvenzioni alla stampa è un perfetto specchio di come viene ammnistrato il Paese, con leggi nate per motivi giusti che vengono piegate a fini ignobili, imbrogli palesi che vengono sanati per motivi politici, e una generale connivenza che fa sì che tutti in qualche modo partecipino alla spartizione e non abbiano interesse a cambiare le cose, nemmeno quando la situazione è diventata talmente grave che il meccanismo si corrode dall’interno.

Qualcuno mi chiederà: ma tu non dicevi, qualche tempo fa, che eri contrario all’abolizione delle sovvenzioni? In effetti lo sono tuttora. Io penso che on ci sia nulla di male, in sé,  nelle sovvenzioni. Il problema è come vengono erogate. Dovrebbero servire ad aiutare entità politiche effettivamente esistenti a esprimere le proprie idee e, soprattutto, a facilitare la nascita di nuove imprese in un regime di concorrenza. Come sono ora, servono a foraggiare una casta di portaborse e intriganti e, soprattutto, a mantenere in piedi aziende sclerotizzate e ingessate. Bisogna dire però che la lettura del libro ha notevolmente aumentato il mio scetticismo sulla effettiva praticabilità di una riforma virtuosa del sistema, stante l’attuale sistema politico.
Da leggere se vi sentite troppo allegri.

Non avrete il mio euro!

Dopodomani si vota per le primarie del Partito Democratico, ma ho deciso che non parteciperò alle votazioni.
Non è stata una decisione facile. L’idea del Partito Democratico mi vedeva una volta tra i suoi più convinti sostenitori. Sembrava assolutamente logico che, visti i grandi cambiamenti nel sistema politico italiano, e visto che un gran numero di elettori si riconosce in una coalizione di centrosinistra, si creasse un grande cantiere che stabilisse alcuni principi di fondo in cui tutti si potessero riconoscere e alcuni obiettivi comuni da raggiungere. All’interno di questa "cornice", si sarebbe potuto dibattere liberamente, senza posizioni precostituite e lasciando spazio anche a voci che non provenissero dalle vecchie strutture dei partiti.
Un bel sogno, forse. Certo, qualcosa che non ha nulla a che vedere con la realtà del Partito Democratico oggi.
In primo luogo, il PD che sta nascendo non rappresenta affatto tutta l’area della coalizione di centrosinistra, ma solo la fusione di due delle sue componenti principali, lasciano fuori la sinistra vera e propria. Le responsabilità di questo sono molte, ma è un fatto, ed è già grave.
A questo si aggiunge il fatto che queste primarie sono state concepite in modo tale da rendere impossibile un confronto tra posizioni autenticamente diverse. Nelle primarie dei democratici americani ci sono enormi differenze tra i candidati, nessuno può assimilare un Jesse Jackson a un John Kerry, tanto per dire. nelle primarie del PD, al di là dell’appartenenza a diverse cordate personalistiche, è piuttosto difficile dire quali siano le differenze tra le posizioni dei principali candidati. Anche perché, tanto più un candidato è forte, tanto più si ingegna per mantenere le mani libere, evitando di impegnarsi su qualsiasi questione seria. Il regolamento delle primarie è stato concepito in modo tale che nessun candidato autenticamente alternativo ha avuto la possibilità di presentarsi. Possiamo scegliere tra Veltroni, il vincitore obbligato; un paio di democristiani; e una coppia di outsider che non impensieriscono nessuno e sono stati messi lì solo per dare un’illusione di partecipazione.
Se andiamo ad analizzare le dichiarazioni dei candidati alla segreteria nel loro insieme, ne risulta un vuoto desolante. Dal punto di vista ideologico, non esiste più alcun riferimento. Si naviga a vista verso un generico "nuovo", tanto che l’ex-candidato Schetitni ha potuto in tutta serietà proporre come figura di riferimento per il nuovo partito il capitano Kirk di Star Trek. Dal punto di vista programmatico, le cose non vanno meglio. Tra tutti i candidati, nessuno osa proporre qualcosa, non dico di rivoluzionario, ma anche solo di innovativo per risollevare il nostro Paese. Tutti si limitano a proporre piccole correzioni e aggiustamenti, che danno ben poca fiducia di poter cambiare significativamente il corso delle cose.
Essendo questa la situazione, non riesco proprio a vedere perché dovrei andare a donare un euro e, cosa molto più importante, la mia benedizione a un partito come questo. Sarei felice di poter votare un candidato di minoranza, se potessi riconoscermi almeno in parte in lui. Ma questo quintetto non ha saputo esprimere nulla del genere. E ha fatto ben poco per rassicurarmi sul fatto che su tutti i temi che io considero importanti il futuro partito prenderà posizioni che potrò condividere.
Se sarò costretto a scegliere tra questo PD e una destra che non ha fatto nulla per migliorare, lo voterò: si sceglie sempre il male minore. Ma in questo caso non sono costretto a scegliere, e non intendo dare la mia approvazione a un partito che sembra nascere già morto. Io sperò che domenica si presentino alle urne in pochi.  Mi rendo conto che si rischia, e che un PD nato male creerà ulteriori tensioni politiche che rafforzeranno la destra. Ma non si può approvare sempre tutto a causa dello spauracchio di Berlusconi. Io spero in un segnale d’allarme che faccia capire che di questo PD ce ne facciamo ben poco.

Film: I Simpson – Il film

Questo è un caso in cui il critico ha ben poco da dire. il film dei Simpson, in definitiva, non è altro che un episodio dei Simpson di durata doppia. C’è una grafica particolarmente curata, con qualche effetto tridimensionale, ma niente di davvero "diverso". E si vede il pistolino di Bart, cosa che immagino non sia possibile in TV. La sceneggiatura non comprende nessun evento "epocale" (d’accordo, come sempre accadono varie catastrofi, ma non muore alcun personaggio e non ne vengono introdotti di particolarmente interessanti).
Tuttavia un "normale" episodio dei Simpson è comunque già una gran cosa, spriitoso, arguto e divertente. E infatti ho apprezzato la satira e ho riso per ogni singolo minuto del film senza annoiarmi, nonostante la sceneggiatura divaghi parecchio.
Insomma, se ci si aspetta un film che dica qualcosa di nuovo, è un’occasione perduta. Se ci si aspetta quello che già apprezziamo in TV, solo in dose più massiccia, è esattamente quello che si ottiene, in tutta la sua gloria. A me è bastato.

Disco: Nil Recurring

NilRecurringTra le tante cose che apprezzo dei Porcupine Tree c’è anche il grande numero di brani prodotti al di fuori degli album veri e propri. Anche e soprattutto perché si tratta spesso di pezzi rimasti esclusi dalla pubblicazione per problemi di affinità tematica o musicale, ma che di per loro sono di qualità del tutto paragonabile a quella dei brani inclusi. Inoltre i PT hanno l’abitudine di suonare questi brani anche dal vivo in concerto, senza escluderli a causa della ridotta esposizione al pubblico; e questo è un ulteriore stimolo ad andarseli a cercare.
Ora i PT hanno pubblicato un minialbum con quattro brani registrati duranti la produzione di Fear of a Blank Planet, per una durata complessiva di mezz’ora. L’ho ordinato e ricevuto, e ne sono rimasto pienamente soddisfatto.
La title-track, Nil Recurring, è uno strumentale con la partecipazione di Robert Fripp alla chitarra solista. Stilisticamente ricorda un incrocio tra In Absentia (forse il miglior disco dei PT) e il Fripp degli ultimi ProjeKCts. Il contributo frippiano è decisamente più interessante rispetto all’ormai scontata frippertronics fornita nell’album vero e proprio, e in generale il brano può confrontarsi con i migliori strumentali della band.
Il brano successivo, Normal, è la perla del mini album. Tiratissimo e sostenuto da un velocissimo arpeggio di chitarra acustica (un inedito per Steven Wilson), regge il confronto con i migliori pezzi di In Absentia, e fa capire che l’unico motivo per cui questi brani sono stati tenuti da parte è lo stile troppo poco innovativo rispetto al passato, non certo la scarsa ispirazione.
Il terzo brano, Cheating the Poligraph, è cofirmato da Gavin Harrison, e probabilmente è nato da una sua improvvisazione alla batteria. È molto interessante dal punto di vista ritmico, ma forse un po’ divagante. Il sound ricorda quello di Deadwing.
Chiude il minialbum What Happens Now?, un brano decisamente atipico. Lungo più di otto minuti, rimanda al periodo più pop e melodico dei PT ma, più ancora, a una delle altre band di Steven Wilson, i No-Man. Non solo per l’insolito loop di percussioni, ma più ancora per la presenza del violino elettrico di Ben Coleman, che dei No-Man fu membro.
In conclusione, mezz’ora di ottima musica, forse meno innovativa di quella contenuta in Fear of a Blank Planet, ma anche più accessibile. Mi sentirei di consigliarla non solo ai fan dei Porcupine Tree (per i quali è imprescindibile), ma anche a chi non ha mai ascoltato la band e vuole farsene un’idea a poco prezzo (sto scherzando: lo so che per quello ci si può scaricare la discografia completa su eMule). Però il disco è in edizione limitata e già esaurito. Potrete trovarlo in vendita ai prossimi concerti della band.

"Solo" 17 anni

Leggo che c’è chi dice che l’ex brigatista arrestato a Siena per rapina abbia ricevuto i benefici troppo presto, dopo "solo" 17 anni. Sinceramente mi sembrano dichiarazioni prive di senso. diciassette anni sono un periodo di tempo lunghissimo, in particolare se privati della libertà. Non ha senso dire che sono troppo pochi: se una persona non cambia in 17 anni, allora non sono sufficienti neppure 25 o 50.
Bisognerebbe capire una volta per tutte che, se si parte dal principio che la pena deve riabilitare il condannato, allora bisogna concedergli una possibilità dopo un ragionevole periodo di buona condotta. E, se si decide che questa possibilità va concessa, allora ci saranno sempre dei casi in cui la fiducia si rivela malriposta. I magistrati non possono entrare nella testa delle persone, non si può evitare che un carcerato che all’interno del carcere si è comportata bene decida ditornare a delinquere una volta fuori. E’ semplicemente un rischio che bisogna correre e accettare, se si vuole dare ai condannati la possibilità di redimersi.
Oppure decidiamo che non vogliamo fidarci, e che non ci devono essere benefici e sconti di pena per nessuno. Ma allora diciamolo chiaramente, ed evitiamo questi discorsi del troppo e del poco, che non hanno alcun senso.

I am back to save the universe

RadioheadFino a ieri la notizia era: i Radiohead stanno registrando un album senza avere un contratto con una casa discografica. Oggi la notizia è che continueranno a farne a meno.
Chi si reca sul sito della band può prenotarsi per ottenere il disco direttamente, secondo due modalità alternative.
Se siete dei fan sfegatati o degli audiofili persi, pagando circa 58 € si ottiene il diritto a scaricare i file del nuovo album, e a ricevere successivamente a casa, tra un paio di mesi, il cosiddetto discbox, cioè una confezione contenente il CD-Audio del nuovo album, un secondo CD-Audio contenente altri brani inediti e immagini, e una seconda versione dell’album su doppio vinile.
Ma ora viene il bello. Se vi accontentate di scaricare i file dal sito, potete farlo al modico costo di… quello che volete. Proprio così, l’offerta è libera. Potete remunerare l’artista con la cifra che potete permettervi e vi sembra opportuna.
A me questa sembra una mossa rivoluzionaria, ben al di là degli incerti tentativi di autopromozione o marketing virale portati avanti da altri musicisti. Qui i Radiohead stanno dicendo, senza possibilità di equivoco, che la loro musica è di tutti, che chiunque può usufruirne senza problemi. E c’è da scommettere che sarà una mossa vincente e che tra contributi liberi, discbox e concerti incasseranno molto più di quanto avrebbero ottenuto affidandosi alla distribuzione di una casa discografica, piccola o grande che sia. Poi dicono che i musicisti rock non possono cambiare il mondo.
(Unico neo: non hanno indicato in che formato saranno i file da scaricare. Ma scommetto che ci sarà ampia scelta.)

Qualche giorno fa ho intervistato al telefono un vecchio arnese del rock’n’roll come Francis Rossi degli Status Quo. Mi ha detto: “Se le case discografiche sono in declino è perché hanno guadagnato troppi soldi. Gira troppo denaro, c’è gente che pretende di girare il mondo in jet e trovare ad aspettarlo in ogni città il suo cibo preferito, il suo drink preferito e una prostituta a disposizione. Mentre i giovani artisti hanno sempre meno occasioni. È necessario trovare un diverso equilibrio.” Come dirlo meglio?

(Questo post l’avevo scritto per Macchianera, solo che un problema tecnico mi ha impedito di inviarlo laggiù. Ora l’ho fatto, in maniera leggermente più meditata.)