Libro: Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo

Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondoMi sono fatto mandare questo libro per lavoro, in quanto avevo bisogno di recensirne alcuni che fossero in qualche modo collegati con l’autunno o con il vino, e da una ricerca su IBS è uscito il suo titolo. Si è fatto attendere (grazie alle Poste che se ne sono persa una copia) e intanto ho potuto accorgermi delfatto che si tratta di un libro alla moda, consigliato da D’Orrico sul Corriere. E qui ho cominciato a temere seriamente la sòla, in primo luogo perché il critico non è nuovo al propagandare libri discutibili, ma soprattutto perché, come da fascetta nelle librerie, ha definito l’autore come "il Philip Roth italiano". Il che mi fa venire i brividi. Perché di Philip Roth italiano ne abbiamo già avuto uno di recente (Alessandro Piperno, il cui libro a mio avviso non è niente di che). E poi perché espressioni come "l’Ellroy italiano", "il DeLillo italiano" sono di solito garanzia di un libro tutta apparenza e niente sostanza. Ebbene, per una volta i miei timori non erano fondati: Storia controversa… è un libro molto godibile e, soprattutto niente affatto pretenzioso.

Il protagonista è Riccardo, un antropologo fallito che vive alle spalle della moglie, che però lo cornifica. In cerca di riscatto, incontra un vecchio compagno di scuola, che è diventato uno degli uomini più ricchi d’Italia, ma ha un cruccio: un conte squattrinato ma fascinoso gli ha appiccicato addosso l’etichetta di "principe dei cafoni". Per vendicarsi vuole ad ogni costo riuscire a far sì che il vino Aglianico che produce risulti migliore di quello prodotto dal conte. E Riccardo, guarda caso, ha la possibilità di aiutarlo…

Storia controversa… è scritto con uno stile solido e piacevole, frasi lunghissime e attentamente calibrate che tuttavia mantengono la naturalezza della colloquialità. Ed è, soprattutto, un libro divertente, che strappa il sorriso e spesso anche la risata vera e propria, spargendo a piene mani su tutti i suoi personaggi indistintamente un allegro e distruttivo cinismo. Forse questa sua imparzialità è un po’ anche il suo limite: la sua rappresentazione dell’Italia come Paese in cui ogni cosa si riduce da sempre al conflitto tra ladri ricchi e ladri poveri è un po’ riduttiva, anche se notevolmente efficace. Comunque sia, il libro si legge con piacere, direi addirittura che si divora, grazie a tanti personaggi perfettamente riusciti e a una struttura sapiente che gestisce con leggerezza anche numerosi flashback in diverse epoche storiche. A volergli trovare un difetto, forse il finale risulta un tantino deludente. Dopo un così grande lavorio per ricostruire nei secoli l’ascendenza dei personaggi principali, ci si aspetterebbe un’apoteosi conclusiva, invece tutto finisce in modo rapido e poco appariscente. Inoltre il tema della vendetta attraverso i secoli appare poco sviluppato e, in definitiva, in contraddizione con lo spirito di fondo dell’opera, che con la giustizia non ha nulla a che spartire. Ma sono dettagli: è un libro riuscito e ottimo da portare sotto l’ombrellone. Anche se non è Philip Roth (o forse proprio per questo).

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Libro: Dalla parte del torto

Dalla parte del tortoLa cosa che impressiona favorevolmente in questo libro è la ricerca stilistica, che è indubbiamente notevole. I modelli sono elevati (si comincia citando Tolstoj, tanto per mettere le cose in chiaro), e c’è un apprezzabile tentativo di creare una scrittura allo stesso tempo densa e rapida. Purtroppo, proprio perché i mezzi dell’autrice appaiono ben sviluppati, a maggior ragione si rimane rapidamente delusi scoprendo che la storia gialla che viene raccontata ha pochissimi rapporti con la realtà, la logica e il buon senso.
La stessa autrice sente il bisogno di giustificarsi con una nota finale in cui dichiara che la "trasposizione surreale di personaggi e procedure" è "frutto della necessità di raccontare questa storia". Ma è una giustificazione che non regge. Il surreale, per esistere, ha bisogno di una realtà solida da cui potersi distaccare. La realtà costruita dalla Bucciarelli, invece, scricchiola e traballa a ogni pagina. La sola cosa che "tiene" bene è la descrizione di quella società "fighetta" e snob che ruota intorno al mondo dell’arte milanese, che è molto convincente è che probabilmente è l’unico argomento che preme davvero all’autrice. Il resto è pura invenzione. Per fare qualche esempio, le indagini vengono gestite da una poliziotta che ha un grado da sottufficiale di basso rango (ispettore capo), ma invece si sposta in elicottero destando timore reverenziale negli inferiori. Come collaboratori non usa poliziotti, ma quattro civili amici suoi, una copywriter, un pittore, un fotografo e un direttore d’orchestra, che si occupano di tutto, compresi interrogatori e pedinamenti (e, a parte l’assoluta illegalità e irrealtà di tutto questo, non si capisce come possano svolgere i loro lavori ufficiali se sono impegnati giorno e notte a indagare gratis). Se fosse solo questo, lo si potrebbe ancora tollerare, di investigatori bizzarri ce ne sono molti nella storia del giallo. Il problema è che tutto il resto è altrettanto incongruo, persino le reazioni emotive delle persone sono spesso incomprensibili o fuori misura, e i loro atti a volte totalmente privi di una motivazione logica.
Concludendo: va bene lo stile, ma anche in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, che è il modello di stile per eccellenza, la storia gialla c’è e le motivazioni dei personaggi sono reali e tangibili. In Dalla parte del torto, invece, tutto sembra messo lì unicamente per permettere all’autrice di fare sfoggio di arguzia e dipanare le sue teorie sull’universo. Mi spiace, ma non funziona proprio.

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Libro: Harry Potter and the Deathly Hallows

Harry Potter and the Deathly HallowsAvvertenza: Niente paura: anche se ormai gli spoiler non si contano, in questa recensione farò in modo di rimanere sul vago e non svelare alcun dettaglio importante. Certo, se proprio volete rimanere a mente vergine al 100%, o se non avete letto nemmeno tutti i romanzi precedenti della serie, è meglio che non la leggiate comunque.

Ho avidamente letto l’ultimo volume della saga di Harry Potter, e credo di poter dire con sicurezza che J. K. Rowling è riuscita a dare una degna conclusione alla serie. Dirò di più: pur non essendo esente da difetti, Harry Potter and the Deathly Hallows è probablmente il suo libro più avvincente e uno dei meglio costruiti. L’autrice è riuscita nel difficile compito di creare un’opera profondamente diversa dalle sei precedenti, senza però snaturare l’atmosfera della serie. Ed è riuscita, compito ancora più difficile, a risultare sorprendente senza contraddire le aspettative dei lettori (e camminava su un terreno minato, perché gli indizi che rivelavano quanto sarebbe successo erano numerosi).
La principale differenza tra The Deathly Hallows e il resto della saga è che si svolge quasi del tutto fuori da Hogwarts. Niente più lezioni, partite di Quidditch o rivalità tra le Case, e nessun momento di tranquillità: Harry Potter è braccato, rischia la vita ogni minuto, e l’azione comincia dal primo capitolo per non fermarsi praticamente mai. E la lotta è all’ultimo sangue: se ciascuno dei tre libri precedenti era segnato da una morte importante, qui vediamo cadere oltre mezza dozzina di personaggi cui il lettore può essersi affezionato. Del romanzo per bambini non è rimasto quasi più nulla.
Anche dal punto di vista psicologico, il libro non è meno duro. Non solo Harry è sottoposto a pressioni tremende, ma si trova costretto a mettere in discussione alcuni dei legami più profondi della sua vita. Del resto, il giovane mago si trova privo della sua guida, Albus Dumbledore, morto in Harry Potter and the Half-Blood Prince. Ed è proprio Dumbledore il vero coprotagonista di The Deathly Hallows: analizzato retrospettivamente, perde la sua aura di infallibilità e diventa un personaggio umano con contraddizioni e manchevolezze, segnando così il definitivo passaggio di Harry all’età adulta.
La trama è straordinariamente complessa. Per distogliere l’attenzione del lettore da quegli elementi che solo in fondo al libro potevano essere svelati, la Rowling ha inserito abbastanza misteri da bastare per almeno due libri “normali” della serie. È comunque evidente come la saga sia stata progettata in modo completo fin dall’inizio: nella trama hanno una funzione essenziale indizi e personaggi minori che risalgono addirittura al primo libro. Se la vostra memoria non è buona, una rilettura integrale dell’intero sestetto precedente prima di affrontare quest’ultimo volume potrebbe essere consigliabile.
Il risultato: direi ottimo. The Deathly Hallows non annoia e non dà mai l’impressione (a differenza dei libri centrali della serie) che ci siano capitoli superflui. È terribilmente avvincente, e conclude la serie in modo soddisfacente, senza forzature e con un bel po’ di sorprese.
Difetti? Ovviamente ce ne sono. Alcuni condivisi con l’intera saga. La scrittura della Rowling tende sempre un po’ al barocchismo e alla lungaggine. Inoltre personalmente ho un’idiosincrasia per i duelli magici troppo lunghi, che non trovo molto convincenti, né qui né altrove.
Per quanto riguarda questo libro in particolare, bisogna dire che la prima metà del libro è un po’ estenuante: Harry Potter brancola nel buio, commette alcuni errori colossali, i dubbi e i misteri si accumulano senza mai uno spiraglio di luce, e tutto comincia a sembrare un po’ troppo cupo e disperato. Fortunatamente, le pagine successive rimettono le cose a posto. Ma, soprattutto, in The Deathly Hallows la Rowling ha sacrificato la completezza all’efficacia narrativa. Ci sono alcune lungaggini in meno, ma alcuni particolari appaiono un po’ “tirati via”. Per esempio, c’è un oggetto che scompare e poi riappare senza che venga spiegato bene come ciò sia possibile. Ma soprattutto, ci sono alcuni personaggi molto importanti che muoiono in battaglia, in qualche caso addirittura fuori scena, e vengono messi da parte in poche righe, lasciando una certa sensazione di “vuoto” narrativo. Probabilmente il libro sarebbe risultato troppo pesante con l’aggiunta di altri capitoli con morti eroiche e struggenti compianti, però anche questa soluzione lascia a desiderare. Inoltre i più frivoli tra i lettori rimarranno con la curiosità di sapere cosa ne è stato di alcune relazioni sentimentali che si potevano intuire nei libri precedenti, e del cui destino il libro finale non si occupa. Comunque sia, il maggiore difetto di The Deathly Hallows è che finisce ed è l’ultimo. Le belle storie hanno una fine, e questa ne ha una davvero degna, però si resta male al pensiero che il divertimento è finito.

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Libro: Confine di Stato

Il libro narra, nascondendoli sotto trasparenti pseudonimi, vari eventi celebri della storia italiana tra gli anni ’50 e i ‘70: il caso Montesi, la morte di Enrico Mattei, l’attentato di piazza Fontana, la morte di Giangiacomo Feltrinelli, unendoli in un’unica trama, il cui filo conduttore è la figura di Andrea Sterling, un uomo violento, malvagio e dal passato oscuro, sempre in prima fila nelle trame occulte del nostro paese.

Questo libro di Simone Sarasso, apparso un anno fa per i tipi della piccola casa editrice Effequ, è stato poi rieditato da Marsilio per una distribuzione in grande stile, preceduto da osannanti recensioni. Mi aspettavo quindi un’opera importante, specie dato l’argomento affrontato. E invece quasi non so dove cominciare con le critiche, visto che di questo libro non salverei nulla, tranne forse la copertina.
Cominciamo col dire che l’autore compie una scelta ambigua riguardo al rapporto tra la narrazione e la realtà dei fatti. Molti dei personaggi principali hanno nomi di fantasia (per giunta a volte rubati ad altri contesti; per esempio l’equivalente di Mino Pecorelli si chiama Maurizio Merli, come l’attore), ma in loro sono riconoscibilissimi in ogni dettaglio personaggi veri, e sono mescolati a personaggi storici e ad altri totalmente inventati. Alcuni eventi rispettano scrupolosamente la storia, altri sono di fantasia. Il risultato è un miscuglio in cui non si riesce a separare la realtà dall’invenzione, e che non ha né l’autonomia di una narrazione che prende ispirazione dalla realtà ma se ne mantiene separata, né il rigore di un’opera che pretenda di raccontare fatti realmente accaduti. Contribuisce ad aumentare la confusione una serie di anacronismi e incongruenze. Si va dai piccoli dettagli (un display numerico a LED sulla bomba di piazza Fontana, in anticipo di almeno un decennio; un blindato Defender nello stesso periodo, più di vent’anni prima che i primi esemplari uscissero dalla fabbrica; una inesistente piazza Vittorio in centro a Milano) a grosse incongruenze come un gruppo di psichiatri con atteggiamenti “basagliani” nel 1947, a mio avviso del tutto al di fuori del loro tempo. Insomma, pur prendendo atto che l’autore si è sforzato di ricostruire atmosfere d’epoca, i risultati non sono adeguati.
Al di là di questo, quello che proprio non mi è andato giù in Confine di Stato è il suo protagonista assoluto, Andrea Sterling. La sua storia è nel contempo vaga e totalmente inverosimile. Rinchiuso in manicomio all’età di 8 anni per motivi imprecisati, non solo diventa adulto senza alcun ritardo mentale, ma riesce a ingannare gli psichiatri, che lo mettono in libertà ignari delle sue manie violente. Dopodiché va avanti commettendo efferatezze varie che rimangono inspiegabilmente impunite. Entra tranquillamente in Polizia, dalla quale poi, trasformato in una vera macchina per uccidere, passa ai servizi segreti deviati e a Stay Behind. Animato da un odio mortale nei confronti dei “rossi”, invincibile come Diabolik, è motivato unicamente dal piacere di uccidere. Ecco, l’ho scritto e non mi capacito. Questo personaggio, che sembrerebbe raffazzonato ed eccessivo anche in un fumetto di supereroi di serie B, dovrebbe secondo l’autore dirci qualcosa delle trame politico-terroristiche che hanno insanguinato l’Italia.
Confine di Stato non ha neppure alcunché di nuovo da dire sugli eventi di cui narra. Si limita a introdurre una buona dose di truculenze inverosimili all’interno di un contesto storico ampiamente noto, senza proporre teorie originali di una qualche plausibilità. Dal punto di vista sociologico non andiamo meglio. Tutta l’attenzione viene dedicata a questo “cattivo” bidimensionale e ai suoi accoliti. I mandanti rimangono nell’ombra, gli altri personaggi non sono che macchiette stereotipate. Per giunta la narrazione è frammentaria e inconcludente, con inutili intermezzi a base di droga o sesso violento.
In definitiva, non riesco a immaginare alcuna chiave di lettura che consenta di apprezzare questo romanzo. Tra l’altro, questa insistenza sulle imprese di Sterling, sempre coronate da successo, mentre tutti gli altri personaggi appaiono come imbelli, succubi, velleitari o al massimo figure tragiche, comunque destinate senza scampo alla morte, hanno il paradossale effetto di esaltare la figura del criminale. Non credo che questa fosse l’intenzione dell’autore, ma nel valutare un’opera bisogna guardare ai risultati.

Aggiungo un’ultima annotazione. Confine di Stato mi ha ricordato parecchio Nel nome di Ishmael, il romanzo di Giuseppe Genna uscito qualche anno fa ed esaltato da molti come un capolavoro (del resto lo stesso Sarasso, nei ringraziamenti, cita esplicitamente Genna come ispiratore). Anche Ishmael mi piacque pochissimo, e per difetti molto simili a quelli del romanzo di Sarasso: imprecisione nella ricostruzione storica, inverosimiglianze e, soprattutto, l’attribuire i mali dell’Italia a una sorta di invincibile incarnazione del Male metafisico: un punto di vista che non spiega nulla e che non può servire come punto di partenza per alcun discorso serio sui problemi del nostro Paese. La cosa che più mi lascia perplesso è che sia Sarasso, sia Genna si proclamano grandi ammiratori di James Ellroy. Ma hanno mai letto American Tabloid?! In quel grande romanzo le motivazioni dell’assassinio di Kennedy emergono con estrema chiarezza come il prodotto di un’intera società, con tutto il suo carico di contraddizioni, tensioni e delusioni. È un libro che parla più di un manuale di storia, senza scomodare onnipotenti internazionali destrorso-pedofile o assassini invincibili partoriti dal manicomio. Il problema è che in Italia basta dichiarare di essere il nuovo Ellroy, o il nuovo DeLillo, e si viene subito creduti, a prescindere da quello che effettivamente si scrive.

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E tu saprai che il mio nome è quello del Signore, quando farò calare la mia vendetta sopra di te!

BibbiaC’è chi propone di introdurre la Bibbia a scuola come libro di testo da studiare. Dato che la proposta è sostenuta a spada tratta da maniaci religiosi come Paola Binetti, mentre da sinistra si levano voci che la vedono come un’ulteriore minaccia alla già traballante laicità della nostra scuola, sembrerebbe ovvio come schierarsi.
Eppure, a me non sembra affatto una cattiva idea.
In primo luogo, è verissimo che la Bibbia è un testo fondamentale per la cultura occidentale. Ha plasmato in profondità la nostra storia e la nostra cultura. E conoscerlo un pochino meglio non sarebbe male. Tra l’altro, mentre nei paesi di cultura protestante la Bibbia si legge ed è conosciuta, il cattolicesimo ha sempre scoraggiato la lettura diretta del testo sacro, col risultato che se ne conoscono solo quei pezzettini accuratamente scelti che la Chiesa ha scelto di usare per la sua liturgia (o meglio, li conoscono quei pochi che sono andati in chiesa in qualche momento della loro vita, visto che in questo Paese di supercattolici a Messa non ci va più nessuno).
In secondo luogo, non credo neppure che si tratti di un pericolo per la laicità, perlomeno se il suo studio verrà affidato agli insegnanti normali, e non a quelli di religione. Mettiamo in mano una Bibbia allo studente, e invitiamolo a porsi delle domande. Chi l’ha scritta? Qual è il suo messaggio? Invitiamolo ad analizzarla come un’opera letteraria, non come la Parola di Dio. Facciamogliela leggere tutta, anche quei passi che ripugnano totalmente alla coscienza dell’uomo moderno, quelli che incitano alla violenza, allo schaivismo, allo sterminio del nemico, alla sottomissione delle donne. Io dubito che un’operazione simile farebbe male alla laicità.

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I gialli dei ragazzi

Nancy Drew - Il mistero del bungalowGli spartiacque generazionali sono tanti. Uno di questi è: avere letto almeno un Giallo dei Ragazzi, oppure no. Io ne ho letti una quantità inverosimile.
I Gialli dei Ragazzi erano dei tascabili (beh, più grossi di un tascabile di oggi) che, come si può arguire, contenevano dei romanzi gialli per ragazzi (e anche la copertina, prevedibilmente, era gialla, ma con delle splendide illustrazioni dai colori psichedelici in quello che allora passava per un stile "giovane"). Costavano pochissimo, e si vendevano come il pane, ma se ne leggevano molti di più di quelli che si compravano: i ragazzi li scambiavano o li rivendevano in mercatini di fortuna.
I gialli di questa collana erano roba commercialissima, ma commerciale quanto può esserlo un buon B-movie hollywoodiano: prodotti industriali, ma confezionati con cura. Chissà quante persone che oggi sono diventati lettori "forti" hanno cominciato proprio da qui a imparare il gusto del libro.
I primi volummi pubblicati erano traduzioni di serie "storiche" americane: gli Hardy Boys e Nancy Drew. Ambedue avevano origini antichissime, create dalla casa editrice Stratemeyer addirittura nel 1927 e 1930, rispettivamente. Gli autori risultavano essere Franklin W. Dixon e Carolyn Keene rispettivamente, ma in realtà erano scritti da un pool di scrittori. I romanzi vennero sostanzialmente riscritti e riaggiornati alla fine degli anni ’50 per renderli accettabili anche a un pubblico moderno. Confesso che non ho mai letto un romanzo di Nancy Drew: allora ero un ragazzino e non riuscivo a immedesimarmi in un personaggio femminile. Peccato però, perché ho l’impressione che fosse molto più interessante di quei due bietoloni WASP di Frank e Joe Hardy. Su Nancy hanno appena fatto anche un film, interpretato dalla nipote di Julia Roberts.
Dopo qualche tempo in Italia si aggiunse una terza serie, Alfred Hitchcock e i tre investigatori. Questa era una serie contemporanea, e Hitchcock risultava l’autore ed era anche un personaggio (il verò scrittore era però indicato in piccolo nelle pagine interne). I protagonisti erano tre ragazzini che giocavano agli investigatori, avevano una base segreta in una roulotte abbandonata in una discarica a Hollywood, e avevano fatto amicizia con il regista Hitchcock che dava loro consigli (piuttosto accondiscendenti) su come svolgere le indagini. Questa era la serie che mi appassionava di più, perché i protagonisti erano ragazzi normali che facevano cose normale, e non guidavano aeroplani o motoscafi come gli Hardy.
Verso la fine si aggiunsero nuove serie, probabilmente perché il materiale americano era finito e la Mondadori non sapeva più come andare avanti. I Pimlico Boys erano tre ragazzini inglesi che risolvevano casi. L’autore nominale era un certo Paul Dorval, ma si vedeva che la serie era di produzione autoctona: un po’ perché, dopo un buon inizio, la qualità delle storie precipitò in caduta libera, un po’ per delle truculenze che erano un po’ fuori posto in una serie per ragazzi. Tra l’altro, in un sito spagnolo ho trovato citati dei romanzi di Paul Dorval con la dicitura "tradotto dall’italiano". Non sono però riuscito a scoprire chi si nascondesse dietro questo pseudonimo. Qualcuno lo sa?
In Le inchieste di Rossana la protagonista era la figlia di un commissario romano. Non gradivo troppo questa serie, un po’ perché la protagonista era una ragazza (vedi sopra), un po’ perché mi dava fastidio che alla fine fosse sempre il padre a toglierla dai guai. Questi comunque erano scritti da Enzo Russo, che non era uno pseudonimo ma un autore autentico che ha scritto anche gialli "adulti.
Infine, Marcello & Andrea: durarono poco, perché la collana chiuse rapidamente le pubblicazioni. Mi ricordo che erano due ragazzi normali, se non sbaglio fratelli ma forse no, e mi ricordo che le loro storie mi piacevano molto, ma per qualche strana ragione non mi ricordo nulla di loro, né dove fossero ambientate le sotire né alcun dettaglio sulle loro avventure. L’autrice si chiamava Giulia Sarno, ma sul web non ho trovato traccia di lei. Che fine avrà fatto.
Wow, che trip nostalgico! Va bene, chiudo qui… ma se qualcuno ha notizie di questi misteriosi autori italiani me lo faccia sapere.

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Libro: Il giovane sbirro

Il Giovane SbirroGià il primo libro di Biondillo, Per cosa si uccide, mi era piaciuto: basterebbe il personaggio di Ferraro, uno dei poliziotti più umani e autentici della nostra letteratura gialla, a giustificarne la lettura. Ancora meglio il successivo Con la morte nel cuore, che espandeil personaggio di Ferraro e lo porta a nuove vette, grazie a una scrittura capace di autentici pezzi di bravura (la scena del suicidio della sveglia è giustamente famosa). Ma quello che mi è piaciuto di più è Per sempre giovane, che non è un giallo e sembra non avere niente a che fare con Ferraro (ma poi si scopre che non è del tutto vero), ed è invece la storia di un gruppo rock femminile negli anni ’80. Mi ci sono veramente immedesimato, perché è tutto autentico: ho rivissuto le atmosfere degli assurdi localini come il Magia Music meeting, sul cui minuscolo palco le band si accalcavano per avere la sospirata occasione di suonare in pubblico, tutte cose che ho vissuto ed erano proprio come lui le descrive. mi sono innamorato di tutte e quattro le musiciste e mi sono commosso.
Adeso è uscito Il giovane sbirro, che comincia poco dopo Per sempre giovane, con un Ferraro ventenne che decide di entrare in Polizia, e finisce con Ferraro che si separa dalla moglie, pronto a entrare in quel periodo di depressione in cui lo troviamo all’inizio di Per cosa si uccide. In un certo senso, quindi, il libro definitivo su Ferraro, quello che spiega tutto, che lo definisce. Ma è davvero così?
L’inizio, diciamolo, è splendido. Quando parla di musica, Biondillo mi rapisce. Sarà perché ha solo un anno meno di me, e abbiamo ambedue passato la prima giovinezza a Milano, ma lui ed io vediamo le cose esattamente nello stesso modo. E nella disamina di Lucio Battisti che Biondillo inserisce tra un capitolo e l’altro io mi riconosco totalmente.
Anche il finale è molto bello. Sappiamo già come sono andate le cose, perché ce lo ha raccontato nei libri precedenti. Eppure non si può fare a meno di soffrire con Ferraro: Biondillo ha descritto con efficacia l’ineluttabilità con cui una rleazione si sfascia, senza che nessuno dei due lo voglia.
Quello che c’è in mezzo… ecco, purtroppo quello che c’è in mezzo non è altrettanto soddisfacente. Soprattutto perché non è quello che ci aspetteremmo. Tra questo inizio e questo finale, infatti, ci vorrebbe una solida trama che ci tenesse avvinti e ci costringesse a voltare le pagine una dopo l’altra. Biondillo, invece, ci ha messo dieci racconti, con un undicesimo racconto intercalato "a fette", a fare da fil rouge per mantenere almeno un po’ di tensione verso il finale. Bisogna poi aggiungere che non tutti i racconti sono pertinenti (per esempio, in Rosso, denso e vischioso e in Modello 1928 la presenza di Ferraro è piuttosto ininfulente, e in La gita lo si vede appena).Lo stile dei racconti, poi, è disomogeneo. Si va dall’usuale stile biondilliano fino a cose come Strategie, che sembra quasi un pezzo di Ammaniti. Infine, bisogna dire che non tutti i racconti sono del tutto riusciti. La gita, per esempio, è poco più che un abbozzo, e La signora in rosa è legnoso e poco sviluppato. Molti sono troppo brevi: le storie avrebbero ottime potenzialità anche come base di romanzi interi, ma Biondillo le stronca sul nascere, ti fornisce la soluzione dopo poche pagine e passa oltre.
Con questo non voglio dire che il libro sia scritto male o che la lettura sia noiosa. Al contrario. Biondillo scrive sempre benissimo (forse è l’unico italiano che può usare gaddismi come tintotricotico senza apparire affettato), le idee gialle sono tutte buone, alcune ottime. E gli appassionati di Ferraro possono godere di tante piccole chicche disseminate in tutto il romanzo: dal primo incontro con l’ispettore Lanza a quello con il vicecomissario De Matteis, e tanti momenti che contrivuiscono a fare di Ferraro un personaggio indimenticabile. Se vi sono poiaciuti i libri precedenti, potete tranquillamente acquistare anche questo. Però la sensazione dell’occasione in parte sprecata, del libro che sarebbe potuto essere migliore, permane.

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Libro: Giochi Sacri

Giochi SacriSartaj Singh è un ispettore della polizia di Mumbai, in India. Un giorno al suo telefono, una voce sconosciuta gli chiede "Vuoi Ganesh Gaitonde?". Lui risponde di sì, perché Gaitonde è uno dei più celebri boss della malavita indiana, e arrestarlo sarebbe il più grosso colpo della sua carriera. E in effetti Gaitonde è lì, dove è stato indicato. Mentre Sartaj discute con il boss asserragliato in un appartamento e cerca di convincerlo ad arrendersi, non può fare a meno di porsi delle domande. Perché Gaitonde è lì, a correre il rischio di essere arrestato, invece che al sicuro all’estero? Chi ha fatto la soffiata, e perché? E come mai il boss non si arrende, ma filosofeggia attraverso il citofono, come se stesse cercando di dirgli qualcosa? Le stesse domande diventeranno di capitale importanza quando interverranno i servizi segreti, e ordineranno a Sartaj di trovare le risposte, perché da esse dipende l’esito di un gioco che coinvolge tutta l’India, e forse più.
Giochi sacri è un colossale romanzo di quasi 1200 pagine scritto da Vikram Chandra, che è allo stesso tempo molte cose. È un poliziesco di ottima fattura, realistico e avvincente e con una buona dose di colpi di scena. Ma è anche un grande romanzo sull’India, questa enorme nazione in cui convivono altissima tecnologia e villaggi rimasti al medioevo, libertà moderne e privilegi di casta, in un inestricabile groviglio che riproduce tutte le contraddizioni del mondo di oggi. Ed è soprattutto un libro sul bisogno di identità, questa cosa misteriosa e sfuggente su cui si basano tanti dei conflitti di oggi. "Chi sono io?", si chiede Sartaj Singh, chenon è religioso ma il cui posto nella vita è indissolubilmente segnato dalla sua appartenenza all’etnia sikh, e la cui fondamentale onestà si scontra ogni giorno con un sistema che premia la corruzione e l’inefficienza. E la stessa domanda se la pone Ganesh Gaitonde, che ha vissuto tutta la propria vita sfruttando la propria immagine di uomo spietato e pronto a tutto, ma che nel suo intimo è rimasto il teppista senza radici arrivato a Mumbai tanti anni prima.

Il libro ha una struttura complessa: alterna l’indagine di Sartaj Singh all’autobiografia di Gaitonde raccontata in prima persona; in più, introduce squarci narrativi ambientati in altri tempi e in altri luoghi, che lasciano capire come ogni nemico sia in realtà strettamente imparentato con il proprio avversario, come noi stessi generiamo la nemesi che ci verrà a colpire, e come in realtà esista un’unica identità, che si ricompone nonostante i nostri migliori tentativi di frammentarla.
Ci sono due soli motivi per cui potreste non volerlo leggere. Il primo è la colossale lunghezza (ma vale la pena). Il secondo è che la lingua del romanzo è infarcita da parole hindi e urdu, tanto che c’è un glossario di venti pagine in fondo. Per alcuni questo sarà un ostacolo insormontabile, ma per me questo è un ulteriore pregio: come il siciliano di Camilleri, anche l’hindi di Chandra è un mezzo per trasportarci instantaneamente in un altro mondo, e darci il desiderio di conoscerlo e comprenderlo. Così, ora che ho finito il libro, non solo so che Bombay ha cambiato nome da 12 anni e si chiama Mumbai, ma conosco anche abbastanza turpiloquio hindi da poter sostenere una conversazione nei peggiori bassifondi indiani. Quindi, maderchod che non siete altro, non avete più scuse: muovete il gaand e andate a comprare questo bhenchod di un libro, ci scommetto le goli che vi piacerà!

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Libro: Le dame di Grace Adieu

Le dame di Grace AdieuNon avevo intenzione di comprare questo libro, perché sono un po’ diffidente verso le "code" di romanzi di successo. Tempo fa mi hanno regalato Natale in Silver Street di Michael Faber, e ci ho trovato alcuni racconti carini, ma nulla che mi dicesse qualcosa di più rispetto a quanto avevo letto in Il petalo cremisi e il bianco. Allo stesso modo, voci fidate mi hanno detto che La collina dei ricordi nulla aggiunge a La collina dei conigli di Richard Adams. Quindi ritenevo che anche di questo Le dame di Grace Adieu, raccolta di racconti ambientati nello stesso universo fantastico di Jonathan Strange e il signor Norrell, avesse poco da dirmi. Fortunatamente però ne ho trovato una copia a metà prezzo sui banchi del Libraccio subito dopo aver finito Jonathan Strange, e ho deciso il Destino voleva che lo leggessi.
In effetti Le dame di Grace Adieu è un gran bel libro, che si può leggere con piacere anche senza aver letto il suo antecedente, ma che sicuramente verrà goduto in particolare da chi invece lo ha letto e apprezzato. Susanna Clarke qui si rivela una scrittrice molto versatile, dato che ogni racconto è scritto in uno stile completamente diverso. Solo uno è direttamente collegato a Jonathan Strange, altri sono ambientati in epoche completamente diverse, simili a fiabe o a cronache medioevali. C’è anche un racconto in cui il mondo fantastico della Clarke entra in comunicazione con quello di Stardust di Neil Gaiman, e ho persino colto una citazione dai fumetti di Superman (vedremo se qualcun altro la coglierà: è per solutori più che abili!).
L’antologia ha anche dissipato alcuni miei dubbi sulla Clarke. Il suo romanzo, come potete leggere, mi è piaciuto moltissimo, ma mi era rimasto qualche dubbio sul messaggio che l’autrice voleva trasmettere. In particolare, questo insistere sull’inglesità della magia mi era parso un po’ un indizio di quel passatismo nostalgico che alligna in molti autori fantasy. Temevo, insomma, che andando a grattare si trovasse il solito passato mitizzato in cui tutto andava bene perché gli esseri umani non avevano grilli per la testa. Ma non si può certo dire questo dei racconti di Grace Adieu, in cui tra l’altro c’è un interessante rovesciamento: se Jonathan Strange era un romanzo quasi tutto al maschile, qui le donne sono protagoniste e si prendono un bel po’ di rivincite.
Comunque sia, una lettura consigliata.

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Piccoli segni di speranza

Elliot EdizioniMia moglie ha appena finito di tradurre un libro per una casa editrice romana appena nata, la Elliot Edizioni. Mi sono incuriosito e ho provato a fare qualche ricerca su di loro. Ed è qui che ho fatto la stupefacente scoperta: la Elliot Edizioni ha un sito su MySpace! E se ne vanta pure ("The First Italian Publishing House to Grace MySpace").
Ora, non voglio parlare troppo bene di MySpace, che per certe cose mi dà anzi abbastanza fastidio. Tuttavia, per comprendere bene la portata dell’evento, dovreste aver frequentato per un po’ le case editrici italiane. In tal caso sapreste che il loro dipendente medio ha serie difficoltà già con l’invio di un fax. La posta elettronica preferisce non usarla, per allegare un file deve chiedere assistenza telefonica, considera Internet un luogo pericoloso e tabu. Vedere una casa editrice,e non una particolarmente votata alla telematica, che apre un sito su MySpace, mi dona la tenue speranza che il nostro possa un giorno diventare un paese moderno.
Se poi questo possa aiutare a vendere libri, sinceramente non lo so.

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