In fuga dopo la rapina andata male alla fine del libro precedente, Parker viene salvato per il rotto della cuffia da Tom, un uomo che si offre di ospitarlo per nasconderlo alla polizia. Ma questo aiuto non è altruistico: Tom vuole aiuto per rapinare i datori di lavoro che lo hanno licenziato, un colpo che pianifica da anni senza avere il coraggio di metterlo in pratica. Nel frattempo, lo sceriffo del paese chiede aiuto a tutti i cittadini per stanare i rapinatori fuggitivi… e Parker si ritrova a far parte di una squadra alla ricerca di sé stesso!
Non conoscevo Parker prima di incontrare questo libro. Ho così scoperto che si tratta di un personaggio apparso per la prima volta nel 1962, e che questo è il ventiquattresimo libro in cui appare (e negli USA ne è già uscito un altro!). L’autore non è che uno pseudonimo di Donald E. Westlake, uno dei maggiori scrittori noir viventi.
Devo dire di essere rimasto affascinato. Si tratta di romanzi di pura azione, in cui la tensione non cala mai. Non c’è alcuna visione moralistica: al contrario, il personaggio di Parker è affascinante proprio perché totalmente amorale, un criminale professionista assolutamente gelido, che riesce sempre a cavarsela proprio perché non si lascia mai fuorviare dalle emozioni. Sono libri di puro intrattenimento, eppure questo romanzo riesce a essere davvero sottile. Il confronto tra un criminale fatto e finito come Parker e i cittadini di un paesotto dimenticato nel profondo degli USA, che dovrebbero essere gli “onesti” ma in realtà reagiscono alla presenza di Parker scatenando i loro peggiori istinti, è condotto in modo davvero magistrale, ed è molto più rivelatore di tanti altri romanzi con maggiori pretese, L’unico calo di tensione l’ho notato nel finale, quando c’è l’obbligatorio showdown che deve consentire a Parker di cavarsela per poter essere protagonista del romanzo successivo.
Il libro l’ho letto in originale, per un motivo ben preciso: l’ho tradotto io, insieme a mia moglie. Maggiori notizie qui.
Tu prostata nella polvere
In questi giorni, per tenermi in esercizio e per vedere cosa produce la fantascienza tedesca, sto leggendo un romanzo in tedesco: Das Cusanus-Spiel di Wolfgang Jeschke. Sono ancora troppo indietro per parlarvi del libro in sé (lo farò a tempo debito), ma una cosa mi ha colpito fin dalle prime pagine. L’autore ha ambientato il romanzo a Roma, città che deve conoscere personalmente, visto che si lancia in riferimenti topografici piuttosto precisi. Purtroppo però più spesso che no ci va di mezzo l’ortografia italiana. Una buona metà della toponomastica citata è sbagliata (piazza Triluzza, piazza dei Colosseo, ponte San Fabricio, isola Tibertina, per non parlare delle automobili marca Fiat Lux o della esilarante citazione dell’Aida che dà il titolo a questo post. Che ci sarebbe voluto a dare una controllatina ai nomi stranieri nel testo? Pare che la sciatteria editoriale in Germania sia allo stesso livello che in ITalia. Non so se ci sia da compiacersene…
Film: "Pranzo di Ferragosto"
Gianni, che vive insieme all’anziana madre e non riesce a sbarcare il lunario, si trova costretto ad accettare la proposta dell’amministratore del condominio, che gli coprirà parte delle spese se ospiterà la propria madre per Ferragosto. Ma al momento cruciale l’uomo gli affida non una sola vecchietta, ma due. E anche il medico di fiducia, che lo cura gratis, in cambio gli chiede di ospitarne una quarta…
Pranzo di Ferragosto è il film di cui tutti in questo momento parlano bene. Devo dire però che, anche se il film si lascia vedere con piacere, arrivato ai titoli di coda mi sono trovato a chiedermi il perché di tutto questo entusiasmo. È vero che Gianni Di Gregorio, regista e protagonista, è bravo e simpatico. È vero che le quattro vecchiette, non professioniste, se la cavano meglio di attrici navigate. È vero che il film emana quasi sempre una sensazione di assoluto realismo, come se le scene fossero state improvvisate sul momento (e probabilmente è proprio così, come dimostrano spesso anche le inquadrature disordinate el a fotografia sgranata). Ed è vero che il ritratto della vecchiaia che emerge dalle immagini è veritiero e incisivo senza mai scadere nel patetico o nella macchietta. E però, a mio avviso, questi dovrebbero essere solo gli ottimi elementi di partenza di un film, che poi li dovrebbe utilizzare per farci qualcosa. Invece, dopo appena un’ora e un quarto, una volta che tutte e vecchiette ci sono diventate familiari, il film finisce (con un finale che alcuni definiscono spiazzante, ma che a me è parso abbastanza prevedibile) e scorrono i titoli di coda. Non so, a me pare un po’ poco. Anche nei più strampalati e improvviati film di Jim Jarmusch non ci si limitava a presentare i personaggi e a farli interagire, ma c’era anche qualche spunto di sceneggiatura. Qui invece ci si accontenta di un risultato che carino è carino, figuriamoci, e lo è anche in un senso diverso e migliore del classico film italiano "carino". Però da quello che viene spacciato per film-rivelazione mi aspettavo di più.
Film: Kung-Fu Panda
Il maestro di una scuola di Kung-Fu deve scegliere quale degli allievi è destinato a diventare il guerriero-drago, e a ricevere la pergamena che gli consentirà di assumere un enorme potere guerresco. Ma, inopinatamente, i segni del destino indicano Po, un panda grasso e inetto che sembra del tutto inadatto a diventare un temibile guerriero. La situazione si complica quando un feroce ex-allievo della scuola fugge di prigione e si prepara a compiere la sua vendetta sugli abitanti del villaggio…
Non sono mai stato un grande appassionato delle animazioni Dreamworks, sempre più occupate ad ammiccare al mondo adulto e contemporaneo che a raccontare una bella storia (persino l’osannata serie di Shrek si macchia, a mio avviso, di questo peccato). Ma, finalmente, ecco l’eccezione: Kung-Fu Panda è un cartone animato godibilissimo che, proprio perché non si fa carico di ambizioni eccessive, coglie perfettamente nel segno. La storia, semplice, lineare e risaputa, potrebbe essere quella di un qualsiasi film di arti marziali di Hong Kong. Gli autori si sono limitati a lavorare sulla caratterizzazione dei personaggi, e hanno fatto un lavoro splendido. Gli si potrebbe rimproverare che soltanto Po e il suo maestro Shifu sono personaggi davvero sviluppati, ma questo è uno dei pregi del film: l’avere evitato complicazioni eccessive. La trama scorre piacevolmente alternando momenti drammatici e comici, e si ride per le situazioni più che per le singole gag. La regia parodizza argutamente gli eccessi della filmografia di Hong Kong, inclusi rallentatori e fermi immagine, ma senza appesantire con troppe citazioni. Persino la morale "Zen" della faccenda viene illustrata in modo poetico e senza eccessi di retorica (un plus assoluto del film: la totale assenza di numeri cantati!). Insomma un gioiellino da vedere senz’altro, per tutte le età.
TV: Boris 2
La serie televisiva Boris è riuscita in un impresa praticamente impossibile: farmi ricominciare a guardare regolarmente un programma TV. Odio dirlo, perché una frase del genere mi fa sentire veramente vecchio, ma credo che prima di Boris l’ultima cosa che mi ha tenuto legato a un appuntamento periodico col piccolo schermo è stata Twin Peaks! Ho scoperto Boris in ritardo, quando già la prima serie era stata trasmessa, ma ho subito rimediato è, una volta saputo che ne sarebbe stata fatta una seconda serie, l’ho seguita episodio dopo episodio.
Ora la domanda è: queste nuove 14 puntate sono riuscite a rimanere all’altezza della dirompente prima serie? Mentre le guardavo, ero convinto di sì, dato che mi divertivo esattamente come con il primo Boris. Arrivati al termine, però, sono costretto parzialmente a ricredermi. Il fatto è che, tirate le somme, la nuova serie sembra essere stata costruita con maggiore improvvisazione rispetto alla prima. Mentre l’episodio finale di Boris dava un senso di compiutezza, quello di Boris 2 sembra non riuscire a dare conto di tutte le aspettative create.
Un problema è che i nuovi personaggi rimangono irrisolti. Né Cristina, né Karin, per esempio, riescono ad avere lo spessore che aveva Corinna nella prima serie. E i personaggi interpretati da Corrado Guzzanti, per quanto bravissimo, sembrano provenire da un programma diverso ed essere lì di passaggio: troppa differenza di stile tra lui e tutto il resto. Insomma, se il primo Boris seguiva la parabola di Alessandro lo stagista, che progressivamente era costretto dalla realtà a mettere da parte il proprio idealismo e ad assomigliare sempre più ai beceri personaggi del mondo della fiction, Boris 2 segue troppi fili narrativi senza approfondirne davvero nessuno.
Cio non toglie che il programma sia stato comunque anni luce al di sopra di qualunque cosa sia stato prodotto quest’anno dalla televisione italiana. E quindi, di fronte alla prospettiva ormai data per certa di un Boris 3, dico: ben venga! Anche se si rischia di allungare il brodo all’inverosimile, sarà comunque uno die pochi programmi italiani guardabili in giro.
Viva la rana!
Pare che Bolzano sia in subbuglio a causa di una rana crocifissa. Si tratta di una scultura del defunto artista Martin Kippenberger, esposta al Museion, il museo di arte moderna di Bolzano, in occasione dell’apertura della nuova sede. Vari politici locali si sono pronunciati contro l’opera, e l’opposizione va crescendo con l’avvicinarsi della visita del Papa a Bolzano.
In passato ho espresso delle riserve riguardo alla libertà di esercitare la blasfemia in nome dell’arte: pur essendo ateo e fautore della massima libertà di parola, credo che ci siano modi migliori dell’insulto gratuito al sentimento religioso altrui per criticare la religione.
Tuttavia non mi sembra proprio che questo sia il caso. L’interpretazione ufficiale dell’opera è che l’autore abbia voluto rappresentare gli altoatesini, che si proclamano molto religiosi ma in realtà sono dediti all’alcool e alla bestemmia. Quindi in realtà non si tratta affatto di un’opera contro la religione, bensì di una critica a chi tradisce la propria. E, in ogni caso, la rana crocefissa può scioccare o sorprendere, ma non contraddice o ridicolizza alcun dogma cristiano.
Mi sembra quindi che le proteste dei poltici locali esprimano soprattutto un provincialismo estremo. Sottolineato del resto dalla frase attribuita a una di loro, "Qui non siamo a New York". Per l’appunto: e se ne vantano. Sono orgogliosi della loro grettezza. Ed è davvero paradossale che questa gente abbia speso cifre enormi per costruire un faraonico museo, con tanto di ponte-scultura sul torrente Talvera per accedervi, ma poi già alla prima mostra non sia capace di tollerare l’arte che vi viene esposta. Una situazione davvero simbolica dei tempi in cui viviamo.
E, parlando di crocefissi, giunge a proposito la notizia che il goberno Zapatero, in Spagna, sta facendo tutto il possibile per eliminare ogni simbologia cattolica da edifici e cerimonie pubblici, in primis proprio i crocefissi che ancora adornano aule ed edifici statali. Un atto che sembrerebbe del tutto automatico una volta che è stata abolita la religione di stato e sancito il principio che tutte le confessioni sono uguali di fronte allo Stato, e quindi nessuna va privilegiata. Eppure in Italia, a più 60 anni dalla promulgazione della Costituzione, e a quasi 20 anni dalla sentenza della Corte Costituzionale che conferma la fine della religione di Stato, i crocefissi sono inamovibili. Peggio: praticamente nessuno li vuole rimuovere. È una battaglia che viene lasciata ai radicali, o addirittura a provocatori estremisti del calibro di Adel Smith. La distanza culturale che ci separa dal resto d’Europa si sta facendo abissale.
Perciò viva la rana, mi auguro che resti dov’è e che faccia gli sberleffi al Papa quando arriva.
La mia prima cache!
Da qualche tempo a questa parte mi sto interessando al geocaching. Si tratta di una simpaticissima e moderna variante della caccia al tesoro. il succo è questo: qualcuno si reca in un luogo qualsiasi, ma possibilmente di qualche interesse storico o paesaggistico, e ci nasconde una cache, cioè un contenitore segreto contenente un piccolo registro cartaceo e qualche oggettino che costituisce il "tesoro". Poi pubblica sul sito web ufficiale del gioco le coordinate geografiche esatte del nascondiglio, e una descrizione. Chiunque desideri può prendere un GPS, recarsi alle coordinate in questione, e cercare la cache. Se riesce a trovarla, può firmare il registro incluso, e può anche prendersi uno degli oggettini contenuti come ricordo (ma dovrebbe lasciare qualcosa in cambio). Poi può registrare ufficialmente sul sito l’avvenuto ritrovamento. Ci possono essere altre complicazioni, enigmi e via dicendo, ma il succo è questo. Il bello del gioco non è la competizione per trovare più cache degli altri, ma lo stimolo a visitare con attenzione luoghi che altrimenti non si sarebbero presi in considerazione.
Io ho cominciato la mia attività di geocacher a Milano città: inutile andare lontano, quando a pochi passi da casa ci sono una trentina di cache. Ammetto che le mie prime due ricerche sono andate a vuoto. Ma la terza… ebbene sì, sotto la Torre Velasca ho trovato la mia prima cache. Perfettamente mimetizzata, un contenitore magnetico dipinto in modo da risultare praticamente invisibile, pur essendo in piena vista. Devo dire di aver provato una gioia quasi infantile nel reperimento: mi sono sentito tanto "agente segreto" a trovare quel tesoro che mi aspettava in un angolo alquanto desolato di un luogo frequentatissimo, all’insaputa di tutti.
Credo proprio che questo gioco mi abbia preso. Alla prossima pausa pranzo vado a cercare una cache vicina al luogo di lavoro, alla Conca dei Navigli…
Film: E venne il giorno
A New York, centinaia di abitanti vengono improvvisamente colti da una mania suicida che li spinge a uccidersi con il primo metodo a portata di mano. Inizialmente si sospetta un atto terroristico ma, quando l’epidemia si diffonde in tutto il nord-est degli Stati Uniti, le spiegazioni ufficiali non reggono più. Un professore di scienze, accompagnato dalla moglie, con cui è in crisi, e dalla figlia di un amico rimasto disperso nella confusione, tenta di fuggire prima di cadere vittima dell’epidemia.
Sono andato a vedere questo film aspettandomi molto poco, grazie alla pacata stroncatura di Ohdaesu. Sarà forse per questo motivo, ma dopo la visione posso dire che E venne il giorno, che non è piaciuto quasi a nessuno, a me non ha fatto schifo.
Avrò forse una particolare sensibilità sull’argomento, ma a me l’autolesionismo fa orrore, e vedere delle persone intente ad autodistruggersi in modo efficiente e brutale sicuramente mi turba. E credo che sia indubbiamente un grosso merito di M. Night Shyamalan l’essere riuscito a destare orrore con elementi semplicissimi, come la camminata all’indietro che prelude all’insorgere della sindrome suicida, o come la scena degli operai che si lanciano dalle impalcature (un richiamo diretto all 11 settembre). Insomma, l’idea che sta alla base del film è semplice e geniale e, se il regista l’avesse accompagnata con uno svolgimento altrettanto solido, avrebbe prodotto un capolavoro.
Qui vengono le dolenti note. Perché Shyamalan, pur avendo avuto il buon gusto di non tirarla troppo in lungo (il film dura un’ora e mezzo), mette a dura prova la pazienza dello spettatore, con delle cose che non si capisce se siano vezzi autoriali malintesi o errori che nemmeno un regista alle prime armi commetterebbe. Cominciamo col dire che la scelta degli attori protagonisti, Mark Wahlberg (che ha me non ha mai detto nulla) e Zooey Deschanel (che in questo film ha perennemente l’aspetto di una lepre di fronte ai fari di un’auto) non è quella che si dice esaltante. Aggiungiamo che i due devono mettere in scena uno dei clichè più triti della storia del cinema, quello della coppia-in-crisi-che ritrova-l’armonia-di-fronte-alle avversità. Concludiamo dicendo che i dialoghi spesso sono totalmente insensati, al punto da rasentare il teatro dell’assurdo, e capirete perché questo film sembra avere decisamente qualcosa che non va. L’impressione finale è che Shyamalan volesse dire qualcosa di preciso, ma questo qualcosa risulta incomprensibile, e ne emerge solo un generico millenarismo antiscientifico e misticheggiante. Alcune scene (un esempio tra tutte: il suicidio della ragazza cui si assiste via telefono cellulare) sono letteralmente buttate via, risultano così finte e poco realistiche da non causare alcuna emozione nello spettatore, se non un senso di straniamento.
Eppure non posso nascondervi che E venne il giorno è riuscito a emozionarmi comunque. Io dico spesso che è meglio assistere a un fallimento interessante che a un successo scontato. A me fa piacere che esista un regista come Shyamalan che gira un horror in cui a fare spavento è il modo di camminare delle persone invece che un effetto speciale in computer graphics. E per questo sono disposto a perdonargli molto, anche se alcune cose di questo film sono davvero imperdonabili.
Film: Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo
Siamo nei primi anni ’50. Indiana Jones si ritrova coinvolto nel tentativo di alcuni agenti del KGB per sottrarre alcuni reperti di sospetta origine aliena custoditi a Roswell, ma riesce a cavarsela. Dopodiché incontra un ragazzo che gli porta una lettera di un amico, il professor Oxley. Pare che costui abbia scoperto un antico teschio di cristallo che i conquistadores avrebbero sottratto nientemeno che da El Dorado. Una leggenda dice che chi riporterà indietro il teschio acquisterà un enorme potere. Ma Oxley e la madre del ragazzo sono sono scomparsi. Inevitabile che Indy si lanci alla ricerca del teschio, per poi scoprire che anche i russi sono interessati alla cosa…
C’è un momento in cui Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo dà l’impressione di essere un film in grado di dire qualcosa di nuovo sul personaggio di Indy. Ed è poco dopo l’inizio, quando si ritrova in un villaggio popolato di manichini e destinato a essere spazzato via da un’esplosione atomica sperimentale. Una scena inquietante, degna dello Spielberg migliore, e che dà lo spunto per costringere Indy a emigrare, vittima della caccia alle streghe e della paranoia anticomunista. Poteva essere l’inizio di un film del tutto diverso da quelli della trilogia precedente. Purtroppo si scopre che questo prologo ha due solo funzioni: far capire allo spettatore che siano negli anni ’50 e non più nei ’30, e permettere a Spielberg di salvarsi l’anima facendo vedere che, anche se i "cattivi" russi sono caricaturali e monodimensionali come se il film fosse stato davvero girato sessant’anni fa, il regista è consapevole che anche gli USA non erano esenti da pecche. Dopodiché, "been there, done that": dei maccartisti non si parla più, e il film si impegna a rifare pedissequamente I Predatori dell’Arca Perduta, sostituendone ogni scena con un’altra equivalente.
Dal punto di vista tecnico, gli riesce pure bene. Spielberg non ha perso la mano, e riesce a rifare se stesso con maestria; sono innumerevoli i piccoli colpi di genio che lo distinguono da tanti imitatori e mestieranti. Il problema, purtroppo, è la sceneggiatura. E non è difficile sospettare che buona parte della colpa sia di George Lucas, autore del soggetto e notoriamente incapace da tempo di scrivere qualcosa che vada oltre l’età mentale di un dodicenne. In generale la sceneggiatura ha il difetto di tutte quelle che sono state riscritte troppe volte, e cioè è troppo affollata di spunti, di cui nessuno sviluppato adeguatamente.
Il risultato fa acqua da tutte le parti. Il personaggio di Mac, che continua ad alternare il ruolo di amico e antagonista di Indy, dovrebbe essere motore di drammi e colpi di scena, ma invece i suoi cambi di bandiera appaiono risibili, e in definitiva non ce ne frega niente di lui. Va un po’ meglio Mutt, il ragazzo, e in effetti il suo rapporto con Indy potrebbe diventare il punto di forza del film, ma poi, a mano a mano che la trama si affolla di personaggi, ci si dimentica di lui, e nel finale non gli viene lasciato alcun ruolo. Cate Blanchett nel ruolo della "cattiva" è molto brava, ma la sceneggiatura non offre al suo personaggio alcuna possibilità di sviluppo.
Ma il difetto più grave è che manca completamente il senso del rischio e del pericolo. Nel primo film, lo spettatore soffriva e si spaventava insieme a Indy. Qui l’archeologo-avventuriero se la cava sempre senza sforzo, con scene che superano in modo così plateale il confine dell’inverosimiglianza da interrompere brutalmente la sospensione dell’incredulità. Gli stessi personaggi ne sembrano consapevoli, e abbiamo persino una scena in cui la madre di Mutt, vedendo il figlio in una situazione di estremo pericolo, invece di gridare terrorizzata assiste tranquilla, come se sapesse benissimo che nulla di grave può succedere. Dopo un po’ tutto diventa meno emozionante di un videogioco, e altrettanto ripetitivo. Quando poi il film si conclude, rimane una quantità mostruosa di misteri non risolti e di dilemmi non spiegati.
Conclusione: grande spettacolo, ma dello Spielberg che sapeva emozionare, oltre che divertire, non è rimasta quasi traccia.
Film: Onora il padre e la madre
Due fratelli hanno entrambi un gran bisogno di denaro. Se il minore, Hank, è un fallito senza remissione, che non riesce nemmeno a pagare gli alimenti alla ex-moglie, il maggiore Andy apparentemente è un broker immobiliare di successo, ma in realtà è un tossicomane e le sue irregolarità finanziare sono sul punto di venire alla luce. Andy propone perciò ad Hank un piano per cavarsi d’impaccio: rapinare la piccola gioielleria dei genitori. Non ci saranno armi, nessuno si farà del male, l’assicurazione pagherà i danni, e tutto si risolverà. Ma il debole Hank commette l’errore di coinvolgere nella rapina una terza persona. Da qui, tutto procede verso la catastrofe.
L’idea che apparentemente è alla base di Onora il padre e la madre è interessante: cominciare il film come un tradizionale crime movie, mostrando quasi immediatamente la rapina e il suo esito, e di lì procedere per flash back e forward, mostrando non solo le conseguenze dell’atto, ma anche l’inestricabile groviglio di sentimenti che ci sta dietro, e che trasforma il tutto in un dramma familiare. Il veterano Sidney Lumet (quello di La parola ai giurati, A prova di errore, Quel pomeriggio di un giorno da cani e chi più ne ha più ne metta)indubbiamente sa ancora dirigere un film mantenendo alta la tensione. Per giunta ha a disposizione un ottimo cast: oltre a Philip Seymour Hoffman, sempre bravissimo, ci sono anche un Ethan Hawke così bravo a fare lo sfigato da far dimenticare tutti i ruoli da gran figo interpretati in passato, e una Marisa Tomei
Tuttavia, la buona confezione non riesce a nascondere le grandissime carenze che il film ha, sia dal punto di vista strettamente logico che da quello strutturale. Cominciamo col dire che è decisamente improbabile che una persona, colpita da un arma da fuoco, sia in grado di raccogliere la propria pistola e uccidere il proprio avversario con un singolo colpo ben piazzato, un attimo prima di cadere in coma irreversibile. Non dico che non possa succedere, ma sicuramente è proprio credibile, e non si dovrebbe costruire un intero film sulla base di un evento del genere. Ma questo è il meno. Veniamo al punto fondamentale, cioè la proposta della rapina. Andy induce Hank a commetterla, propone di dividere il bottino, però poi non vuole partecipare personalmente. Considerato che anche Hank conosce benissimo la gioielleria di famiglia, in pratica Andy si prende la metà dei soldi senza aver dato alcun contributo utile. Perché mai Hank dovrebbe accettare? Anche ammettendo che sia scemo e succube del fratello, non ha senso.
Se andiamo a poi a guardare i rapporti interpersonali, tutto è ancora più nebuloso. Alcuni personaggi sembrano considerare il padre una specie di mostro, altri invece lo adorano, e la dicotomia non viene mai risolta. Il personaggio della sorella è inesistente, il rapporto tra Hank e la moglie di Andy poco chiaro, ma soprattutto il rapporto di Hank stesso con la famiglia non viene minimamente descritto, ed è un buco grande come una casa: se lui, come dice Andy, era il figlio prediletto, perché mai non ha chiesto dei soldi ai genitori, invece che tentare di rapinarli?
Insomma una sceneggiatura molto confusa, che un buon cast e un buon regista riescono a risollevare in un film vedibile, ma comunque molto lontano dal capolavoro che molti ci hanno visto.