Libro: Crimini

Crimini

Non sono un assiduo lettore di noir, ma quando me ne capitano di buoni li leggo sempre con piacere. Così sono stato contento di ricevere in regalo questa Crimini, antologia di nove racconti dei più celebri autori italiani, occasione per riavvicinarmi a qualche vecchia conoscenza e per mettere alla prova qualche nome dal quale finora mi ero tenuto lontano, per diffidenza o semplicemente perché non si può leggere tutto. Ecco com’è andata.

Sei il mio Tesoro è stato scritto da Niccolò Ammaniti in coppia con l’esordiente Antonio Manzini, ma è comunque stilisticamente indistinguibile dai suoi racconti più noti del genere pulp. Parla di un chirurgo plastico ricco, drogato e disonesto, che finisce in galera e, dal momento in cui ne esce, tenta in tutti i modi di recuperare un sacchetto di droga dall’improbabile nascondiglio che ha escogitato per non farselo sequestrare. Io sono parziale: Ammaniti mi piace molto, anche (e forse soprattutto) quando va sopra le righe. In questo racconto la sospensione dell’incredulità del lettore è messa a dura prova, ma lui è sempre così divertente, così sarcastico, così bravo nel rappresentare i nostri vizi con il massimo di assurdità possibile, che ci si passa sopra volentieri. Un bel racconto di quelli che non si dimenticano.

Morte di un confidente di Massimo Carlotto è scritto nel consueto stile scabro e diretto di quest’ultimo. È un poliziesco decisamente classico, con un poliziotto in crisi matrimoniale che si ritrova personalmente coinvolto in un’indagine a causa della morte di una collega. Mi è piaciuta l’ambientazione veneta e la descrizione molto convincente dei rapporti personali all’interno della polizia e della malavita. Il racconto risulta però alquanto dispersivo: vengono introdotti molti temi, ma nessuno viene sviluppato fino in fondo, e quando si conclude non si capisce bene dove volesse andare a parare. C’è inoltre una veniale incongruenza: per comunicare con un informatore, il protagonista ha un codice basato sul numero di squilli di una chiamata. Ma avete mai provato a contare gli squilli usando un cellulare? E’impossibile.

Il covo di Teresa di Diego De Silva racconta di un’attempata signora che si ritrova a ospitare un terrorista nel proprio appartamento. È una bella storia di sentimenti, toccante e convincente, uno dei racconti che mi sono piaciuti di più.

L’ospite d’onore di Giorgio Faletti è l’unico racconto del mazzo che mi sia veramente dispiaciuto. Racconta di un giornalista alla ricerca di un celebre personaggio televisivo misteriosamente scomparso. È scritto in uno stile forzatamente brillante, con una battuta spiritosa a ogni frase, che dopo qualche pagina suona falso come i dialoghi di una sit-com. Tra l’altro non si risparmiano grevi ironie a un personaggio colpevole solo di essere gay. L’ambientazione è un’isola tropicale di cui non ci importa assolutamente nulla. Alla fine l’autore non si preoccupa neppure di dirci l’unico dettaglio della storia che potrebbe interessarci (il protagonista rivelerà al giornale l’ubicazione del personaggio o, data la piega che hanno preso gli eventi, la terrà per sé?), ma imbastisce un finale soprannaturale assolutamente campato in aria, che non inquieta, non dice nulla sui personaggi, non vuol dire niente. Un racconto vacuo e pretenzioso. Finora mi ero tenuto lontano dai romanzoni da tre milioni di copie di Faletti, e a questo punto penso proprio che non li leggerò mai.

L’ultima battuta di Sandrone Dazieri è il mio preferito in assoluto. Parla di un ex-cabarettista che cerca di scagionare un’amica dall’accusa di avere ammazzato il suo socio di un tempo. Nulla di particolarmente nuovo, ma l’ambientazione nel giro del cabaret milanese è interessante e credibilissima, e il modo in cui gradatamente viene fuori tutto il passato del protagonista è da manuale. L’unica pecca, secondo me, sta nel finale: il tentato omicidio finale è immotivatamente goffo, e non è chiaro come e perché il protagonista riesca a scamparla. Ma il risultato è comunque più che buono.

Troppi Equivoci ci dà un Andrea Camilleri diverso dal solito: stile molto secco e personaggi poco caratterizzati, tutto il contrario di come ci ha abituato. Il racconto parla delle terribili conseguenze di uno scambio di persona dovuto a uno scherzo. Camilleri solitamente mi piace molto, ma qui non mi ha convinto: questo sembra più un abbozzo di sceneggiatura che un racconto, e non si capisce bene perché l’autore abbia scelto di raccontare questa storia.

Quello che manca di Marcello Fois è un classico giallo poliziesco, con un omicidio e un commissario che indaga. È interessante il tentativo di introdurre un sottotesto politico, però la trama è un po’ troppo esile, e il finale è troppo brusco e poco credibile: possibile che il colpevole sia così fesso?

Il bambino rapito dalla Befana di Giancarlo De Cataldo è, come lascia intuire il titolo, una favola noir, che narra dell’anomalo sequestro-lampo di un bambino. Personalmente avrei preferito un po’ più di cattiveria rispetto a un racconto in cui i cattivi muoiono e i buoni vivono felici e contenti, però De Cataldo è un bravo affabulatore, e il racconto si legge con piacere.

Infine, Il terzo sparo di Carlo Lucarelli narra di una poliziotta cui nasce un sospetto su un collega, e che per averlo rivelato viene a trovarsi in una situazione difficile e pericolosa. Ogni volta che leggo una storia di Lucarelli rimango stupito di come la sua narrativa si basi su meccanismi semplici, scontati ed evidenti, eppure nonostante questo riesca a funzionare così bene. Questo racconto è pieno di suspense e all’altezza delle sue cose migliori. L’unica cosa che mi convince poco di lui sono i suoi finali, che spesso sembrano non tenere conto di come gira la realtà. Questo racconto non fa eccezione: l’autore ci dice trionfante che la protagonista riesce a cavarsela ma, a mio avviso, nella situazione in cui Lucarelli la lascia la aspetta un’indagine per omicidio, con buone possibilità di essere giudicata colpevole…

Nel complesso il mio giudizio è più che buono: Faletti a parte, tutti i racconti si leggono volentieri. Probabilmente non ci sono capolavori, ma quasi tutti sono più che discreti. Un piacevole intrattenimento, e un modo per mettere a confronto il meglio del noir italiano (manca solo Biondillo…), una scena che si conferma solida. Magari fosse possibile mettere insieme un’antologia di questo calibro con gli autori di fantascienza italiani…

Questa recensione appare anche su Il Leggio.

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Libro: Perduto per sempre

Perduto per sempreComincio con un avvertenza: sto per recensire il libro di un amico. Io non sono particolarmente indulgente verso i libri degli amici. Semmai, tendo ad amplificare i miei sentimenti: se non mi piacciono, mi dà ancora più fastidio; se i piacciono, mi piacciono forse un po’ più del dovuto. Questo è un libro che mi è piaciuto. Mi sono fatto un esame di coscienza e ha continuato a piacermi. Quindi potete prendere per buono quanto vi sta per scrivere il vostro fallibile recensore, perlomeno quanto tutto il resto che scrive.

Detto questo, Perduto per sempre è il secondo romanzo di Roberto Moroni, meglio noto ai blogger come The Petunias. A differenza del primo, che avevo letto in bozze e al quale avevo in minima parte collaborato, questo è uscito senza che ne sapessi nulla, e ho cominciato a leggerlo senza nessun tipo di aspettativa. Mi ci sono trovato dentro, e in pochi minuti mi ha preso completamente. Sarà forse perché il primo capitolo ha un protagonista che è bambino nei primi anni Settanta, come lo sono stato io. E ho riconosciuto all’istante come vera non solo l’ambientazione, con tutti i suoi oggetti che una volta mi erano familiari e che oggi avevo dimenticato o quasi (i gettoni telefonici! il Ping-o-Tronic!). Ma anche lo sguardo, quello di un decenne che comincia a sperimentare sulla propria pelle il mondo reale senza schermo. Ho riconosciuto me stesso e sono rimasto avvinto dalla narrazione. Da qui in poi ho girato le pagine con l’atteggiamento non del critico, ma del lettore accanito.

Di che parla Perduto per sempre? Parla di un ragazzo che diventa adulto. Che ha un padre ingombrante, per usare un eufemismo. Anzi, per dirla tutta, un padre proprio stronzo. E che mette in atto un complicato piano. Per difendersi, per vendicarsi, per evitare di diventare la copia malriuscita di suo padre. Detto così sembra poca cosa. Quello che non vi posso raccontare, ma che dovrete leggere, sono i personaggi, così ben costruiti che li si ama o (soprattutto) li si odia come persone vere, anche quelli minori. E una trama che, pur senza meccanismi complicati e rivolgimenti, tiene in sospeso fino all’ultima pagina.

Viene spontaneo il paragone con lo strombazzatissimo Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno. Ambedue i libri, infatti, parlano di un giovane di famiglia ricca che cresce schiacciato dal peso di avi troppo ingombranti. E tuttavia, là dove Piperno si sforza difare il Philip Roth italiano, i suoi personaggi mi rimangono estranei come figurine, divertenti ma non veri. Mentre i personaggi di Roberto a me sembra di conoscerli, e la società in cui vivono mi sembra la mia. Soprattutto, mi hanno dato emozioni molto più forti, e i buoni libri sono fatti di emozioni.

Questo è quanto. Gli acquisti di Natale sono già in corso, se non sapete cosa regalare date una spintarella a questo libro, che lo merita.

Questa recensione appare anche su Il Leggio.

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Film: The Departed

The DepartedA Boston, un boss della malavita crea seri problemi alla polizia di stato,che decide di infiltrare un uomo nella sua banda per riuscire a incastrarlo. Ma ben presto diviene chiaro che il boss ha a sua volta un infiltrato all’interno della polizia. Tra le due spie comincia così una complessa e mortale partita in cui ognuno dei due cerca di individuare l’altro senza farsi scoprire a sua volta.

Questa volta Scorsese ha moderato le ambizioni e, invece di puntare al capolavoro (che gli sfugge ormai da una decina d’anni, come nel caso del grandioso ma malriuscito Gangs of New York), si è dedicato al remake di un noir di Hong Kong di grande successo ma inedito in Italia, Infernal Affairs. Quando è all’opera un grande del cinema come lui, che conosce tutti i trucchi per tenere desta l’attenzione dello spettatore, sappiamo già che ci condurrà anche attraverso una trama decisamente complicata senza mai farci perdere il filo o lasciar calare la tensione. Molti hanno gridato al ritorno del regista alla sua vena migliore, ma io rimango decisamente più freddo: il film è intrigante, appassionante fin quasi alla fine, ma a conti fatti manca il bersaglio e rimane per molti versi irrisolto.

Scorsese, nonostante il sottotitolo dell’opera sia “il bene e il male” si rifiutar di seguire la strada dell’originale in cui bene e male si mescolavano sino a confondersi. Qui il poliziotto rimane un buono, e il mafioso rimane fino in fondo un bastardo. Il problema è che allora non si capisce dove il film voglia andare a parare. A un certo punto sembra che voglia addirittura buttarla in politica, e che tutto sia una metafora dell’America post-11-settembre dove tutti spiano tutti, ma anche questo debole tentativo resta sulla carta.

L’errore più grave è però quello di avere introdotto nella trama il personaggio di Mark Wahlberg. Non solo è caratterizzato in maniera risibile (si esprime unicamente via insulti e turpiloquio), ma, essendo a conoscenza dell’identità dell’infiltrato “buono”, costringe la sceneggiatura a una serie di mosse arzigogolate e poco credibili per fare in modo che il poliziotto infiltrato non si rivolga a lui. Salvo poi farlo intervenire all’ultimo momento per impedire che i “cattivi” vincano del tutto, in un finale del tutto privo di senso dove sceneggiatura e logica si squagliano come neve al sole. Peccato, perché fin quasi alla fine il film reggeva.

Per quanto riguarda gli attori, Di Caprio se la cava dignitosamente nel ruolo di protagonista, Jack Nicholson fa il solito personaggio gigionescamente luciferino già visto mille volte, ma se non altro lo fa bene. Pessimo invece Matt Damon, che mantiene per tutto il film la stessa faccia da poker. Inizialmente può anche andare d’accordo con l’impenetrabilità dell’infiltrato, ma alla lunga diventa pura inespressività.

La conclusione potete immaginarla: uno Scorsese si vede sempre volentieri, ma non ci siamo.

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Film : Scoop

ScoopDurante lo spettacolo di un illusionista la giovane Sondra, americana che studia giornalismo a Londra viene contattata dal fantasma di un reporter, che le rivela di aver scoperto prima di morire l’identità di un micidiale serial killer. Sondra si butta alla ricerca delle prove, coinvolgendo nella ricerca il malcapitato illusionista. Ma il presunto assassino è bello, ricco e fascinoso… possibile che sia lui?
Woody Allen qui sta evidentemente tentando di rifare in chiave comica il suo riuscitissimo film precedente, Match Point. Gli ingredienti ci sono tutti: stranieri a Londra che si trovano contemporaneamente sedotti e respinti dall’upper class, degli omicidi, il gioco del destino all’opera, le cose che non sono mai come sembrano… e in più questa volta c’è Woody, con un personaggio vagamente somigliante al protagonsita di Broadway Danny Rose e che spara battute a raffica. Gioco riuscito? Mica tanto. Certo, se quello che vi interessa è semplicemente sghignazzare di fronte all’umorismo alleniano, qui ne avrete una buona dose, e uscirete dal cinema soddisfatti. Ma se cercate la sottigliezza di Match Point, qui non la ritroverete. Scoop è al contrario un film piuttosto raffazzonato, con una trama piena di forzature (una stanza segreta che si può aprire solo dall’esterno? Andiamo!), un finale a sorpresa in realtà prevedibilissimo e, soprattutto, senza personaggi degni di nota. Woody ha costruito la sceneggiatura intorno al proprio personaggio, col risultato che la Johannson si limita a fargli da spalla, Hugh Jackman è un manichino (e non capiamo perché Sondra ne sia tanto affascinata…), il fantasma dimenicabile. Dove poi vorrebbe esserci simbolismo, ci sono piuttosto delle stanche autocitazioni. D’accordo, Woody, mi sono divertito lo stesso, lo ammetto; però stavolta hai avuto troppa fretta di fare il bis. Non sarà troppo, alla tua età, un film all’anno?

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Film: La Sconosciuta

La sconosciutaUna donna ucraina cerca lavoro come domestica in un paese del trevigiano. Sembra un’immigrata come tante, ma ha uno scopo segreto: con ogni mezzo cerca di introdursi in casa di una famiglia di orafi. Scopriremo il suo segreto solo alla fine.
Non sono un amante del cinema calligrafico di Tornatore, perciò le mie aspettative erano basse, ma questo La Sconosciuta è stato una sorpresa in positivo. Tutt la prima parte è un rarissimo esempio riuscito di noir all’italiana, con una tensione continua che a tratti fa pensare al miglior De Palma. Tornatore dirige bene, alternando il gotico grigiore dell’inverno cittadino a scene trasfigurate dai ricordi della protagonista, utilizzando una volta tanto a proposito la sua passione per il dettaglio (unico neo: non si capisce perché voglia convincerci che l’azione si svolge nell’immaginario paese di Velarchi in provincia di Treviso, quando è evidente fin dalla prima scena che il film è girato in una città piuttosto grande, nella fattispecie Trieste). Buona parte del merito va anche alla protagonista Xenia Rappoport, che riesce nel difficile compito di dare corpo a un personaggio fatto di tanti sguardi e poche parole, donandogli il giusto miscuglio di vulnerabilità e durezza. Notevole anche un irriconoscibile Michele Placido nei panni del Muffa, un trucido pappone.
Purtroppo la seconda parte non è all’altezza della prima: lo scoglimento della vicenda è arzigogolato, confuso (l’episodio del sabotaggio dell’auto sembra rispondere più alla necessità di togliere di mezzo un personaggio ingombrante che non alla logica delle vicenda), si perde in troppe spiegazioni, e non rinuncia a un finale positivo ad ogni costo, con tanto di violini morriconiani in sottofondo, di cui non si sentiva il bisogno. Fortunatamente, un indovinato e inatteso colpo di scena verso la fine impedisce al film di sbracare completamente, e il giudizio resta positivo.

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Film: A Scanner Darkly

Dal romanzo di Philip K. Dick. In un prossimo futuro, sempre più persone diventano dipendenti dalla sostanza M, una droga implacabile di origine sconosciuta. Bob Arctor è un poliziotto che si è infiltrato in un gruppo di tossici per scoprire da dove provenga la sostanza. Nessuno conosce la sua identità, nemmeno gli altri poliziotti, che incontra vestito di una speciale "tuta disindividuante" che impedisce di identificarlo. Il problema è che anche Bob è diventato un tossicodipendente, e i poliziotti, che sospettano di lui, lo incaricano, senza saperlo, di spiare sé stesso. Con il cervello distrutto dalla droga, Bob precipita in un vortice di paranoia… ma la realtà è ancora più terribile dei suoi peggiori incubi.
Il film è realizzato in rotoscope, una tecnica per cui disegni digitali vengono ottenuti a partire da riprese realizzate con attori veri (un cast di tutto rispetto: Keanu Reeves, Robert Downey Jr., Winona Rider, Woody Harrelson). Ed è questa probabilmente la sua pecca principale. La tecnica, infatti, toglie buona parte dell’espressività agli attori, cosa particolarmente grave in un film in cui ci sono moltissimi dialoghi e quasi nessuna azione (Reeves poi è inespressivo di suo, ma questo è un altro discorso). Una tecnica simile avrebbe i suoi vantaggi in un film ambientato in un mondo totalmente fantastico. Qui, invece, a parte le tute disindividuanti e un paio di brevi scene allucinatorie, tutto si svolge in comunissimi ambienti suburbani. Dato che pare che questo film sia costato uno sproposito, c’è da chiedersi se i soldi non sarebbero stati spesi meglio nell’usare effetti speciali convenzionali, lasciandoci vedere i veri attori. Insomma, esperimento interessante, ma non riuscito.
Al di là della tecnica usata, A Scanner Darkly si merita senza dubbio il premio per il film più fedele tratto da Philip K. Dick: ogni singola scena è tratta di peso dal romanzo, e non ci sono deviazioni dalla trama. Fa piacere che una volta tanto Dick non sia stato usato come mero pretesto per un filmetto d’azione decerebrato, e che tutti i suoi temi siano stati mantenuti con grande serietà. Tuttavia mi chiedo se tanta fedeltà non sia addirittura eccessiva. I dialoghi si susseguono uno dopo l’altro ma, senza un adeguato supporto visivo, non riescono a trasmettere per intero la carica paranoica del romanzo.
In definitiva, un film onesto, che fa del suo meglio per portare al pubblico un’opera importante e difficile, e che si guarda volentieri, ma che non è la pietra miliare che probabilmente si proponeva di essere.

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Ci risiamo!

GenesisAvevo detto che non ci sarei più ricascato. Però questa volta la notizia è vera: i Genesis si riuniscono per un tour e, forse, un disco. Dico che la notizia è vera perché anche sul sito ufficiale viene detto chiaramente che tra due settimane ci sarà un grande annuncio (e cos’altro potrebbe essere?).
A ridimensionare, di parecchio, l’entusiasmo vengono però le dichiarazioni di Peter Gabriel, che afferma chiaramente che lui non ci sarà. Salvo improbabili sorprese, tornerà quindi in pista il collaudato terzetto Banks/Collins/Rutherford.
Che dire? Io non sono tra coloro che disprezzano incondizionatamente l’output dei Genesis degli anni ’80 e ’90. Al contrario, in ciascuno dei loro dischi ci sono dei brani che apprezzo. Tuttavia, dopo anni di attività, e dopo che ciascuno di loro ha firmato dei dischi extragenesis completamente da dimenticare, non tengo sicuramente il fiato sospeso…

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Tempi moderni

Najib MahfuzOggi, sia il Corriere, sia La Repubblica pubblicano la notizia dell’apertura di una scuola araba a Milano, con relative proteste della Lega che teme, poverina, che sia un luogo dove si insegna ai bambini "un Islam violento". I due articoli sono talmente simili che è probabile che siano stati ricopiati dalla stessa notizia d’agenzia. Ambedue riportano che la scuola è dedicata "al filosofo arabo Nagib Mhalfuz". Non troverete questo nome inserendolo su Google, perché la grafia è sbagliata, qualunque metodo di traslitterazione si usi. Trovereste invece Najib o Naguib Mahfouz, che non è affatto un filosofo. E’ invece il più noto scrittore egiziano, vincitore del premio Nobel per la letteratura. E non solo: uno scrittore progressista, a lungo impossibilitato a pubblicare nel proprio paese, tanto odiato dai fondamentalisti islamici che uno di loro lo accoltellò e quasi riuscì a togliergli la vita.
Dunque, riassumiamo. Con il patrocinio del consolato egiziano, viene aperta a Milano una scuola araba. Non una scuola islamica, ma una scuola in lingua araba, così come ce ne sono in lingua inglese, francese, tedesca. La scuola viene intitolata a uno dei più illustri nemici del fondamentalismo islamico. Ciònonostante, i leghisti sbraitano come se si trattasse di una scuola per terroristi, con accenti degni del peggior razzismo. E cosa fanno i due maggiori quotidiani italiani? Non si accorgono neppure di chi si sta parlando. Sbagliano il nome, lo confondono con qualcun altro. Per loro, è il caso di dirlo, è arabo. All’ignoranza aggressiva dei pochi si aggiunge come un macigno l’ignoranza noncurante di chi avrebbe il dovere di informare. Mi pare una perfetta metafora della situazione generale.

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Parole come pietre

"Basta che uno sia stronzo, volgare, insulti la gente e spari cazzate razziste e qualunquiste e subito troverà legioni di persone disposte a difenderlo citando Voltaire."

La frase di cui sopra l’ha detta mia moglie. Ma la cito tra virgolette perché è una grande, triste verità.

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Stiamo lavorando per voi…

Forse qualcuno di voi si sta chiedendo perché ultimamente ho agigornato poco il blog.
La verità è che ero all’estero per lavoro.
Se non ci credete, ecco la documentazione fotografica:

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